Bruciava, quasi un anno e mezzo fa, con motivazioni probabilmente dolose, una parte consistente del campo di Cupa Perillo, a Scampia, dove abitavano all’epoca quasi settecento rom, per buona parte cittadini napoletani. Circa sessanta di questi napoletani sono rimasti per quindici mesi all’interno dell’auditorium di Scampia, una struttura fatta per ospitare attori, registi e spettatori, e non certo brande e inquilini. Eppure, dopo mesi di promesse a vuoto su soluzioni a breve e lungo termine, il comune di Napoli non ha trovato di meglio che proporre alle famiglie dell’auditorium una somma più simile a una misera buonuscita che a un provvedimento di welfare. Tanti rom, logorati dall’incertezza, hanno accettato, sparpagliandosi tra vari campi della città e della provincia. Altri, che non avevano subito direttamente l’incendio, hanno lasciato Cupa Perillo per sistemarsi in altri campi più “sicuri”, cedendo alle minacce di sgombero da parte di polizia e vigili urbani. Oggi il campo continua a esistere; non è stato bonificato; non sono state avviate soluzioni per il suo superamento; intanto decine di famiglie si sono disgregate, le comunità si sono sparpagliate su un territorio vastissimo, molti bambini – sballottati da un quartiere all’altro – hanno smesso di andare a scuola, interrompendo il faticoso processo di “normalizzazione” delle loro vite, più che di integrazione.
Il caso di Scampia è quello che ha fatto più rumore nell’ultimo anno. Ma raramente come negli ultimi mesi, la situazione dei cittadini rom che abitano Napoli e la sua provincia è stata così delicata. Per questo, nella giornata di mercoledì, più di cinquanta persone si sono riunite proprio sopra l’auditorium di Scampia, nel ristorante rom-napoletano Chikù, raccontandosi le criticità del momento e provando a elaborare delle soluzioni.
C’erano i rom di Cupa Perillo, a fare gli onori di casa, e gli attivisti di Chi rom e chi no. C’erano i rom di Acerra, messi in fuga anch’essi da un incendio anni fa (Scampia, 1999). Per loro – un centinaio circa – lo sgombero “inderogabile” è previsto per il 26 febbraio. Nell’attesa, il sindaco Raffaele Lettieri si rifiuta di incontrarli, rilasciando dichiarazioni del tipo: «Sono sulla linea del governo». «Non ci sono alternative allo sgombero». «I bambini andranno in casa famiglia. Gli adulti che si faranno trovare sul posto verranno identificati e denunciati».
C’erano poi i rom di Casoria, che abitano dagli anni Novanta in un campo sottostante un ponte della tangenziale, e che oggi, come racconta Dragan, rischiano «di tornare indietro di trent’anni e buttare via tutto quello che ci siamo conquistati, a cominciare dalla scolarizzazione dei nostri ragazzi, alcuni dei quali frequentano anche le superiori». Il campo di Casoria, infatti, (altre cento persone) è oggetto di un’ordinanza di “sgombero e ripristino” la cui ultima notifica risale al 26 dicembre. Il commissario prefettizio Santi Giuffrè (che ha sostituito il sindaco Fuccio) vive a Milano, e nemmeno le associazioni che lottano per la difesa dei diritti dei rom riescono a ottenere un incontro.
Ancora, c’erano i rom di Gianturco, che da due anni vengono allontanati da un posto all’altro (tre sgomberi in venti mesi): erano mille e trecento a inizio 2017, oggi sono duecentocinquanta. Dove sono andati, è facile immaginarlo; c’erano infine i rom di Giugliano, anche loro vittime di sgomberi nell’ultimo anno, e che hanno dovuto aspettare quattro mesi perché un pullman del comune venisse a prendere i loro bambini al campo e li portasse in una scuola (naturalmente a svariati chilometri di distanza); erano presenti anche una ventina di attivisti di vario genere, un prete, tre giornalisti, un consigliere di municipalità (Stefano Di Vaio – Partito Democratico), un consigliere comunale (Laura Bismuto – DemA).
La situazione emersa dall’assemblea – uno dei rari momenti in cui le comunità provenienti dai differenti campi sono riuscite a riunirsi e confrontarsi – è quindi di assoluta emergenza. Considerando le realtà critiche in un’altra decina di campi tra Secondigliano, l’area est e la provincia; il contesto nazionale e i segnali che arrivano dal ministero degli interni; la propaganda di amministratori locali (vedi il caso Acerra) che cavalcano gli sgomberi; considerando tutto ciò, c’è la concreta possibilità che da qui a qualche mese diverse centinaia di persone (quasi due terzi, in media, sono minori) si ritrovino per strada, senza neppure quella lamiera sulla testa che troppo spesso sono costrette a considerare un tetto.
Se un’emergenza rom esiste, insomma, non è quella raccontata da Salvini invocando ruspe al grido di «siamo invasi!» (a Napoli la popolazione rom costituisce lo 0,25% circa della popolazione), ma una piccola – per numero, non certo per gravità – emergenza umanitaria nel cuore delle nostre città. Questo, certo, lo sanno in tanti: lo sanno i militanti dei movimenti cittadini, sempre troppo pochi quando si parla di battaglie per i rom; lo sanno le istituzioni civili, la scuola e la chiesa su tutte, incapaci di prendere una posizione politica che non sia assistenzialista o caritatevole; lo sanno le istituzioni internazionali, evidentemente preoccupate per la situazione (sotto stretta osservazione ci sono proprio in queste ore i casi Milano, Roma e Napoli), ma i cui interventi e le cui sanzioni lasciano indifferenti gli esecutivi in carica; lo sanno ancora meglio quelle locali, la cui preoccupazione principale è adoperarsi per non affrontare il problema.
Il “che fare” diventa allora una domanda retorica e anche un po’ deprimente, a maggior ragione se questo stesso scenario, e le condotte di quei presunti interlocutori che un briciolo di potere lo detengono, non sono del tutto chiare nemmeno a quelli che si pregiano di “essere al fianco del popolo rom”, o “voler dare un contributo alla causa”. E allora persino in una assemblea così importante e così ben preparata, tocca ascoltare da attempati preti di frontiera e da barricadere consigliere comunali, proposte per un ennesimo censimento (ne sono stati fatti a decine, dalle diverse associazioni, come se il problema reale fosse se i rom in un campo sono 655 o 700), di un manifesto firmato dalle maestre elementari (sic.), della necessità di «coinvolgere il sindaco della città metropolitana», che poi è la stessa persona che ha segregato una parte dei partecipanti a quella stessa assemblea per un anno in un teatro. Fortunatamente questo genere di proposte non provengono mai dai rom, e alla fine ha prevalso una soluzione di buon senso: all’inizio del prossimo mese di febbraio ci sarà una manifestazione davanti alla prefettura, con la quale si cercherà di coinvolgere tutte le comunità della città e della provincia, e che chiederà il blocco immediato di tutti gli sgomberi. Una richiesta quasi provocatoria, considerando le idee in materia del governo, ma che potrà essere il primo passo per un reale scontro in campo aperto (dove finalmente diventeranno chiari gli alleati e gli avversari), quale è quello che attende i rom e chi si impegna realmente al loro fianco, nei prossimi mesi. (riccardo rosa)
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