Ad Alfredo fin da bambino avevano insegnato a parlare solo se interpellato, ma siccome non veniva interpellato mai, era venuto su taciturno. La sorella imparava il mestiere di estetista in un negozio di via San Carlo, riteneva il fratello un estraneo e di fatto lo ignorava anche se gli voleva bene. Sua madre era una casalinga dal cuore tenero, viveva ogni giorno infelice uguale all’altro e soffriva in silenzio mentre guardava suo figlio crescere senza aspirazioni. Suo padre, benzinaio alla pompa di viale Lincoln, usciva presto la mattina e tornava tardi la sera, con i panni che puzzavano di nafta.
Questa era la famiglia di Alfredo. Proletari della provincia meridionale senza pretese. La vita era scandita da poche ma ineluttabili certezze. Il sabato al mercato rionale, la domenica in chiesa o allo stadio, nei giorni feriali i servizi in casa e al lavoro senza lamentarsi, come quando c’era la terra da zappare. Due o tre programmi fissi alla televisione. Ai vicini di casa e alla gente del rione, buongiorno e buonasera. Alcuni compagni di Alfredo tenevano la mangiatoia bassa. Lui invece riempiva il salvadanaio da almeno tre anni e il telefono di casa era bloccato da un lucchetto per evitare bollette salate. L’altra parte dell’educazione, Alfredo l’aveva acquisita direttamente o indirettamente dalla parrocchia di San Pietro e dal campo di pallone nei pressi dell’ospedale.
Una sera d’autunno, dopo cena, affacciato alla finestra della sua camera di un appartamento di ottanta metri quadri in affitto al quarto piano di una palazzina del rione, Alfredo si mise a riflettere sul da farsi mentre squagliava un pezzo di fumo. Da lontano una sirena dell’ambulanza. Arrotolando la canna osservava quel campo in cui aveva imparato a calciare e a ragionare, e con lo sguardo abbracciava una vasta distesa di cemento, campanili e tetti di caserme. Fu quella sera che Alfredo decise di andare via.
Si diresse in ripostiglio, aprì la cassetta degli attrezzi di suo padre, prese il martello e ritornò in camera. Guardò per due minuti il salvadanaio, dopodiché con un colpo secco lo fece in mille pezzi. Uscirono soldi di carta e spiccioli sparpagliati sulla scrivania. Alfredo iniziò a contarli eccitato: più o meno centoventimila lire. Sua nonna prima di morire gli aveva lasciato altri soldi ricavati dai buoni fruttiferi postali: quattrocentomila lire. Niente di che, ma abbastanza per la partenza.
A diciott’anni compiuti tra il Novantanove e il Duemila, Alfredo si ritrovava con un diploma di ragioneria in tasca e senza un lavoro. Era risultato non idoneo al servizio militare per via dell’asma. Suo padre gli aveva trasmesso la passione per lo stadio e basta, non voleva che lavorasse alla pompa di benzina, e poi Alfredo odiava a morte quella puzza che si sentiva a zaffate quando il padre tornava a casa la sera. Poi un giorno il genitore gli aveva detto: “Ti devi dare da fare”. Allora Alfredo aveva comprato una camicia bianca, dei pantaloni neri e aveva trovato lavoro come barista in un locale di via Mazzini, nel quartiere bene. Una settimana dopo il proprietario del bar lo squadrava da capo a piedi con aria schifata: “E tu così vieni a lavorare?” – indicando le scarpe da ginnastica consumate che stonavano rispetto al resto dell’abbigliamento. Alfredo non seppe cosa rispondere e un istante dopo sentì di nuovo la voce perentoria: “Tornatene a casa e non farti più vedere”. Il proprietario di quel bar morì suicida qualche mese dopo a causa dei debiti. Almeno così dicevano in giro.
Alfredo viveva alla giornata, come tanti suoi coetanei. Qualche lavoretto qua e là, come ragazzo delle consegne di caffè, in una pizzeria come cameriere, a mettere i volantini pubblicitari nelle cassette postali dei palazzi. Riservato, appariva agli occhi della comunità disgregata dei suoi amici come uno di cui potersi fidare per il semplice fatto che non parlava troppo. Il profilo basso lo teneva al riparo dalle malefatte. Si teneva lontano dalle droghe pesanti, ma gli piaceva fumare.
Alla madre aveva detto che voleva andarsene e lei aveva fatto di tutto per dissuaderlo, ma Alfredo ormai aveva deciso. Come se avesse avuto un’illuminazione, un impeto d’orgoglio; aveva scelto di andarsene per sentirsi padrone di se stesso. E poi, queste scelte si prendono con risolutezza, senza esitazioni, perché se cominci a indugiare quando sei al bivio di sicuro sbagli strada.
In tanti prima di lui erano partiti, se n’erano andati e non s’erano più visti in giro, al massimo tornavano per le feste comandate; raccontavano di grandi città, di immense opportunità, si atteggiavano a uomini di mondo. Non c’era tempo per rimpiangere, per sentirsi in colpa di emigrare, per riflettere su come sarebbe andata se invece fossero rimasti tutti là, magari rivendicando qualcosa – uno spazio di azione collettiva, la giustizia sociale, la libertà… Erano in trappola. Colpevoli solo di essere nati là e non altrove. Non ci si poteva dannare quando si decideva di andare via da un posto come quello, che non ti dava niente e che sminuiva anche ciò che eri in grado di dargli.
Alfredo si apprestava a partire prima di Natale. “Almeno aspetta dopo le feste”, gli aveva detto la madre. Niente. Per non vacillare, a stento la guardava in faccia quando lei gli parlava. La sorella lo invidiava perché vedeva nella sua decisione repentina un atto di coraggio, una sfida al destino che una come lei invece doveva fatalmente accettare. Quel coraggio lei non l’aveva, o credeva di non averlo perché qualcuno gliel’aveva messo in testa nei secoli dei secoli.
Suo padre era venuto a saperlo dalla madre, una sera di ritorno da lavoro. Aveva reagito con un’alzata di spalle, ma dentro di sé soffriva la scelta del maschio primogenito. “Facesse come vuole”, aveva detto alla moglie girandosi nel letto. “Ormai è grande. Io di soldi non gliene posso dare”.
Alfredo aveva il volto della malinconia, gli occhi azzurri, i capelli chiari e l’aria di chi sta sempre altrove con i pensieri. Era un disinteressato, di indole quieta, e forse anche per questo suscitava l’interesse di chi gli stava intorno. Mentre i suoi amici erano degli assatanati lui appariva come distratto, e il fatto che nessuno sapesse cosa gli passava per la testa creava intorno a lui un alone di mistero e fascino. Un mistero e un fascino che Alfredo ignorava. Gli amici gli dicevano: “Alfre’, ma dove te ne vai? Tanto ti fottono ovunque. Guarda che questo è l’anno buono che andiamo in serie C”. Lui neanche rispondeva. Giocava bene a pallone perché era dotato di intelligenza tattica ma non aveva perseverato per via dell’asma, e alla fine aveva trovato il suo sfogo sulle gradinate. E poi in quel paese di provincia era difficile emergere come muratore, figuriamoci come calciatore. Era cresciuto in terra di lavoro: la mozzarella di bufala, le cave abbandonate e quelle ancora da predare, la Casertana per trenta giorni al mese. Il gol su punizione da trenta metri di Fermanelli allo Stadio Arechi al novantatreesimo, e Fermanelli che percorre tutto il campo per andare a esultare sotto al settore dei tifosi ospiti. Una camorra che non aveva mai avuto il bisogno di sparare.
Forse gli mancava il cinismo della provincia, come quello dei suoi coetanei del rione che per noia passavano il tempo a mortificare un pover’uomo di nome Gennaro e di soprannome “Posa la gallina”, chiamato così perché da ragazzo aveva rubato una gallina e il proprietario, scoprendolo, lo aveva preso a bastonate. Quando Gennaro camminava per i fatti suoi nel rione, lo sguardo basso rivolto verso terra, capitava che qualcuno lo chiamasse all’improvviso da lontano: “Genna’!”. Lui alzava la testa e si voltava di scatto verso la voce ignota, come se lo avessero svegliato dal sonno: “Chi è?”. E quelli in coro, prima di scappare: “Pos’ ‘a vallin!”.
Alfredo decise di lasciare tutto questo e l’11 novembre 2001, a due mesi dagli attacchi alle Torri Gemelle, partiva per Torino. La madre gli aveva messo nello zaino una frittata di maccheroni per il viaggio e una busta da aprire categoricamente alla vigilia di Natale. Il padre era riuscito a dirgli solo una cosa prima di vederlo partire: “Non farti mettere i piedi in testa”. Nella stazione quella sera, mentre aspettava il treno Espresso insieme a qualche soldato e tre marocchini, tirava un vento gelido proveniente da nord, e pioveva a scrosci. Acqua e vento. Alfredo pensava a quello che stava per lasciarsi alle spalle. Qualche buon amico, una vaga idea di casa, le domeniche allo stadio, il primo amore. La fine dell’adolescenza. Non sapeva niente di ciò che lo aspettava, sarebbe stato il primo Natale lontano dalla famiglia, eppure sembrava pronto ad affrontare qualsiasi incognita. Aveva una paura che a stento teneva a bada. Si sentiva solo contro il mondo.
Il treno arrivò in orario. Alfredo gettò il mozzicone di sigaretta tra i binari, sputò a terra e prima di salire, senza voltarsi indietro, sussurrò tra sé per farsi coraggio, insicuro e determinato come il ladro un istante prima della rapina in banca: “Affanculo. Io me ne vado”. (pomé)
Leave a Reply