Lo stato della città. Napoli e la sua area metropolitana è un libro collettivo uscito nell’aprile 2016 per le edizioni Monitor. Un volume di 536 pagine, con 68 autori che comprende 86 articoli, saggi, storie di vita, grafici e tabelle. Da qualche mese esiste un sito con lo stesso nome, nato con l’obiettivo di rendere progressivamente disponibile l’intero libro, ma soprattutto di aggiornare con il passare del tempo tutti i contributi, a cominciare da quelli basati su dati annuali, per costruire un archivio in movimento delle questioni aperte nell’area metropolitana. Proponiamo a seguire uno dei contributi inediti, pubblicato qualche giorno fa.
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Carla Melazzini. Insegnare al principe di Danimarca
di Salvatore Pirozzi
Riletto dopo anni, questo libro ancora sorprende, quasi come un Om, un rumore di fondo a cui aggrapparsi per non naufragare nel pensiero unico sulla scuola, una voce che senza urlare ci dice che un altro sentimento educativo, più attuale e necessario, è ancora possibile. Un sentimento che si condensa intorno alla relazione con i ragazzi che ci affanniamo a definire “a rischio”, “difficili”, ma che ben presto ci allena a guardare diversamente tutta l’adolescenza, anche quella all’apparenza dorata dei licei; ci allena a guardare a noi stessi, adulti ormai incapaci di guardarci dentro, e sofferenti per questa incapacità. Certo, “stare a sèntere” è possibile solo se sentiamo la sofferenza, e solo se siamo capaci di sentire che questa sofferenza è una voce, una voce potente, come un ultrasuono che solo orecchie allenate possono percepire come significante. Una voce che vuole interrompere il circuito dell’etichetta, il potere di dare nomi alle persone da parte di persone che nessuno ha delegato a essere la voce di altri. Quella voce – ed è la stessa cosa se si manifesta nell’urlo o nel silenzio dei ragazzi – parla delle persone che sono oltre gli standard, oltre i recinti dei “casi”, delle diagnosi e delle terapie. Stare a sèntere la sofferenza significa stare ad ascoltare le voci che ci dicono: mo’ vi diciamo noi qualcosa su di noi. La sofferenza non è solo un’informazione, un indizio di patologia, è il paziente che dice qualcosa di politico su di sé, descrive quale politica dovrebbe inaugurare la città, oltre e contro medicalizzazioni e classi differenziali e carità varie.
La grandezza di Insegnare al principe di Danimarca non sta per nulla nell’afflato con cui ci avvicina a un mondo che attraversiamo senza starlo a sèntere, anche se è lontanissimo dall’effluvio di baci perugina che le retoriche sulla relazione ci vomitano addosso. No, Carla ci ha insegnato anche a sfuggire alla melensaggine. Leggete piano, leggete attenti: c’è un mondo di pratiche, tanto minute quanto efficaci, alle quali attingere. Una disposizione pedagogica ricca di attrezzi. La “cassetta degli attrezzi” era metafora amata da Carla per sottolineare la ricchezza emotiva e strumentale dell’artigianato pedagogico; non un algoritmo, non una programmazione, ma un incontro, sempre e comunque, che si metteva, e ci metteva, in moto solo se l’altro, il ragazzo o la ragazza, cominciava, per quanto flebilmente, a parlare di sé; se solo allora, con questo gesto di riconoscimento, certificava la significanza dell’incontro.
Una lingua antica
Sèntere, come ci suggerisce il dizionario, è un ascolto che “include anche gli affetti dell’animo”. E questi affetti devono saper diventare parola. Chiunque legge il libro di Carla è colpito dalla qualità della parola. Ma non è una parola che trasmette informazioni o strumenti, la parola di un manuale. È una lingua che narra l’esperienza di un apprendimento degli adulti basato sulla capacità di stare a sèntere l’adolescenza.
La tesi è questa: più è lontana da ogni lingua specialistica sulla scuola o sull’adolescenza o sull’apprendimento, più la lingua del libro di Carla è potente, tanto più fa capire la profondità dell’esperienza, costruisce un sapere.
Non propongo un’analisi stilistica, ma un’attenzione alla lingua del libro, che, bellissima copia e superba rappresentazione, rimanda all’universo linguistico dell’esperienza dei maestri di strada; un’attenzione al suo emergere al di fuori delle frasi fatte, delle gergali lingue delle lobby degli esperti (i testimoni sono ben altro). Questo non significa che ci troviamo di fronte a una lingua ingenua; siamo, anzi, di fronte a una lingua antica, che affonda la sua potenza espressiva nella grande cultura di Carla. Una volta, suggerendo delle letture ai docenti Chance, Clotilde Pontecorvo disse: “Bisogna leggere ai margini”, intendendo dire che non era utile leggere gli specialisti. La lingua di Carla è addirittura a monte, conficcata nella grande letteratura (Dostoevskij, Leopardi, Ariosto, Gogol, Freud, Tolstoi, Winnicott, Ilich, Bruner, Bettelheim), che le consente di leggere l’universo adolescenziale meglio di ogni “pedagogese”. Solo una lingua così “inesperta” poteva raccontare l’esperienza di un incontro antropologico e linguistico perturbante.
La semplicità della lingua di Carla corre il rischio di non farci comprendere quanto invece la cultura e lo studio siano oggi necessari per costruire ipotesi, atteggiamenti e strumenti di intervento. È una lingua dell’approssimazione, dove l’approssimazione non è qualcosa di pre-scientifico, al contrario: è la scelta di prendere una strada laterale, l’unico modo per addentrarsi in un territorio che sembra troppo familiare, guardandolo dai confini e scoprendovi aperture, sconfinamenti, zone franche (Carla definisce Chance come una zona franca). La lingua dell’approssimazione è, come dice Carla, una lingua che apprende camminando. E questo è un insegnamento o, se volete, la suggestione di un metodo da trasferire.
Chance e la scuola normale
Carla pone il problema della irriducibilità dell’esperienza di Chance – scuola della seconda opportunità – alla scuola normale, e talvolta si esprime in termini apodittici: “La scuola ha messo in atto la sua reazione di rigetto non solo verso i ragazzi ma verso coloro che di essi si prendevano particolare cura su mandato della scuola medesima. E questo la dice lunga sulla vera natura dell’istituzione scolastica”. Oppure: “L’educazione è troppo spesso addestramento alla sottomissione e all’ipocrisia, qualità tipiche di quei ceti sociali che sempre sono i più disponibili ad affidarsi alle sicurezze del potere totalitario”.
Questa è una grande aporia che il libro testimonia: da un lato la sfiducia istituzionale, dall’altro un lavoro continuo, appassionato, per ottenere sempre il meglio, se non il successo. Il pessimismo non ha mai fornito alibi alla fuga o all’iper-dedizione ineffabile e individualistica. L’aporia è stata tenuta insieme dalla “moralità”, intesa come mores, come comportamenti, come comportamento cittadino per eccellenza; una moralità che riesce a contenere le oscillazioni.
Di fronte al sapere lineare, quantitativo e classificatorio (il monitoraggio, le anagrafi, ecc.) della scuola, c’è una esperienza che descrive il processo ondulatorio della conoscenza, così come ondulatoria, e quindi inclassificabile, appare l’adolescenza e il processo stesso di apprendimento (laddove “il tempo della scuola è predeterminato”). Di fronte al tempo della programmazione si erge il tempo della crescita individuale. La conoscenza è sempre sperimentale. Il prezzo che si paga “in termini psicologici, è un continuo ondeggiare tra illusione e delusione”. (continua a leggere)
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