È arrivata ieri pomeriggio la notizia dello stop ai licenziamenti previsti per le prossime settimane, nello stabilimento di Carinaro, da parte della multinazionale Whirpool-Indesit. L’amministratore delegato per l’Italia della compagnia ha confermato il mantenimento del discusso piano industriale, ma ha garantito ancora tre anni di lavoro ai dipendenti, impegnandosi l’azienda, in questo frangente, “a ricercare progetti è attività che creino occupazione, con particolare riferimento alle regioni Campania e Piemonte”.
Sono le quindici di venerdì 8 maggio quando arrivo ai cancelli dello stabilimento produzione di Carinaro. Al presidio non vedo Sebastiano. Provo a contattarlo ma non mi risponde. Dopo una decina di minuti mi arriva sul cellulare una foto che lo ritrae con altri compagni a piazza di Montecitorio. Sono partiti all’alba, in cento. Temevano di essere bloccati alla stazione e per questo hanno deciso di partire senza comunicarlo alla questura e agli organi di stampa. Ora sono in picchetto davanti alla camera dei deputati accerchiati da polizia e carabinieri. A un chilometro e mezzo di distanza, al ministero dello sviluppo economico, si sta svolgendo l’ultimo incontro tra governo, azienda e sindacati per decidere della loro sorte e di quella di altri milleduecento operai.
Dai cancelli della fabbrica Gerardo accenna un saluto. Appartiene alla cerchia degli irriducibili, quelli che da quasi un mese, senza tregua, pianificano le azioni e organizzano la lotta all’Indesit per la difesa del posto di lavoro. Dopo un po’ si avvicina e m’invita a prendere il caffè davanti alla guardiola, nel piazzale interno allo stabilimento. Ci tiene a raccontarmi la sua storia.
«Questo lavoro l’ho sempre schifato e adesso mi tocca pure difenderlo. Mi hanno fatto sgobbare come un ciuccio e adesso devo anche rimpiangere quei momenti! Devi sapere che in questi stabilimenti i ritmi di lavoro sono sempre stati elevati. Tu avevi una certa quantità di produzione da realizzare e un tempo previsto per la sua realizzazione, ma la catena di montaggio si fermava sempre mezz’ora prima di questo tempo previsto. Lascio a te immaginare il perché!».
Gerardo è una delle tante rotelle dell’ingranaggio produttivo della fabbrica. Su ogni linea di produzione gli operai come lui eseguono diverse fasi per ognuna delle quali è previsto un tempo preciso di esecuzione. Sulla base di questi tempi ogni azienda definisce gli obiettivi di produzione. I movimenti sono semplici e sempre uguali. Il volto di chi li compie gronda spesso di sudore. «Qui all’Indesit la velocità delle linee è sempre stata più alta rispetto agli altri stabilimenti. La direzione alcuni anni fa decise di aumentare ulteriormente la velocità. Inserirono dei pulsanti verdi sulla linea in modo tale che quando l’operaio aveva completato la sua fase, poteva schiacciare il pulsante e far scorrere il pezzo sulla linea senza aspettare che questa scorresse automaticamente in base al tempo stabilito dai tecnici per ogni singola fase di lavoro. Questo ti consentiva di finire prima. A livello psicologico, tu operaio che sei sempre incollato alla catena, tendi a schiacciare perché pensi di finire prima e non ti accorgi che sei tu stesso ad aumentare il ritmo di produzione. Questi pulsanti non erano a norma perché se una catena di montaggio ha una certa cadenza, quella cadenza va rispettata e basta. Io non schiacciavo mai e rallentavo sempre la linea. Il mio responsabile di linea veniva e si metteva al mio posto per recuperare un po’, altrimenti si pigliava pure lui la “cazziata” dal caporeparto. Lui recuperava e io stavo seduto perché sapevano che con me dovevano stare buoni».
In ogni fabbrica dopo tre contestazioni da parte dell’azienda l’operaio rischia il licenziamento. Gerardo ne ha avute tredici. Due di queste l’hanno portato dinanzi ai banchi dei burocrati dell’ispettorato del lavoro; anche loro gli hanno dato ragione. Lavora all’Indesit dal 1994 e nessuno è mai riuscito a cacciarlo dalla fabbrica. «Prima di entrare all’Indesit lavoravo come stagionale in un tabacchificio a Caserta. Lo facevo per arrangiare. Era un lavoro molto pesante perché arrivavano i contadini con il tabacco imballato e noi dovevamo caricarlo su dei camion enormi che lo trasportavano al Monopolio di Stato dalle parti di Afragola. Ho lavorato per quasi sette anni in questo tabacchificio e dopo mi sono ritrovato disoccupato…».
A mediare per l’assunzione di Gerardo in fabbrica fu un vescovo. Mediò per lui e per altri trenta ragazzi affinché i loro contratti di formazione venissero trasformati a tempo indeterminato. Lo fece dopo un corteo terminato con una serie di scontri sotto la prefettura di Caserta. «Dal ’94 in poi ho fatto solo sacrifici. Ricordo ancora i primi sei mesi di lavoro. Di sera tornavo a casa e di notte sognavo i frigoriferi che montavo. Nel sogno avevo paura che non ce la facessi a finire di montarli. Dopo sei mesi fui trasferito insieme a un altro ragazzo nello stabilimento accanto».
L’alienazione è sempre stata direttamente proporzionale alla produttività e all’efficienza. Una normale catena di montaggio richiede molta fatica. Le catene di montaggio degli stabilimenti di Teverola e Carinaro non sono mai state delle catene normali. La loro taratura ha sempre assecondato le pressioni del management e le esigenze dei mercati. Il progetto “Porsche” ne è stata la prova evidente. Porsche è il nomignolo affibbiato dagli operai di Teverola e Carinaro al progetto di Manufacturing Excellence (IME) promosso da Indesit Company con l’obiettivo, secondo il management, di creare valore attraverso l’eliminazione degli sprechi e una gestione più agile del processo di produzione riducendo tempi e costi; si trattava in realtà di un progetto ad altissima intensità di lavoro che dal 2011 al 2013 ha consentito agli stabilimenti della Indesit Company di Teverola di produrre più di seicento lavatrici al giorno su ogni linea fatturando milioni di euro.
«Il progetto – continua Gerardo – fu avviato per la produzione di una nuova lavatrice, quella da nove chili, e fu realizzato grazie al sacrificio di tutti gli operai. Durante questo progetto, sulle catene di montaggio non si riusciva nemmeno a bere un bicchiere d’acqua. Il pezzo passava così velocemente che era impossibile anche soffiarsi il naso. Le catene erano tarate su una velocità assurda. Lo chiamavamo progetto Porsche. Nemmeno i bisogni più elementari riuscivi a soddisfare. Tornavamo a casa stremati. I turni erano di sette ore e trenta, con quindici minuti di pausa. Tra colleghi ci prendevamo in giro dicendo che per bere ci voleva il beverino che hanno i conigli nelle gabbie. Era una cosa allucinante e non c’era una postazione che aveva dei ritmi diversi da questi. È durato solo due anni ma sono stati anni duri. L’unica cosa che ci faceva andare avanti era il fatto che l’azienda aveva deciso di portare qui la produzione di questa lavatrice da nove chili».
L’obiettivo della multinazionale era in sostanza quello di aumentare la produttività degli stabilimenti lasciando invariato il costo del lavoro. Ciò era possibile solo ridisegnando l’organizzazione del lavoro, sincronizzando tutte le fasi del processo ed eliminando i tempi morti. In pratica si trattava di incidere sui metodi di lavoro, sui turni, sulle pause, sugli orari, al fine di recuperare velocità e quindi efficienza.
Peppe ha lavorato per vent’anni di fianco a Gerardo. Ha partecipato anche lui al progetto Porsche. I suoi ricordi parlano di un ordinamento severo che non lasciava impunita nessuna forma di infrazione alla disciplina di fabbrica. «I ritmi erano esagerati e non potevi sottrarti. Il lavoro che normalmente sulla catena si faceva in dodici persone, noi eravamo costretti a farlo in sette. Quel ciclo di lavoro, per essere normale, aveva bisogno quasi del doppio di manodopera. Le uniche armi che aveva l’operaio sulla catena erano i giorni di malattia e l’infermeria. Erano le uniche difese per non esaurirti. Molti erano costretti a inventarsi una malattia pur di fermarsi un po’. Ad alcuni veniva addirittura negata l’infermeria. Io ho avuto un rapporto proprio a causa di questo motivo. Quando ti ribellavi e l’azienda non riusciva a fermarti tramite i rappresentanti sindacali, allora partivano le lettere di contestazione. Ti arrivava la contestazione e andavi a discutere in una stanza alla presenza del rappresentate sindacale, che nella maggior parte dei casi prendeva le difese dell’azienda, e con il responsabile del personale. Era in sostanza un modo per intimidirti, per farti abbassare la testa e farti fare ciò che volevano loro. Il silenzio dei delegati veniva ricambiato dal responsabile del personale con favori e concessioni: trasferimenti, mobilità di reparto, assunzioni…».
Il premio conferito nel 2013 agli operai di Teverola per la partecipazione al “progetto Porsche” fu la chiusura dello stabilimento e il trasferimento delle attività in un altro paese; la multinazionale, nella lunga corsa al profitto, aveva bisogno di una macchina ancora più veloce della Porsche e soprattutto di una strada priva di ostacoli.
È ormai sera quando provo a ricontattare Sebastiano. È sul treno con i compagni in direzione Caserta. Al ministero hanno calendarizzato altri incontri per il mese di maggio. Al presidio intanto gli operai si danno il cambio. Arrivano accompagnati dalle mogli. Tra le mani stringono sacchi traboccanti di birre e panini. Gerardo e Peppe sono ancora lì e ci resteranno per tutta la notte. (giuseppe d’onofrio)
Leave a Reply