L’11 marzo scorso – due giorni dopo le rivolte che hanno coinvolto i detenuti nella maggior parte delle carceri italiane e durante le quali sono morti tredici tra questi – il ministro della giustizia Bonafede si presenta in parlamento per una “informativa sull’attuale situazione nelle carceri”. Nel suo discorso Bonafede appare in balia degli eventi. Condanna con generica retorica le violenze dei detenuti, elenca una serie di provvedimenti che avrebbe preso nei primi giorni di emergenza Covid l’amministrazione penitenziaria, ringrazia il personale degli istituti e prova a lavarsi le mani rispetto alle criticità del sistema, addossando le colpe delle condizioni delle prigioni italiane alla cattiva gestione dei decenni passati.
Tra i provvedimenti che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avrebbe dovuto prendere nei giorni dell’emergenza ce ne sono alcuni che, ancora oggi, a distanza di mesi, non hanno visto la luce. Il più rilevante riguarda quella che viene definita, in una nota del 26 febbraio, una necessaria e “capillare attività di informazione e sensibilizzazione della popolazione detenuta perché […] questa possa condividere eventuali disposizioni da adottare, soprattutto con riferimento alla temporaneità delle stesse, per limitare le occasioni di contagio o lo sviluppo e la diffusione del virus negli istituti”. Il riferimento è alla condivisione con i detenuti, e alla comunicazione tempestiva (entrambe mai avvenute), della transitorietà e delle motivazioni emergenziali alla base del provvedimento sulla restrizione dei colloqui con le famiglie.
L’intera informativa del ministro si configura come una difesa d’ufficio del capo del Dap dell’epoca, Basentini (poi defenestrato dopo le polemiche televisive sulla scarcerazione dei capi mafiosi durante l’emergenza Covid), mentre la morte di quattordici detenuti viene liquidata con poche parole e derubricata come una questione della quale si occuperà la magistratura.
Sette mesi dopo, Bonafede viene nuovamente chiamato in causa – dopo non aver risposto all’“interrogazione urgente” della senatrice Nugnes del 20 aprile –, questa volta da un’interpellanza firmata dal deputato radicale Riccardo Magi e dall’autonomista trentino-tirolese, presidente del gruppo misto, Manfred Schullian. I deputati chiedono conto degli eventi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere un mese dopo le rivolte di marzo, e per la precisione tra il 5 e il 6 aprile 2020. In riferimento alle violenze ai danni dei detenuti commesse da un plotone di oltre trecento agenti penitenziari provenienti dall’esterno del carcere, l’interpellanza chiede al ministro se fosse informato di una perquisizione che ha avuto le fattezze di un blitz punitivo, e se il Dap avesse avviato delle indagini interne sui pestaggi dopo aver ricevuto numerosi esposti dell’associazione Antigone e dopo la pubblicazione di alcuni articoli di stampa, ben prima che la magistratura si interessasse alla vicenda.
All’interrogazione risponde il sottosegretario per la giustizia Vittorio Ferraresi. La sua relazione è un lungo riepilogo, nemmeno troppo dettagliato, degli eventi avvenuti a Santa Maria, ma senza entrare nel merito del ruolo avuto dal ministero e dalle varie catene di comando sulla mega-perquisizione, né sul conflitto in corso tra due poteri, ovvero la magistratura di sorveglianza e la polizia penitenziaria. Poche ore prima della perquisizione, infatti, il carcere di Santa Maria Capua Vetere era stato visitato dal magistrato di sorveglianza Marco Puglia, successivamente alle tensioni registratesi il giorno precedente, quando circa cento detenuti avevano protestato, avendo appreso la notizia del primo positivo al Coronavirus nel carcere campano.
La presenza “di garanzia” del magistrato a Santa Maria sembrava aver abbassato la tensione e scongiurato ulteriori strascichi. Eppure, poche ore dopo la sua uscita dal carcere, trecento agenti di polizia penitenziaria, interpellati (da chi?) dopo le tensioni del giorno precedente, sono entrati a volto coperto fin dentro le celle dei detenuti, dando vita a quella che da subito non abbiamo esitato a definire una “mattanza”. Una vera e propria vendetta per le proteste del giorno precedente, che oggi sembra essere destinata a dar vita al più importante processo ai danni dell’amministrazione penitenziaria nella storia della Repubblica.
Non c’è forse bisogno di sottolineare che nella sua risposta – durante la quale il sottosegretario utilizza un lessico estremo per condannare le proteste dei detenuti, mentre mai si esprime sull’eventualità di gravissime violenze operate dal personale di polizia – Ferraresi non cita in alcun modo la presenza in carcere del magistrato Puglia, cercando di smorzare l’evidente contraddizione di due poteri – la magistratura e la polizia penitenziaria – che scendono in conflitto su un terreno concreto.
L’assenza di una prospettiva politica della pena, e l’abbandono di qualsiasi forma di intervento trattamentale negli istituti, hanno reso il carcere uno spazio esclusivamente votato alla contenzione. Le spinte dei sindacati di polizia hanno trovato così terreno fertile, in un sistema che secondo l’ordinamento penitenziario dovrebbe mantenere equilibrio tra l’area giuridico-pedagogica e quella della sicurezza, entrambi elementi dell’esecuzione della pena supervisionati dalla magistratura di sorveglianza. Persino la FP-CGIL in un comunicato che riguarda Santa Maria Capua Vetere ha sottolineato come il regime delle celle aperte debba essere gestito secondo i criteri della premialità, accedendovi solo i più meritevoli (secondo quali valutazioni?) e ribadendo implicitamente che la norma deve essere la chiusura delle celle. Il risultato di queste spinte è che a oggi, stando alle ultime visite dell’Osservatorio di Antigone, il regime chiuso sembra tornato a essere la normalità, prassi che riporta indietro nel tempo il modello carcerario.
Al di la degli esiti del procedimento sulle violenze di Santa Maria, sono importanti alcune riflessioni che tralasciano le posizioni dei singoli soggetti che hanno agito quel pomeriggio e che vanno inquadrate in una visione d’insieme del sistema. Le dichiarazioni del ministero sul ripristino della legalità in seguito a una protesta, sono contraddittorie, avendo constatato sul campo le modalità di recupero delle gerarchie interne durante la rivolta al carcere di Fuorni (Salerno), il primo istituto a insorgere. In quell’occasione l’ordine interno dell’istituto si era sgretolato e i reparti celere della polizia e dei carabinieri riuscirono a ripristinare il controllo solo dopo alcune ore. Le violenze di Santa Maria colpiscono invece “a freddo”, il 6 aprile, quando la protesta del giorno prima era già ampiamente rientrata. Per questo, chi ha agito quel pomeriggio lo ha fatto per rappresaglia con l’intento di ristabilire i rapporti di dominio. È stata un’azione di guerra che rispecchia in parte il modello di gestione del penitenziario.
Qualche ragionamento è lecito anche rispetto all’attenzione mediatica che in questa fase viene riservata al processo, a fronte della grande reticenza (come sempre quando si parla di carcere, e ancor più dei casi riguardanti violenze da parte delle forze dell’ordine) che si era registrata nelle prime settimane dopo i fatti. L’articolo in cui denunciavamo gli avvenimenti di Santa Maria, insieme al documento audio che riportava le registrazioni di alcune telefonate in cui i detenuti raccontavano ai propri familiari le violenze subite, ebbe nei giorni di marzo una diffusione importante (oggi viene citato dal senatore Manconi sulle colonne di Repubblica). All’epoca, però, pochissimi media nazionali, persino su nostro sollecito, ritennero opportuno approfondire la vicenda, come stanno invece facendo oggi, per esempio con gli articoli pubblicati da Domani e il Riformista. Questo diverso atteggiamento ci dà la portata dell’importanza del processo che sta per iniziare e che coinvolgerà, secondo le informazioni che abbiamo a disposizione (e considerando l’alto numero di avvisi di garanzia recapitati), anche alcuni profili dirigenziali del sistema carcerario. Allo stesso tempo, però, è necessario comprendere da quali impulsi e con quali scopi (non necessariamente la tutela dei diritti dei detenuti) prendono corpo determinate campagne di stampa, in una contesa che più che mirare alla ricostruzione della verità potrebbe configurarsi come uno scontro tra forze istituzionali che, verosimilmente, cercheranno di esporsi il meno possibile. (luigi romano / riccardo rosa)
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