Le immagini di quella che oltre un anno fa definimmo “la mattanza della Settimana Santa” stanno facendo il giro del mondo, mentre l’Unione Europea – che ha vincolato il Recovery Fund anche a un intervento di riforma della giustizia – osserva gli sviluppi. «L’incidente nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere è oggetto di un’indagine sulla quale la Commissione non può commentare. La gestione delle carceri è di competenza nazionale e la Commissione si aspetta un’indagine indipendente e approfondita da parte delle autorità italiane», ha detto il portavoce dell’esecutivo comunitario.
Da ormai una settimana, intanto, i media proiettano i frame delle registrazioni della videosorveglianza durante quelle ore tremende. Questa corsa a sfamare e riprodurre gli istinti pornografici di noi tutti ha svelato gli “arcana imperii” che possono celarsi dietro la contenzione. Al di là del sentimento di pietà verso i corpi inermi vessati, è però il momento di fissare alcune valutazioni di ordine politico, sebbene senza la pretesa di essere definitivi, in considerazione della complessità delle vicende che hanno colpito il mondo del penitenziario durante l’emergenza Covid.
In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, Francesco Basentini, ex numero uno del Dap dimessosi dopo le polemiche sulla scarcerazione dei detenuti in alta sicurezza, ha commentato lo scambio di messaggi tra lui e Fullone, il provveditore campano colpito da una misura cautelare interdittiva per i fatti di Santa Maria. “Il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così”, aveva detto il provveditore. “La conversazione è ormai pubblica – ha spiegato l’ex capo del Dap – e la risposta è nel messaggio che mi aveva inviato. Lui lo riteneva indispensabile per riportare la calma e dare un segnale. Fullone era ritenuto uno dei provveditori più bravi e competenti, io mi fidavo”.
Se individuazione e giudizio delle responsabilità dei singoli saranno oggetto di una partita che si giocherà su un terreno complesso, il campo che è necessario oggi invadere è quello del funzionamento del sistema. Emblematiche al riguardo le parole di un dirigente dell’amministrazione penitenziaria, che si sente in dovere di assecondare gli istinti più beceri del corpo di polizia perché teme una reazione che vada a danneggiare i precari equilibri raggiunti durante l’emergenza pandemica. I messaggi schizzati tra gli smartphone degli agenti già dalla mattina del 6 aprile 2020 testimoniano una fibrillazione notevole: “Il tempo delle buone azioni è finito”; “Domani chiavi e piccone in mano”; “Li abbattiamo come i vitelli…”: un frasario cameratista che restituisce il sentimento di impunità e i rapporti di forza che il personale in divisa ha costruito col dipartimento. Il “carcere dopo Cristo”, scriveva Margara, è stato trasformato in uno spazio di guerra, con interventi miopi che hanno rafforzato esclusivamente il comparto della penitenziaria, depotenziando il ruolo dei funzionari giuridico-pedagogici. I pilastri della riforma del ’75 sono nei fatti erosi e l’esercizio della forza rimane l’unico strumento di governo del penitenziario.
In sostanza, l’inchiesta di Santa Maria ha messo in allerta il ministero della giustizia perché quanto emerso potrebbe minare i processi di finanziamento europei, mettendo a nudo una disfunzione che attraversa l’intero sistema. Tuttavia, prima che i fatti vengano rimossi per lasciare solo un vago ricordo o una liturgia dell’ennesimo attentato alla dignità umana, bisogna intervenire sulle più grosse voragini, ora evidenti, del sistema carcerario e bisogna che la ministra si assuma la responsabilità di farlo subito, introducendo numeri identificativi sulle divise – soprattutto per chi opera in circostanze di ripristino dell’ordine e della sicurezza (irrobustendo il divieto dell’uso della forza previsto dall’art. 41 dell’ordinamento penitenziario) –, la videosorveglianza ovunque negli istituti di pena, oltre che effettuando una verifica del funzionamento delle videocamere già esistenti nei reparti e nei luoghi in cui vige uno squilibrio di forze tra i soggetti che interagiscono (vedi le camere di sicurezza).
Si tratta di interventi che darebbero un segnale concreto, in un momento così delicato, a fronte di dichiarazioni per ora solo propagandistiche, oltre che funzionare come deterrente per condotte ritorsive, più che mai possibili. Ma un intervento di questo tipo non può bastare. Per evitare che sia la forza a governare le contraddizioni del sistema carcerario bisogna ridimensionare il sistema stesso, lavorando fin da subito a un’estensione insindacabile delle misure alternative. La gestione grottesca dei processi di scarcerazione durante la pandemia ci dice che quello che è necessario è un intervento strutturale e permanente, perché quello emergenziale (impraticabile per la mancanza di una reale volontà politica) decongestionerebbe solo momentaneamente il penitenziario.
Un intervento di riforma e di estensione massiccia delle misure alternative potrebbe essere il punto di partenza di una battaglia politica unitaria, capace di tenere insieme tutte quelle realtà che da tempo, e soprattutto dal marzo 2020 e dalle quattordici morti nelle carceri di mezza Italia, stanno faticosamente tentando di invertire la deriva autoritaria e securitaria del paese.
Altro punto di convergenza dovrà essere il riequilibrio a livello numerico degli organici degli istituti, rafforzando l’area educativa (interna ed esterna) in rapporto al numero dei detenuti presenti, per evitare che gli interessi corporativi della polizia penitenziaria – i cui sindacati sono ora più che mai in allarme – incidano sempre di più sulla linea politica dell’Amministrazione. Ancora, il corretto funzionamento dell’esecuzione penale passa attraverso il delicato lavoro della magistratura di sorveglianza, che necessita di un potenziamento imminente, perché troppo spesso trascurata se non isolata.
I fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno svelato all’opinione pubblica che le sinergie istituzionali possono pianificare e partorire i peggiori supplizi (anima immanente di ogni sistema punitivo). I depistaggi, le false relazioni di servizio, il materiale pericoloso fatto rinvenire ad hoc, sono prassi ufficiose interne al sistema che il gergo carcerario designa con l’espressione “montare la bicicletta”. Oggi, a cavallo di un’onda emotiva generatasi a scoppio ritardato, non per le quattordici morti del marzo 2020 ma per gli effetti di una massiccia e strumentale campagna mediatica, è necessario spingere il piede sull’acceleratore, elaborando coralmente poche proposte chiare e imprescindibili. In questo senso, è doveroso emarginare quelle posizioni che in questi giorni sono state avanzate anche dalle aree progressiste, di costruire nuovi istituti di pena, perché l’analisi delle istituzioni totali ci ha insegnato che nuovi contenitori contenitivi non distribuiscono mai il carico ma lo appesantiscono riproducendo le tendenziali percentuali di sovraffolamento.
L’obiettivo è sfuggire alla vittimizzazione facendosi portatori di rivendicazioni condivise. Bisogna lavorare per spingere le istituzioni a intervenire, qualsiasi siano le motivazioni (vedi i miliardi dell’Europa) che possano muoverle, ma allo stesso tempo dobbiamo far sì che quanto successo nelle carceri tra il marzo e l’aprile 2020 non appaia come una estemporanea perdita di controllo, ma come una modalità di gestione del sistema multilivello e unidirezionale. Non accettare di intervenire su questo terreno oggi, ci farebbe complici di questo stato di cose senza ossigeno e vie di fuga. (luigi romano / riccardo rosa)
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