La linea che separa l’Italia dalla Slovenia è un tratto impercettibile. Il pullman l’attraversa come se niente fosse del passato, dopo aver percorso una sopraelevata che costeggia la zona industriale di Trieste. Dal finestrino scorrono i magazzini, la ferriera, i bacini di carenaggio, il groviglio di semoventi e la ragnatela intermodale che lega le rotte marittime ai binari protesi verso l’interno. Poi il paesaggio subisce una metamorfosi improvvisa: adesso è ondulato, ricoperto di boscaglia e di pompe di benzina con tabaccherie annesse, prese d’assalto da chi vive al di qua per risparmiare sul pieno e sulle stecche di sigarette. Quasi cambia anche la luce, riflessa sulle facciate bianche delle case e sui tetti spioventi colore marrone.
Guardo la cartina: sono nell’anticamera della penisola istriana, quella dell’esodo, della “bruciante esperienza della perdita”, come ha scritto qualcuno. E dal finestrino vedo avvicinarsi Capodistria, Koper in lingua slovena, capoluogo della Primorska, il Litorale, la regione più occidentale del paese lungo la costa meridionale del golfo di Trieste. Ecco l’altra porta d’accesso dell’alto Adriatico, il varco all’apice del Mediterraneo, territorio sloveno dall’indipendenza del ’91, in passato amministrata dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Mi dirigo verso l’unico porto del paese, laggiù in fondo. Un porto di confine, appunto, con lo status di Zona Economica Speciale. A quattro miglia nautiche da Trieste, distante soltanto dodici chilometri in linea d’aria, Koper le sta così appiccicata da poter sembrare una sola entità. In effetti, a prima vista sembrerebbe un unico grande porto, meglio definito dagli addetti ai lavori come un nodo della “Core transport network” all’interno del Corridoio Mediterraneo, la “spina dorsale” tra Gibilterra e l’Ucraina.
Eppure gli interessi reciproci e la logica della concorrenza li rendono distanti, come porti in prossimità situati in stati diversi. Le navi che transitano dal canale di Suez con la merce diretta verso l’Europa centrale e orientale toccano prima l’uno, poi l’altro, poi l’altro ancora, svuotandosi man mano su ogni banchina, da Rijeka a Venezia, secondo accordi, gerarchie, profondità di fondali, itinerari e strategie commerciali ben precise. Venezia intanto è alle prese con il progetto di un terminal off-shore per i container trasportati dai giganti del mare, proprio mentre l’eccesso di disponibilità di stiva delle meganavi provoca il crollo del prezzo dei noli e la crisi del trasporto globale incarnata dal fallimento di Hanjin, il settimo vettore marittimo al mondo.
I porti di tre stati dell’alto Adriatico nel frattempo si contendono mercati, traffici e bacini di utenza, malgrado una discrepanza del costo del lavoro pari al trenta per cento tra Italia, Slovenia e Croazia. Circa milletrecento miglia di distanza da porto Said offrono la possibilità alle compagnie di evitare tutto il giro verso il nord Europa e di risparmiare duemila miglia di navigazione. Guardare la cartina aiuta a chiarire la posizione strategica di questa lingua di terra per i traffici marittimi attraverso la Slovenia. Il cuore dell’Europa è servito anche da Koper, che nel 2015 ha movimentato ventuno milioni di tonnellate tra merce varia, container, rinfuse e automobili. Proprio quelle che intravedo dal finestrino, in lontananza, man mano che mi avvicino, stoccate in un piazzale di sessantamila metri quadrati. File di macchine fabbricate in Germania, Austria e Ungheria giungono qui su rotaia. In un anno il porto di Koper ne ha movimentate cinquecentomila.
I condizionatori della stazione appagano il riposo di due anziani. Chiedo a un uomo con l’uniforme da autista e i baffi folti se parla in italiano. Annuisce. Allora gli domando di tradurmi i due titoli delle notizie in prima pagina riportate fuori all’edicola. Niente di che, risponde. Un tizio ad Ancarano ha vinto parecchi soldi alla lotteria e i dipendenti di Luka Koper hanno ripreso a lavorare. Nei primi giorni di luglio, una protesta spontanea contro i programmi di privatizzazione del porto ha bloccato il traffico delle merci paralizzando lo scalo. Prima di salire verso la piazza che conduce al centro storico passo davanti ai cancelli d’ingresso. Qualche camion entra ed esce dal varco, due autotrasportatori discutono in una lingua ignota, qua e là sono rimasti alcuni segni della protesta, come uno striscione con sopra scritto Luke ne damo. L’ha urlato una folla di uomini in salopette blu e maglietta arancione da qua fuori e nella piazza principale della città. «Dovolij! Luke ne damo». Tradotto, più o meno, significa: «Basta! Il porto non si tocca», è l’addetto alla sicurezza a dirmelo, mentre controlla i tesserini di un gruppo di camionisti. Già che ci sono gli chiedo se posso entrare, sapendo quale sarà la risposta.
La città dall’alto mostra il suo volto originario: un piccolo nucleo di vecchie abitazioni di pescatori e vicoli stretti formano un isolotto circondato un tempo da saline e adesso dal porto, che si sviluppa lungo tutta la zona nordorientale bonificata a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Una targa accenna al “popolo crocefisso dal comunismo titino” a due passi dalla centrale piazza Tito, dei manifesti riportano la scritta “Vstala Primorska” (Il Litorale si è levato). Sul lungomare si prepara la sesta edizione della festa Kalamarov. Il menù propone frittura di calamari, insalata di calamari, risotto con i calamari e calamari alla piastra, poi dal palco suoneranno i Mambo Kings e il trio Teci Teci. La tensione dei giorni scorsi sembra essersi attenuata ma la temperatura no. La semplice bellezza della città vecchia è accerchiata da banchine e magazzini di stoccaggio.
Con la sua area portuale di due milioni e settecentomila metri quadrati, Capodistria è un porto con una città, non una città con un porto. Questo hub multipurpose nasce nel 1957, tre anni dopo la spartizione dei territori sancita dal memorandum di Londra. Luka Koper è anche il nome della società per azioni che gestisce tutto lo scalo, proprietà per due terzi dello stato sloveno. Al porto di Koper si lavora tutti i giorni dell’anno, ventiquattr’ore su ventiquattro. Dopo la gestione di un presidente del consiglio di amministrazione arrestato a Santo Domingo per corruzione e abuso d’ufficio, l’attuale presidente è un ex portuale apprezzato dai dipendenti. Gli oltre tremila metri di banchine e le operazioni di sbarco e imbarco si possono osservare da un belvedere della città vecchia che affaccia sul mare e sui dodici terminal suddivisi per specializzazione merceologica. Quasi si può vedere il volto del gruista di Paceco, ad almeno cinquanta metri di altezza dal suolo, intento ad agganciare lo spreader sopra un container da una Maersk ormeggiata lungo la banchina. Il lavoro nel porto di Capodistria viene svolto da un migliaio di dipendenti statali di Luka Koper, inquadrati e tutelati da un contratto collettivo e da due sindacati. Poi ce ne sono altri mille che lavorano attraverso le trentasei imprese esterne che forniscono manodopera. Quanto ai dipendenti di Luka Koper, il miglioramento delle condizioni di questa forza lavoro è stato raggiunto dopo anni di conflitti noti agli ambienti portuali. Un gruista di Luka Koper gode di ampi margini negoziali e guadagna molto più della paga media di un dipendente statale in Slovenia. Per tale ragione, nel paese esiste un luogo comune che considera i portuali come dei privilegiati, ignorando il genere di lavoro che svolgono e i ritmi estremi ai quali sono sottoposti.
Quanto agli altri, si tratta delle “ombre del porto”, come le ha chiamate un sindacalista. Circa mille portuali che lavorano attraverso l’intermediazione delle imprese private, lavoratori stranieri provenienti dai paesi dell’ex Jugoslavia. A differenza dei dipendenti di Luka Koper questi lavoratori sono sotto perenne ricatto dei datori di lavoro, guadagnano meno della metà, ma più di quello che guadagnerebbero nei loro paesi di provenienza. In molti vivono nelle camere affittate dagli stessi datori di lavoro e riescono a spedire i soldi alle famiglie nei paesi d’origine una volta al mese. Il sistema di pagamento prevede una paga fissa e il resto calcolato a cottimo, ma lo stipendio non gli viene corrisposto del tutto, perché è in parte intascato dai funzionari dell’amministrazione e dagli stessi datori. In altre parole, nel porto di Koper vige una sorta di caporalato in cui circolano mazzette. Al sindacato lo sanno bene, ma è difficile contrastare questo meccanismo consolidato. Dicono che funzioni così da almeno vent’anni, dall’avvento dell’economia di mercato in un paese che fino al giorno precedente apparteneva alla Repubblica Socialista di Tito. E dal momento che gli azionisti della società che gestisce lo scalo pretendevano profitto, la strategia a un certo punto è stata quella di esternalizzare una parte del ciclo operativo portuale a imprese che offrivano manodopera flessibile a prezzi stracciati. Sta di fatto che questi lavoratori delle imprese private non si sono fatti vedere fuori ai cancelli nel corso del blocco. Sono stati piuttosto i dipendenti di Luka Koper ad aver iniziato la protesta nei confronti dello stato sloveno. A spiegarmi i dettagli della faccenda è un uomo della Konfederacija Sindikatov che parla in italiano e che mi dà appuntamento non lontano da piazza Tito. Non appena ci sediamo mi dice subito che si è trattato di una protesta e non di uno sciopero, dal momento che il blocco delle operazioni non è stato né guidato né organizzato dai sindacati, ma è nato in maniera spontanea poche ore prima dell’assemblea degli azionisti di Luka Koper. Quella mattina i lavoratori si sono tolti i guanti e hanno piazzato i mezzi meccanici davanti ai cancelli, paralizzando nel giro di poche ore lo scalo, con ricadute sull’intera rete ferroviaria. Il blocco è durato più di tre giorni e il danno è stato inevitabile, almeno due milioni di euro allo scalo e circa settecentomila euro di introiti mancati alle ferrovie slovene.
La contestazione dei portuali di Koper è nata dall’opposizione ai programmi di privatizzazione del governo e alla svendita ai privati. La miccia che ha innescato la protesta è stata la scoperta di un carteggio tra il ministro delle infrastrutture e il sottosegretario alle finanze, in cui emergono dati fasulli sullo stato finanziario di Luka Koper per motivare la sostituzione dei revisori e il conseguente progetto di smembramento. Il governo in tal modo intendeva usare le indicazioni consigliate dalla holding statale slovena, vale a dire creare un’autorità portuale cui spetterebbe il ruolo di assegnare concessioni di terminal agli investitori privati. Da qui la protesta. Alla fine, il blocco dei cancelli ha ottenuto le dimissioni del direttore dell’holding statale slovena, il ritiro della proposta di sostituzione dei revisori e l’incontro con il primo ministro.
Da allora non è cambiato niente. In ballo, allo stesso tempo, c’è un programma di sviluppo che prevede investimenti per quasi trecento milioni di euro in infrastrutture e la questione del raddoppio della linea ferroviaria da Capodistria a Divaccia, trentatré chilometri di binari che portano alla stazione da cui passa il Corridoio Mediterraneo definito dal regolamento europeo. Il raddoppio della linea ferroviaria è un progetto d’importanza vitale per il porto di Koper, spiega l’uomo della Konfederacija: «Si tratta di un investimento pari a un miliardo e quattrocento milioni di euro, che lo stato sloveno ha chiesto ai privati, i quali hanno risposto in tal modo: noi ci mettiamo i soldi, però tu ci devi dare il porto. Questo è il punto – mi dice prima di congedarsi –: lo stato vuole uccidere le galline ma non ci sono più uova».
Da una spiaggia affollata ancora sono visibili le operazioni di sbarco e imbarco. Mi sdraio al sole, tra le urla dei bambini e i tuffi da una piattaforma in un’acqua tutto sommato limpida, mentre una mano della gru Paceco sgancia l’ennesimo contenitore sulla ralla a piazzale. Resto a guardare la divisione degli spazi a ridosso della diga foranea, poi mi volto verso il mare aperto dando le spalle allo scalo. Le navi vanno e vengono da questo porto di confine. Quella che ore prima stava in banchina ha mollato gli ormeggi, ci passa davanti e prende il largo. (andrea bottalico)
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