Dal treno il Vesuvio, il suo lato meno abitato, i due seni arrotondati, uniti da una cresta appena frastagliata. Nitido, dà l’impressione di essere vicino e di poterlo toccare, affondare la mano nel vello bruno che lo copre d’inverno, un mantello che forma vaste e morbide pieghe sul dorso di un gigantesco animale accucciato e decapitato.
Da quando lo penso come un luogo da esplorare lo vedo con la luce nuova dell’interesse amoroso che nasce all’improvviso.
Il 29 dicembre è una giornata gelida con un vento affilato che taglia la faccia. Ho appuntamento davanti alla guglia di San Gennaro con Giovanni Gugg, giovane antropologo. Per chi si interessa di Vesuvio è un luogo importante, l’unico ex voto collettivo eretto nel 1636 in ringraziamento a San Gennaro, la cui statua rivolta al vulcano fermò la lava durante l’eruzione del 1631.
Giovanni Gugg ha scritto la sua tesi di dottorato a San Sebastiano al Vesuvio, ci ha abitato per un paio d’anni intervistando molti dei suoi abitanti di tutte le età. «Si guarda sempre agli abitanti dei paesi ai piedi del Vesuvio con un atteggiamento colonialistico – dice Gugg –, come a folle di irrazionali, incoscienti, invece di cominciare a pensare che il loro atteggiamento riflette forme “altre” di ragionevolezza; per quanto incomprensibili per chi vive altrove, qui e ora danno senso all’esserci individuale e collettivo e possono addirittura rappresentare un meccanismo di difesa da una potenziale “angoscia territoriale”, come la chiamava Ernesto De Martino.
L’urbanizzazione è in gran parte legale, frutto di permessi, licenze edilizie e condoni concessi dai comuni, dagli anni Cinquanta agli Ottanta dopo il terremoto dell’Irpinia, la legge ponte del 1967 ne è un esempio. Nel 1995 la Protezione civile italiana presentò il tanto atteso Piano Nazionale di Emergenza in caso di eruzione del Vesuvio. «Fuggire in caso di allarme è ovvio, ed è chiaro che bisogna organizzare al meglio un’enorme operazione di evacuazione con il miglior piano possibile, ma il rischio vesuviano è molto di più, bisogna sapere che così come è stato “prodotto”, così può essere attenuato, ridimensionato. Si tratta di comprenderne la valenza politica e trovare il coraggio per affrontare temi arditi come il de-cementificare, de-congestionare, de-urbanizzare e lavorare al coinvolgimento sociale, rione per rione, condominio per condominio. Dal momento che non si può sapere quando accadrà la catastrofe, è meglio presumere di avere tempo e cominciare un lavoro capillare, cambiare linguaggio, trasformare le persone in sentinelle locali. Questo cambio di prospettiva può apparire una sfida vertiginosa, eppure, per quanto complessa e lunga, è l’unica strada per ritrovare quella che Antonio di Gennaro chiama “misura della terra”».
Antonio di Gennaro lo conoscerò qualche giorno dopo. Mi accompagna a trovare Mario Angrisani, agricoltore di Somma Vesuviana. Nel labirinto mal indicato della statale 268, la strada che attraversa i comuni vesuviani, giriamo su noi stessi, ritrovandoci due volte di fronte alla Fiat di Pomigliano, ribattezzata da Marchionne “Gian Battista Vico”, prima di ritrovare la strada per Borgo Casamale, il centro storico e medioevale di Somma Vesuviana.
Mario Angrisani e il figlio Mimmo ci aspettano nella loro grande casa, una villa vesuviana degli anni Ottanta, nel cuore del borgo antico, con i pavimenti di marmo lucidi come specchi, circondata da un giardino rigoglioso di camelie, aranci, mandarini, una pergola d’uva. Hanno preparato una torta squisita con le loro albicocche e caffè, caffè, caffè. È venuto all’appuntamento anche l’agronomo Silvestro Gallipoli, esperto della zona, che si tuffa subito nell’argomento caldo di cui tutti qui hanno urgenza di parlare: l’enorme danno che la campagna sulla Terra dei fuochi ha inferto al loro lavoro.
Dalle indagini seguite alle dichiarazioni in tv del boss camorrista Carmine Schiavone nell’estate del 2013, gli agricoltori non vivono più, le irrazionalità della burocrazia e i divieti preventivi sono un sabotaggio continuo del loro lavoro. «Il racconto che è stato fatto è plausibile – spiega di Gennaro –, ma noi agronomi dal primo momento abbiamo detto che era una balla, perché se uno sa come funziona un suolo agricolo e come funziona la pianta, sa anche che quelle cose non possono succedere, che le piante non assorbono in quel modo. Nelle malattie, compresi i tumori, le statistiche ci mettono nella media nazionale, e se la mortalità è di cinque volte superiore le ragioni sono altre: non c’è prevenzione, non ci sono le diagnosi precoci e la gente non ha i soldi per curarsi, qui il quaranta per cento delle famiglie è povera. Si dovrebbe capire che se ti allei con Angrisani hai un valido presidio del territorio, e invece l’agricoltura è diventata la nemica dei Parchi».
È un argomento cruciale e molto difficile da districare. Ricordo l’involontario endecasillabo del pentito Nunzio Perrella, la prima volta che parlò dei rifiuti in Campania: «Scoprimmo che i rifiuti erano oro», e anni dopo il film Biùtiful cauntri con le pecore avvelenate. L’accanimento in ogni caso non può attivare le procedure sbagliate; con il principio di precauzione posso far passare quello che voglio, insiste Gallipoli. Lo stesso principio, del resto, non sembra dissuadere nessuno dal vivere sotto il Vesuvio, che qui nei paesi dell’interno si chiama ‘a muntagna, a cui si guarda come a una forza protettrice.
È stata sempre un’agricoltura fiorente quella ‘ncopp’ ‘o Vesuvio, e ancora oggi si potrebbe dimostrare quanto vale, per la sapienza del bravo agricoltore, per le proprietà uniche dei terreni vulcanici, perché i prodotti del Vesuvio sono richiestissimi, in Francia, Germania, in America. Angrisani ricorda che le culture di cinquant’anni fa erano l’uva catalanesca e le mele: annurca, limoncella, zitella, ranetta; venivano fuori melette ma si mantenevano fino a giugno, poi arrivò l’albicocca e fece furore.
All’epoca la Campania era la regione italiana che esportava di più, veniva prima perfino dell’Emilia Romagna, solo Somma aveva tre esportatori che portavano all’estero il prodotto. L’istituzione del Parco ha portato più problemi che benefici. «Per esempio, le reti anti-grandine – dice Angrisani padre –. Noi proprietari abbiamo più di trenta ingiunzioni per danno paesaggistico. Certo, è vero che si vedono fino a Caserta per il riverbero del sole, ma chi vive di agricoltura non può correre il rischio di farsi distruggere tutto dalla grandine. Io devo assicurare alla Coop cinquecento quintali e loro devono stare tranquilli».
È una giornata di nuvole gonfie e scrosci violenti di grandine ci colpiscono proprio mentre siamo tra i filari ordinatissimi di albicocchi e le famigerate reti sopra la testa che benediciamo. Angrisani ha cinque ettari e mezzo, in montagna, terrazzati. Sembrano il Machu Pichu, coltiva albicocche, cachi, ciliegie e il pomodorino del Vesuvio, il piennolo.
Il figlio, Mimmo, un giovane architetto tornato a casa dopo aver lavorato a Milano e Bologna, ha tutte le intenzioni di seguire le orme del padre. «Per ora sono l’operaio di Don Mario, finché c’è lui… È un quarto di secolo che mio padre fa cose importanti nella zona, la funzione di leader l’ha avuta, ma oggi è una nuova era; con altri otto piccoli o piccolissimi produttori abbiamo fondato Terre di Spartacus, Spartaco si ribellò allo stato e si rifugiò proprio sul Vesuvio, l’obiettivo è lavorare in rete e creare magari noi una bella industria di trasformazione, ci stanno un sacco di aree dismesse, sarebbero piccole perle sul territorio».
San Sebastiano al Vesuvio.
Un signore sta uscendo dal suo appezzamento di terra sul Vesuvio. Con che spirito viene in questa sua casa di campagna? «Ci vengo tutti i giorni, cucino e pranzo con i miei operai, sono imprenditore edile. La casa e la terra erano di mia nonna, la madre di mio padre, che ci costruì una casetta di campagna e mio padre la aggiustò dopo l’eruzione del 1944, aspettò che la lava si raffreddasse. La lava se ne scese da lì, lo vedete quel canalone, non c’è più cresciuto niente, ci mise cinque giorni per arrivare a Somma. A noi da piccoli non ci raccontavano Pinocchio, ma la lava, l’eruzione, la storia di mio padre che si rifugiò in un pozzo. Ora la terra è mia, a mia sorella non interessa, io invece ci tengo moltissimo, non mi so staccare, faccio i pomodori, i cavoli, i friarielli, le scarole, li vendo, li regalo a mio figlio, agli amici. Un tempo quelli della mia famiglia li chiamavano “piedi a terra”, qui erano tutti poveri, salivano e scendevano a piedi nudi, facevano le fascine e le vendevano ai panettieri, caricavano le carrette con le pietre laviche che servivano a costruire, il Vesuvio portava soldi… Paura? Quale paura? E i terremoti? Le malattie? In un modo bisogna morire». Poco prima del suo cancello, una famiglia di sikh indiani: il padre seduto su un muretto col turbante arancione, la madre, in un vestito lungo di cotonina a fiori, è sdraiata accanto a lui e il bambino gioca con dei tappi a pochi passi da loro.
Torre del Greco.
Scopro la vicenda Deiulemar, una gigantesca truffa da ottocento milioni di euro, ai danni di tredicimila famiglie che per anni hanno versato soldi sotto forma di prestiti obbligazionari all’omonima compagnia di navigazione, per scoprire infine che i proprietari li hanno fatti sparire, l’economia della città atterrata. In un negozio di abbigliamento, uno dei punti di raccolta delle informazioni per i viaggi a Roma dei creditori, il punto di partenza per un’inchiesta.
Ercolano.
Intorno a Villa Matarazzo uno degli ultimi agrumeti della zona. Visito una coppia di anziani che vive lì da tutta la vita, coltivavano l’orto e curavano l’agrumeto. Col terremoto dell’Irpinia la Villa fu occupata da famiglie di senza casa in cui si mischiarono anche persone appartenenti ai clan locali,«gente un poco strana, tenevano cuccioli di tigre e di struzzo rubati allo zoo, e un barbiere che faceva i capelli a tutti quanti all’aperto». Prima del terremoto l’avevano restaurata per i ragazzi ciechi, il terremoto ha sconvolto tutto. A metà anni Novanta sembrò che il nuovo sindaco di Ercolano, Luisa Bossa, dopo averla liberata da vandali e camorristi, avesse trovato un accordo con la Regione per utilizzarla come centro di ricerca per i tumori. Il Comune spese centinaia di milioni di euro per il recupero, la Regione mise trecentomila euro, ma il ministero stanziò una somma troppo esigua per varare il progetto. L’unica parte restaurata è l’edificio sulla strada adibito a commissariato di polizia, parziale, serve solo a fare denunce.
Dagli scavi di Ercolano lo sguardo s’impiglia su una casa sbocconcellata sulla collina di fronte sovrastante gli scavi. Che è successo a quella casa, sembra diroccata? Non è un meno, è un più, dice il mio accompagnatore. Balconi, tende, verande, rialzi, tettoie, terrazzi, terrazzini, passaggi coperti e ponticelli in plexiglass, balaustre, ringhiere, infissi d’alluminio d’oro, rialzi, oblò, soprattetti, formano una lebbra che sfigura le facciate delle case di tutte le epoche per eccesso non per difetto, per progressive aggiunte, sfoghi purulenti, escrescenze di parabole, antenne, condizionatori, fasci di cavi a vista. Si può sempre aggiungere una torretta, una casupola sul tetto, un timpano alla facciata. In alcuni paesi anche le tombe a casetta del cimitero si mescolano alle case.
La luce arroventata del tramonto si spande sulle case, sul mare una striscia purpurea, la Casa dei Papiri vedeva entrambe, oggi è a cinquecento metri dal mare, allora era affacciata sull’acqua. (maria pace ottieri)
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