(copertina di otarebill)
Riproponiamo a seguire un estratto dell’articolo Bloccare i flussi. Un’azione contro l’energia fossile a Göteborg, scritto da Salvatore De Rosa e pubblicato nel numero 3 de Lo stato delle città.
Li ho trovati come si trovano oggi gli affini, sui social network. Seguivo da un po’ il lavoro di gruppi che si stanno organizzando in Europa contro l’inerzia politica nell’affrontare la crisi climatica. Movimenti con storie e scopi eterogenei, spesso radicati in contesti specifici e collegati in reti internazionali, che da un anno e più si sono moltiplicati. Vivendo tra Danimarca e Svezia, ho deciso di entrare nel Folk mot Fossilgas, “persone contro il gas fossile”, un movimento svedese che interviene nei punti nevralgici del sistema di produzione e distribuzione di energia fossile per bloccare i flussi. Folk mot Fossilgas parte dalle evidenze scientifiche che “la nostra casa sta bruciando” e che molto può essere fatto per evitare esiti disastrosi. Fanno attività di lobbying contro la propaganda che inquadra il gas fossile tra le fonti di energia “pulita”. L’esperienza gli ha insegnato che accordi globali e promesse dei parlamenti verso la de-carbonizzazione dell’economia non sono nemmeno lontanamente sufficienti e che occorre quindi intensificare la pressione dal basso per imporre la transizione dai combustibili fossili e il superamento del capitalismo. Un piano ambizioso che fonde sopravvivenza e richieste di giustizia sociale: il riscaldamento globale come limite ultimo e occasione di ricomposizione, che contiene e declina con rinnovata urgenza tutte le altre battaglie per l’emancipazione.
IL CAMPEGGIO
Avevo segnato sul calendario i giorni dal 6 all’8 settembre. Destinazione: Göteborg, al campeggio climatico organizzato da Folk mot Fossilgas per partecipare, sabato 7, alla prima azione diretta in Europa contro un terminal portuale di LNG, liquified natural gas, o più correttamente gas fossile. Al porto di Göteborg, la multinazionale energetica Swedgas ha in progetto di allargare la capacità di stoccaggio di gas che giunge con navi cisterna attraverso l’Atlantico e di collegare i silos portuali alla rete di distribuzione via terra tramite condotte. Un meccanismo che assicurerebbe la dipendenza del paese scandinavo per almeno quarant’anni dagli approvvigionamenti di una fonte energetica particolarmente efficace nell’aumentare il riscaldamento globale a breve termine, in contraddizione con i target locali di riduzione delle emissioni (meno 40% entro l’anno prossimo e zero entro il 2045).
Al campeggio ci arrivo da solo, sotto la pioggia fine del venerdì pomeriggio. Circa duecento persone sono assiepate nel grande tendone da circo costruito per l’occasione; la plenaria di benvenuto è appena cominciata. Siamo in un prato alla periferia di Göteborg, a mezzo chilometro dal porto. Oltre al tendone per le assemblee, ci sono altre cinque strutture auto-costruite più piccole che ospitano l’info-point, la zona per consumare i pasti, il centro media, il supporto legale e il sostegno fisico e psicologico. Più in là, verso il mare, un centinaio di tende da campeggio sono distribuite in file ordinate entro larghi rettangoli. Alla plenaria incontro Andreas, collega ricercatore svedese che si occupa di energie rinnovabili e decrescita. Fortunatamente ha un posto in tenda per me che ne sono privo. È qui perché reputa insostenibile lo iato tra ricerca e politiche concrete. Sapere molto dell’attuale congiuntura diventa un esercizio deprimente quando constati gli scarsi progressi in trenta e più anni di consapevolezza del problema. Restiamo in ascolto mentre viene presentato il programma delle giornate. Non mi perderò il training sull’azione coordinata tra un’ora, e devo trovare il mio gruppo di affinità nel consesso serale dedicato a formare le squadre.
Il metodo dell’azione coordinata di massa è uno degli strumenti distintivi dei movimenti climatici militanti che si stanno consolidando in Europa. È un intervento in un sito specifico – di solito un’infrastruttura fisica implicata nell’economia fossile – che ha lo scopo di rallentare o bloccare il suo funzionamento, un tentativo di invadere la normalità per contestare l’estrazione, il movimento e l’uso di carbone, gas e petrolio. Come tecnica di politica radicale, è figlia delle forme d’azione del movimento tedesco contro il nucleare tra gli anni Settanta e Novanta, quando venivano bloccati i treni che trasportavano i rifiuti e le macchine delle centrali. Altri elementi si sono aggiunti durante gli ultimi dieci anni di campi climatici, soprattutto nel Regno Unito, in particolare la formazione di piccoli gruppi di affinità durante i preparativi sul terreno per contenere il rischio di infiltrati della polizia. Per lo stesso motivo, lo svolgimento dell’azione viene elaborato in segreto dai promotori locali e manifestato solo durante l’azione stessa. La formulazione del piano comporta un programma dettagliato per stabilire percorsi, predisporre manovre di accerchiamento e gestire i diversi ruoli di una marea di corpi. Un canovaccio che poi le colonne e i gruppi di affinità sviluppano autonomamente. Si studiano la topografia locale, i sistemi di sicurezza a protezione del sito, i turni di lavoro e gli orari di funzionamento. L’obiettivo non è propriamente un sabotaggio, poiché l’azione viene annunciata e pubblicizzata. Piuttosto, è una dimostrazione di forza del rifiuto sociale di determinati processi, che ambisce alla massima visibilità e alla costruzione di immaginari di rivolta che ispirino l’emulazione. Essendo un atto che sfida la legge, invadendo proprietà private o occupando luoghi pubblici, i rischi di essere arrestati o di doversi confrontare con le forze dell’ordine ne sono parte integrante. La sicurezza collettiva è garantita dall’alto numero di partecipanti: più la massa è densa, più nasconde i singoli e ne mostra plasticamente l’unità, anche grazie alle tute bianche.
Per prendere parte all’azione bisogna accettarne le restrizioni e gli scopi presentati in un documento di consenso informato. Tuttavia, l’effettivo grado di rischio che si decide di assumere è a discrezione personale, e si riflette nei ruoli e nelle posizioni del proprio gruppo. L’attacco violento e la provocazione conflittuale sono banditi, ma altre forme di illegalità connesse al successo dell’azione e operate in gruppo sono considerate legittime. Una complessa serie di principi organizzativi e codici di comunicazione – che bisogna imparare in momenti di training dedicati – permettono di affrontare lo svolgersi di azioni altamente dinamiche in maniera coordinata, rispondendo rapidamente al mutare delle condizioni. La peculiare attenzione a forme di confronto che valorizzano metodi decisionali orizzontali, prima dell’azione e durante, non risponde solo al rifiuto dell’autoritarismo ma anche al tentativo di “cancellare” i leader dal quadro, evitando in tal modo che certi soggetti più esposti siano visibili alla repressione. La miriade di micro-tecniche che salvaguardano l’agire consensuale collettivo sono debitrici alla consapevolezza politica maturata dal femminismo militante. A partire dalla struttura concentrica – che ha come nucleo le coppie, integrate in gruppi di affinità, poi in colonne d’azione con diversi ruoli, a loro volta raccolte nella totalità della “massa” – fino al linguaggio dei segni e alle tecniche di facilitazione che guidano le discussioni, senza tralasciare spazi dedicati all’espressione delle emozioni individuali e all’autocritica. Un insieme di pratiche radicate nella tradizione della disobbedienza civile ma declinate in forme nuove, più mature e adatte ai tempi.
La duttilità e potenza dell’azione coordinata di massa è dimostrata dal proliferare di gruppi che ne fanno uso. Come Ende Gelände, i campioni contemporanei di questo metodo, non a caso tedeschi, che ogni anno da cinque anni mobilitano migliaia di persone da tutta Europa per bloccare per qualche giorno la più grande miniera di carbone del continente, accanto alla foresta di Hambach. O i Gastivists, una rete globale di attivisti contro il gas fossile i cui membri viaggiano in lungo e in largo per diffonderlo. E come i partecipanti a Extinction Rebellion, tra i quali questo metodo ha acquisito un ruolo fondamentale nelle azioni urbane per cui si sono distinti, dirette a bloccare i centri cittadini, i parlamenti e le sedi di multinazionali dell’energia.
IL TRAINING
Bighellonando per il campo in attesa del training, faccio conoscenza con un giovane anarchico olandese alto due metri e balbuziente. Si fa chiamare Garlic, aglio, ha partecipato a decine di riot nelle proteste ai summit dei G8 e vive in un palazzo occupato a Rotterdam. È venuto senza documenti e dice che di certo non si farà arrestare, una possibilità che invece molti mettono in conto. Afferma che “non se lo può permettere” in quanto già schedato, ciononostante è pronto a mettersi davanti al corteo iniziale e a tentare un blitz nel porto con il suo gruppo di affinità. Un buon motivo per non sceglierlo come compagno nella coppia, visto che ho intenzione di tornare da mio figlio piccolo subito dopo l’azione.
L’atmosfera al campo è rilassata, festiva, quasi dimentico che stiamo allestendo un assedio. L’organizzazione si basa sul lavoro volontario e nella sosta all’info-point segno il mio nome tra i lavapiatti del turno di domenica. I compiti pratici per tenere in piedi la vita comunitaria – cucinare, pulire, montare e smontare, e molto altro – sono presi molto seriamente. Mi sento come in una comune anarchica che si è data una disciplina militare senza gerarchie e ordini; alcol e droghe sono vietate ma la musica dal tendone riempie l’aria. Le persone intanto continuano ad arrivare. L’età media è sotto i trent’anni, ma non mancano militanti dai capelli bianchi. Si avvertono frammenti di cultura hippie e una marcata presenza di attivisti austeri in abiti tecnici, da scalata o esplorazione artica. La stragrande maggioranza è europea e bianca, per questo resto incuriosito da un uomo di mezza età dalla pelle bruna e con i capelli raccolti in una lunga treccia. È un indiano americano, si chiama Cristopher, un Esto’k Gna della tribú di Carrizo Comecrudo, stanziati nella valle del Rio Grande in Texas. Fa parte della delegazione internazionale contro il gas fossile, che conta rappresentanti dai movimenti irlandese, inglese e argentino. Accanto alla riserva dove vive sono stati recentemente approvati tre diversi siti di estrazione di gas attraverso il fracking, una tecnica che causa terremoti e inquina le falde freatiche. Gas che poi arriva nei terminal europei come quello di Göteborg. Per Cristopher, combattere l’estrazione e il commercio di energia fossile non è che l’ennesimo atto della lotta anti-coloniale dei popoli indigeni. Gli fa piacere che degli europei figli del colonialismo si siano finalmente svegliati, ora che anche il loro mondo sta crollando. Raggiungo il tendone dove sta per cominciare il training. Ce ne sono stati decine in diverse città durante le settimane precedenti, ma me li sono persi. Ora è l’ultima occasione per capirci qualcosa e non andare allo sbaraglio, e come me una cinquantina di astanti attendono di essere preparati.
Due ragazzi e una ragazza saranno i nostri istruttori. Si comincia dal formare le coppie e i gruppi temporanei, poi avremo tempo di creare quelli per l’azione. La coppia è l’unità minima della massa. Serve affinché ognuno abbia qualcuno che si preoccupi per lui e per il suo stato mentale, che lo aspetti o lo cerchi se si perde, che lo supporti quando il ritmo si fa pressante. Le coppie sono a loro volta raccolte in gruppi di affinità da un minimo di quattro a un massimo di dodici persone. Il gruppo si muove insieme e resta unito. Prende decisioni circa il coinvolgimento e il rischio a cui si vuole esporre, e manda un delegato a rotazione alle micro-assemblee durante l’azione per decidere il da farsi. Avere un rappresentante permette di fluidificare il dibattito, considerando che in dieci o dodici possono confrontarsi a nome di circa un centinaio di persone. Ogni volta che va presa una decisione, il delegato fa avanti e indietro tra la riunione e il suo gruppo, raccoglie le opinioni dei compagni, si arriva a una posizione consensuale e alla fine i ruoli e compiti sono redistribuiti. Sembra difficile coordinarsi a prima vista, ma constato negli esercizi di scenari possibili che il metodo funziona senza troppe frizioni. Una serie di tecniche ci vengono impartite per velocizzare il confronto: il movimento delle mani a diverse altezze per segnalare consenso, dubbio o rifiuto; l’assegnazione al più temperante nel gruppo del ruolo di decisore istantaneo quando non c’è tempo di discutere; il segno di veto a braccia incrociate quando qualcuno è convinto che l’idea appena proposta sia una follia e perciò invita tutti a riconsiderare.
Entriamo poi nella gestione del confronto con la polizia. In quest’azione ci limiteremo a bloccare le quattro entrate del terminal gas per fermare il via vai di camion cisterna, senza invadere il porto, quindi dobbiamo essere pronti a effettuare blocchi con i nostri corpi che la polizia eventualmente si premurerà di rimuovere. Il mandato è, per chi se la sente, di non abbandonare la posizione e di rispondere agli inviti dei cop svedesi con silenzio o canti, mantenendo le braccia intrecciate ai propri vicini. Ci vengono mostrate diverse posizioni per farsi rimuovere senza infortunarsi, e mimiamo lo sgombero in una sorta di guardie e ladri con implicazioni abbastanza serie. La polizia svedese può trattenerti fino a ventiquattro ore se fai resistenza agli ordini, e anche di più se non mostri i documenti o ci sono indizi di altri crimini. Il training di stasera dura un’ora, è una versione diluita ed essenziale, in altri casi può durare tra uno e tre giorni. Alla fine, attraverso un gioco di ruolo basato su domande intorno alle preferenze individuali, arrivo ad affiancarmi a quelli che formeranno il mio gruppo di affinità. Siamo in sei. C’è Hanna, studentessa ventenne svedese con la testa piena di libri, qui perché frustrata dal fatto che amici e famiglia non prendono sul serio le sue preoccupazioni climatiche. Jonas e Clara, uno psicologo e una educatrice che oltre a essere vegetariani e fare la differenziata vogliono agire. Poi Axel, un’artista che vive in una ex-fabbrica abbandonata di Malmö e che ci farà ridere parecchio durante il blocco, e per finire Andreas e me. Siamo un gruppo d’affinità moderato, andremo avanti fino alla fine ma evitando di metterci nella condizione di essere arrestati. Mangiamo insieme alla cucina comune una cena vegana. Siamo diventati circa quattrocento al campo, ma tutti potranno avere una seconda porzione. Non c’è nemmeno l’ombra di posate o bicchieri usa e getta: metà delle persone si sono portate la gavetta da casa, per l’altra metà sono disponibili posate e scodelle che saranno poi pulite dai lavapiatti come me.
L’AZIONE
Alle sei e un quarto di sabato mattina il gruppo della sveglia gira tra le tende con un megafono. Entro le otto si parte. La notte è stata umida, la pioggia non si è fermata un minuto, e adesso, mentre emergo frastornato dalla tenda, è diventata una nebbia di particelle d’acqua che ti infracida in un quarto d’ora. Senza troppo trambusto, dopo avere consumato la colazione scandinava di pappa d’avena e frutta sciroppata, ci disponiamo in corteo in file da sei, tutti avvolti nelle tute bianche di tessuto fine sopra i vestiti. Sembra la classica manifestazione, ma più ordinata e con una missione precisa. Nel percorso tra il campo e il porto, la pioggia aumenta. Guardo gli altri nel mio gruppo con un po’ di scoramento, ma sembro l’unico contrariato dall’acqua. Da queste parti si dice che non esistono condizioni meteorologiche avverse, solo vestiti non adatti. Meno male che ho buone scarpe allora. (continua…)
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