Le biblioteche chiudono ancora. La notizia arriva con l’ultimo Dpcm del 3 novembre, ma non giunge inaspettata, da qualche settimana è nell’aria; sapevamo che dopo i teatri sarebbe toccato alle nostre biblioteche.
Io lavoro in una biblioteca di montagna, al confine con la Francia, in un territorio di passaggio a occidente. Da me questa è una stagione morta: non è estate con il boom di torinesi con la bicicletta elettrica e gli scarponcini, ma non è neanche il periodo milanese con gli sci, le tavole, i caschetti luccicanti. È un tempo più intimo: molti negozi sono chiusi e le seconde case sono vuote, o quasi. Ora sono tranquillo, lavoro in una realtà in un certo senso privilegiata: a biblioteca chiusa continuerò a fare la mia parte. Molti non hanno questa fortuna.
A differenza della prima quarantena, la risposta delle biblioteche è stata più rapida: chi porta i libri a casa con il prestito a domicilio, chi li mette nelle buste della spesa comunali, chi fa il prestito in farmacia, chi si appoggia a librerie, chi li lascia in luoghi deputati con il prestito d’asporto. Nonostante i divari, c’è una volontà comune. Molte biblioteche agiscono in solitaria, alcune in rete, altre silenziosamente. Quasi tutte hanno attivato servizi digitali, ma il digitale è un discorso a parte. Ha una potenzialità enorme, ma spesso si scontra con problemi vivi: reti, cavi, tecnologie, zone periferiche, problemi sociali, economie depresse.
Molte amministrazioni hanno fermato le biblioteche e lasciato a casa i lavoratori precari. Mi metto al telefono e provo a sentire alcuni di loro per riportare le loro voci. Succede qualcosa che non mi aspettavo. Pensavo che il discorso si sarebbe incentrato su precarietà, contratti scadenti, dispositivi di protezione mancanti, pochi diritti e nessuna tutela, ma alla terza chiamata mi accorgo che un discorso preme a tutti: l’assenza. Ho deciso di mischiare le voci senza distinguere le identità di colleghi distanti geograficamente, provenienti da contesti differenti.
Come siete messi, come state lavorando?
«Lavoro da casa, mi hanno ridotto le ore però. Mi sono portata alcune cassette di libri a casa e catalogo. Quando li avrò finiti, farò un po’ di bonifica, poi si vedrà».
«Noi stiamo lavorando a biblioteca chiusa, portiamo avanti servizi di prestito, e per gli abitanti della nostra città facciamo il prestito a domicilio: i libri li portiamo noi o i ragazzi del servizio civile. Per i libri ordinati da fuori, li spediamo via posta con il piego libri».
«Noi consegniamo i libri a domicilio. Secondo me è una cosa geniale, c’è qualche collega che storce il naso: pensano si faccia concorrenza alle librerie, non hanno capito niente».
«Io lavoro a porte chiuse, la gente prenota, telefona o bussa e io gli sporgo il libro, almeno sino alla prossima chiusura».
Avete fatto piani a lungo termine?
«No, abbiamo qualche settimana impegnata poi si vedrà, ma questa cosa mi spaventa. Capisci anche tu che la cassa integrazione, su un part-time da novecento euro, è una merda. Poi a me questa cosa dell’assenza mi spaventa».
«Io vorrei focalizzarmi sulla biblioteca delle piccole cose. Basta eventi grandiosi, cose stratosferiche, gli incontri con gli autori se li cagano sempre i soliti. Basta, dobbiamo tornare alle piccolezze, dobbiamo togliere le pagliuzze negli occhi della gente».
«Nel nostro sistema sono tutti volontari o di cooperativa, come si fa ad andare avanti?».
Cosa succederà alle biblioteche?
«Ma tu non hai notato che, dalla prima ondata a questa, nessuno parla delle biblioteche, mai?».
«Le biblioteche non producono capitale e quindi sono argomenti di serie B».
«Le biblioteche più piccole peggioreranno il loro servizio, le biblioteche grandi resisteranno. La mia paura è che quelle più piccole rimarranno senza risorse e senza personale. Quando mancano le risorse chi ci rimette sono sempre i più piccoli».
«Per anni, in tutti i corsi, ci dicevano che dovevamo giocare al loro gioco, comunicare come loro, ragionare come loro, fargli vedere i nostri dati. Secondo me è una cazzata. Devono essere loro a giocare nel nostro campo. Siamo un servizio essenziale, siamo un servizio di prossimità, io credo nella biblioteca dei derelitti».
«Molti colleghi sono, come dire, cauti: non vogliono alzare troppa polvere, ma già nessuno parla mai delle biblioteche».
«Tutti che parlano di digitale e compagnia cantante e nessuno parla di politica culturale, di prospettiva, non so che succederà alle biblioteche, ma sicuramente non sarà nulla di buono; già così mi sento come in Fantasia – dimenticata».
Ce l’avete con i giornali?
«No, no, non quelli; qualcosa è uscito, ma come al solito ce la cantiamo sempre tra di noi e non arriviamo da nessuna parte».
«Nessuno parla mai delle biblioteche, perché non attiriamo i turisti, non produciamo biglietti».
«Ho sentito che alcuni dicono che fanno così perché vogliono cambiare tutto, magari mettere qualche servizio a pagamento. Capito? Le biblioteche a pagamento».
«Siamo in estinzione, come i Neanderthal».
«Pensa che mio nonno non ha ancora capito la differenza fra biblioteca e libreria, ma penso nemmeno Franceschini».
«Io mi chiedo ancora con quale logica si chiude una biblioteca e si tiene aperta una libreria. No, non me lo chiedo in realtà, perché conosco la risposta».
«Nessuno lo dice che le biblioteche, dico quelle popolari, hanno un ruolo di cura che non può essere sostituito».
«Sai, si presta troppo poca attenzione al benessere di chi lavora».
Però, dopo il primo lockdown, sono arrivati i finanziamenti del bando del ministero dei beni culturali.
«Guarda, sto incazzato nero per quella cosa: hanno fatto un bando in fretta e furia, scritto male, con una finestra breve in cui spendere tutti quei soldi. Certamente è tutto grasso che cola, ma è chiaramente stato scritto da chi non ha nessuna idea delle biblioteche».
«Uno spot elettorale per far felici gli editori».
«Quella è stata una cosa figa, una boccata d’ossigeno. Il mio comune sono anni che non spende abbastanza fondi nell’acquisto libri; per acquistare qualche novità ci affidiamo alle offerte, come in chiesa».
«Finalmente ho potuto acquistare i libri dalle piccole librerie con maggiore libertà e non affidarmi a quel bagno di sangue dei bandi pubblici».
Cosa dovrebbe fare la biblioteca secondo te?
«Madonna, sembri mia madre quando mi interrogava dopo la scuola. Non so cosa dovrebbe fare la biblioteca. Permettermi di fare un lavoro dignitoso, dovrebbe fare tutto il possibile per gli ultimi, ma io sono una romantica e mi piace la decadenza – ascolto i Baustelle».
«Meno parole e più fatti: ci sono troppi colleghi imbolsiti e con la puzza sotto il naso che fanno bello il catalogo, mentre quelli che vengono in biblioteca sono sempre i soliti quattro borghesi».
«Pensare al benessere delle persone, siamo un organismo sociale».
«Incazzarsi di più, in biblioteca nessuno parla mai, nemmeno i bibliotecari».
«I bibliotecari devono uscire dalle biblioteche, smettere di essere autoreferenziali e piangersi addosso. Non siamo molti, però dobbiamo far sentire la nostra voce. Tanti cittadini, giovani o meno, ancora oggi non sanno ancora cos’è una biblioteca».
«Bisogna alzare un po’ la voce, i primi a farlo dovrebbero essere, oltre i precari, quelli già stabili. Io prima ero precaria e avevo paura, ero fragile, ora credo che ci sia bisogna di farsi sentire».
«Ora mi chiedi l’ultimo libro che ho letto?».
Alcune parole mi danno il tormento. Assenza, derelitti, cura, benessere, prossimità – da quassù le cose scorrono con un ritmo diverso. Oggi, per schiarirmi le idee in pausa pranzo, sono andato a passeggiare: non c’era nessuno in giro, era tutto ghiacciato, sembrava avesse nevicato. Quando sono tornato ho trovato due ragazzini davanti alla porta. Mi hanno chiesto se potevano stare in biblioteca a leggere dei fumetti. Gli ho detto di no, che non potevo permetterglielo; gli ho chiesto se volevano qualcosa da leggere: potevo sporgergli fumetti e libri. Mi hanno detto di no e se ne sono andati. (luca valenza)
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