Sono in vendita da questa settimana nei nostri punti di distribuzione anche a Roma e Bologna (qui l’elenco in aggiornamento di tutte le librerie in Italia) le copie del numero 5 (novembre 2020) de Lo stato delle città.
Dall’ultimo numero della rivista pubblichiamo l’articolo Le politiche dello sradicamento, di Stefano Portelli.
Era prevedibile che a una crisi del Covid raccontata come una guerra seguissero misure presentate come un Piano Marshall. Le centinaia di miliardi di euro del Recovery Fund verranno gestiti da amministrazioni – sia quelle dichiaratamente razziste che quelle “di sinistra” – che hanno come unici orizzonti politici “ordine” e “legalità”. Il nuovo prefetto di Roma annuncia una campagna di sgomberi di occupazioni e campi rom in piena crisi sanitaria, promettendo di impiegare addirittura l’esercito dispiegato nei centri cittadini con l’operazione Strade Sicure. Ma non è casuale questa coincidenza tra enorme disponibilità di fondi e politiche di sgomberi. Le ultime ondate di sfratti dopo il 2007 sono state provocate proprio dalla incredibile disponibilità di liquidi regalata alle banche “salvate” dall’implosione finanziaria. Invece di dare i soldi a chi ne aveva bisogno, quelle risorse furono impiegate per costruire miliardi di metri cubi di cemento, obbligando la gente ad acquistarli indebitandosi di nuovo. Mega-infrastrutture e intere nuove città sono sorte nelle aree più improbabili dei cinque continenti, solo per mettere in circolazione queste nuove risorse. Sono stati rasi al suolo quartieri di case popolari come il complesso lecorbuseriano di Heygate a Londra, demolito dal 2011, quartieri popolari semi-pianificati come l’enorme Karien Central a Casablanca, demolito dal 2016, e zone di edilizia spontanea come i gecekondu di Istanbul, da Sulukule nel 2010 a Fikirtepe nel 2017.
Questo ciclo di distruzione programmata è descritto molto bene da David Harvey in Città ribelli: si crea lavoro, temporaneo e precario, ma i soldi spesi tornano agli investitori sotto forma di rate dei mutui; campagne e periferie si riempiono di mostri di cemento, spesso lasciati vuoti, pronti a essere demoliti appena ce ne sarà bisogno; i centri urbani si svuotano, disponibili a nuove speculazioni. I progetti sono presentati come risposte ai problemi sociali, ma sono solo piani per riassorbire il surplus, come ce ne sono stati durante tutto l’ultimo secolo.
La prima ondata iniziò a metà Ottocento con le grandi opere di sventramento di Haussmann a Parigi, che permisero di stabilizzare l’economia dopo i moti del 1848. La seconda ondata fu con lo Housing Act del 1949 negli USA: il surplus finanziario era stato impegnato dalla guerra per alcuni anni, ma poi fu impiegato nel “rinnovamento urbano”. Migliaia di quartieri popolari in tutte le città degli Stati Uniti furono rasi al suolo. Robert Moses riempì New York di autostrade, ponti e infrastrutture inutili, sventrando il Bronx ed estendendo la città. Il quartiere italo-americano di Boston, il West End, divenne una tabula rasa su cui poi fu costruito il Massachusetts General Hospital e le sedi delle grandi assicurazioni. L’urban renewal, che fu chiamato ironicamente negro removal, rimozione dei neri, dai militanti per i diritti civili, cambiò faccia al paese.
Oggi ci sembra mostruoso, ma i trasferimenti forzati erano considerati il modo migliore per “pacificare” i territori. Nel 1944, in un famoso discorso alla House of Commons, per legittimare la deportazione di milioni di tedeschi di Polonia, Churchill spiegò: «L’espulsione è il metodo che per adesso troviamo più soddisfacente e duraturo. Non ci sarà miscuglio di popolazioni a causare problemi senza fine: si farà una bella pulizia (a clean sweep)». Lo sradicamento non è l’obiettivo esplicito, ma non è neanche considerato un problema, al più un fastidio passeggero causato dalla necessaria razionalizzazione della popolazione. In Italia i trasferimenti forzati erano stati uno strumento del fascismo, per esempio nel centro storico di Roma da monumentalizzare. Con il Piano Marshall e gli aiuti del dopoguerra si esportarono in Europa i trasferimenti “democratici”, diffondendo anche in Italia l’idea che spostare le persone da un luogo all’altro sia il dovere ineluttabile di uno stato moderno. Questa storia è sempre pronta a ricominciare, non appena se ne presentano le risorse.
Al di là delle sofferenze individuali, però, contano gli effetti di lungo termine. Harvey sostiene che a entrambe le epoche di grandi trasferimenti, quella haussmaniana in Francia e quella keynesiana negli USA, seguì l’esplosione del rancore degli espulsi: la Comune di Parigi e il movimento afro-americano. Anche l’ondata successiva al 2007 ha alimentato le proteste del 2011: la correlazione si vede nelle mobilitazioni di Gezi Park a Istanbul, ma anche in Egitto o nello stato spagnolo. Con lo sradicamento, gli stati costruiscono individui sottomessi, privati degli strumenti comunitari che davano un senso alle loro vite; il loro dolore si può sublimare in un momento di protesta collettiva che ricrea i legami, ma più spesso diventa un male sociale endemico, un terrore generalizzato che si concretizza nel desiderio spasmodico di “ordine”. Simone Weil, 1949: “Lo sradicamento è di gran lunga la più pericolosa malattia delle società umane, perché si moltiplica da sola. Le persone realmente sradicate non hanno che due comportamenti possibili: o cadere in un’inerzia dell’anima quasi pari alla morte […] o gettarsi in un’attività che tende sempre a sradicare, spesso con metodi violentissimi, coloro che non lo sono ancora, o che lo sono solo in parte”.
Ripercorriamo quattro episodi di sradicamento del passato in Italia. Storie diverse che mostrano come i trasferimenti siano stati usati molto al di là del bisogno.
AFRICO 1951
La storia di Africo la racconta Corrado Stajano. Nell’ottobre 1951 un’inondazione colpisce questo paese di circa mille case su una costa dell’Aspromonte, già distrutto dal terremoto del 1908. Gli abitanti erano in guerra contro la miseria e contro le cospirazioni di un pugno di notabili, tra cui il parroco don Stilo, decisi a fermare il “comunismo” che aveva vinto le elezioni del 1946. Sparsi nei campi profughi e nei villaggi intorno, agli africoti “orfani del loro mondo, disancorati dalla loro terra, distaccati dalle loro occupazioni, dalla cura del campo, dell’orto, della stalla e della campagna, chiusi in caserme e in ospizi” venne prospettato un futuro di grazia, nonché erogato “un sussidio che parve una manna”: ci fu chi tornò dall’Australia per prenderlo. Il movimento di protesta nei campi profughi fu spezzato con cariche della polizia, arresti e altri trasferimenti. Uscì l’idea di ricostruire il paese altrove. Don Stilo propose di trasferire l’intero paese in Argentina. Gli africoti volevano per lo più rimanere nel territorio del loro comune, dove avevano le terre. L’intellettuale Zanotti Bianco sostenne che con un decimo del miliardo speso in sussidi si potevano “fare i baraccamenti per l’intera popolazione, e subito dopo cominciare la costruzione degli alloggi definitivi” vicino al paese. Ma l’idea del trasferimento prevalse: si scelse una località nel comune di Bianco, di proprietà di una principessa, ancora oggi nessuno sa perché.
“Fu la ‘ndrangheta – scrive ancora Stajano – a premere per rifare Africo nel territorio di un altro paese, senza terra, senza delimitazione e stato giuridico, in un posto dove i contadini poveri, la grande maggioranza degli abitanti, sarebbero stati privati di quei diritti civici – il legnatico, il seminativo, il pascolo – di cui godevano nel vecchio Africo?”.
Il risultato favorì proprio la ‘ndrangheta, e il parroco che ne divenne l’intermediario, creando un impero sulla miseria e sullo sradicamento. “Gli africoti si sono arrangiati, sono emigrati, hanno vissuto alla giornata, qualcuno è riuscito a vendere, sottocosto, le terre possedute nel vecchio paese e ne ha acquistate di nuove, ma i più hanno perso quel poco che avevano e non sono stati in grado di ritrovare, in un luogo così diverso, né un fazzoletto di terra né la propria identità di pastori. Qualcuno, finito il sussidio, è diventato ladro, bandito, o ha ingrossato l’esercito dei diffidati e dei sorvegliati speciali, un centinaio. In quel mondo di povertà e di scontentezza, la ‘ndrangheta ha pescato e continua a pescare i suoi manovali”. Oggi Africo vive sostanzialmente della Forestale, e mantiene la fama di paese “senza Stato”, di delitti e di violenza. In realtà è l’espressione migliore del tipo di comunità prodotta dalle politiche territoriali degli stati democratici.
MATERA 1954-1962
La vicenda dei Sassi di Matera fu una tragedia ancora più grande. Nei due coni di tufo che Carlo Levi descrisse come gironi infernali vivevano circa diciottomila persone, ammassate in tremila grotte scavate nella montagna sin dai tempi del Paleolitico. Il pavimento di ogni casa era anche il tetto di un’altra, e i ripiani o piazzette erano il fulcro della vita sociale. Ma le condizioni abitative primitive nascondevano una realtà articolata: i Sassi erano uno dei più importanti nuclei di bracciantato comunista e progressista del sud Italia; il Materano era l’unica provincia del Mezzogiorno che aveva votato Repubblica al referendum del 1948 (oltre a Trapani), e la Basilicata era la quarta regione “rossa” d’Italia, dopo Emilia-Romagna, Toscana e Marche. Il Pci nei Sassi prendeva il 60-70% dei voti; migliaia di braccianti dei Sassi, come del Melfese e del Metapontino, avevano partecipato alle lotte per la terra represse nel sangue dal ministro dell’interno Scelba. Nella campagna elettorale del 1948 sia De Gasperi che Togliatti promisero ai materani case nuove. Negli anni successivi il deputato comunista Bianco pronunciò veementi discorsi in parlamento descrivendo i Sassi come “bolge infernali” e “vergogna” da “cancellare”. Saxa delenda sunt, disse in un discorso.
L’iniziativa venne da Adriano Olivetti, allora commissario dell’Unrra-Casas, l’ente che amministrava i soldi della ricostruzione. Olivetti proclamò Matera “capitale simbolica del mondo contadino”, e incaricò un’inchiesta nei Sassi a un gruppo di giovani intellettuali guidati da Friederich Friedmann dell’Università dell’Arkansas. La loro conclusione fu che 1.700 alloggi su tremila si potevano restaurare, e che bisognava ridurre della metà la densità della popolazione. Ma l’idea di creare “villaggi modello” per novemila persone con i fondi del Piano Marshall si trasformò in uno dei progetti emblematici della modernizzazione in Italia: lo svuotamento completo dell’insediamento umano continuativamente abitato più antico d’Europa, e dell’agglomerato di proletari progressisti più importante del Mezzogiorno. La legge sui Sassi fu firmata dal ministro democristiano Colombo: decretandone la chiusura completa si evitò di spendere sulla ristrutturazione e si poterono costruire più case, creando un bacino clientelare maggiore. Gli abitanti dei Sassi iniziarono a popolare il “villaggio modello” di La Martella nel 1954; ma non c’erano strade, le case erano di pessima qualità, gli abitanti occuparono la prefettura per avere i servizi. Giacomo Schettini, dirigente comunista, ricorda che nel 1962 il nuovo insediamento era già quasi del tutto spopolato, oltre a essere diventato un feudo della Democrazia cristiana.
Nello straordinario laboratorio di progettazione urbana sviluppato da Olivetti – ne fecero parte Manlio Rossi Doria, l’architetto Ludovico Quaroni, l’antropologo Tullio Tentori – nessuno percepì i danni in corso. Ne parlarono solo l’architetto Federico Gorio e la sociologa Amalia De Rita. Gorio, tornando nei Sassi in via di svuotamento, scrisse: “Quello che era sembrato un disordine umano, impenetrabile alla nostra comprensione come l’intrico di una vegetazione selvaggia, si rivela un ordine umanissimo che aveva la sola peculiarità di essere diverso dal nostro”.
POZZUOLI 1970-1984
Gli scienziati sociali dei tempi del boom erano troppo impegnati nel farsi dar retta da Olivetti e dalle élite modernizzatrici per poter esprimere dubbi. Nei complessi di case popolari della Gescal e dell’Unrra-Casas i trasferiti non esprimevano gratitudine e soddisfazione, bensì rabbia, vandalismo, violenza, attribuiti invariabilmente alla loro arretratezza o a un individualismo che era invece il prodotto del trasferimento. Spesso le uniche in grado di descriverlo furono donne: una è Amalia Signorelli, che raccontò la deportazione dal rione Terra a Pozzuoli in provincia di Napoli (lavoro completato poi da Angela Giglia, dell’Università di Città del Messico).
Pozzuoli, la città più grande dei Campi Flegrei, con 70 mila abitanti, da migliaia di anni è soggetta al “bradisismo”, il lento smottamento del suolo dovuto all’attività vulcanica, che può accelerare fino a essere pericoloso. Il 2 marzo 1970, a seguito di un piccolo sciame sismico, furono evacuate dal rione Terra, nel suo centro storico, tremila persone di colpo, anche con l’intervento dell’esercito. Una nuova serie di terremoti colpì la città tra il 1983 e il 1984, portando al completo svuotamento del centro. Gli sfollati furono trasferiti in due quartieri costruiti apposta dallo Iacp: Toiano e Monterusciello, nell’entroterra, lontani dal mare.
Signorelli ha intervistato i trasferiti e ha capito che nei nuovi quartieri mancavano tutte le caratteristiche che rendevano dignitosa la vita a Pozzuoli: la vista del mare, dei templi, il mercato, i referenti fisici e simbolici. Le nuove case erano più belle e più grandi, ma i quartieri erano squallidi, perché “abitati solamente”. Ogni mattina i minibus privati riportavano tutti al rione Terra, a passeggiare e a vedere il mare. Anche chi aveva una casa modesta, o una “stanzetta miserabile”, sentiva il privilegio di vivere vicino alle “cose belle”, l’Anfiteatro e il Tempio di Serapide, il mare a trecentosessanta gradi. Per ognuno queste cose avevano un significato diverso, ma l’insieme dava un senso collettivo al paese. Allontanati da questo orizzonte, i puteolani si sentivano segregati e (letteralmente) spaesati: il progetto astratto di un quartiere funzionale e moderno non poteva soddisfare chi con lo spazio aveva un rapporto concreto, legato a una molteplicità di gesti e relazioni. Signorelli e Giglia non ci dicono come il trasferimento abbia influito sull’orientamento politico degli abitanti, ma c’è da aspettarsi che abbia favorito il rinchiudersi nello spazio privato, unico segno di distinzione rimasto, una volta persi quelli collettivi.
VALLE AURELIA 1981-1983
È ancora una sociologa donna, Maria Immacolata Macioti, a raccontare l’ultimo dei grandi “sbaraccamenti” iniziati a Roma nei primi anni Settanta dalla giunta democristiana di Clelio Darida, e completati dalle “giunte rosse” di Petroselli e Vetere. Come a Matera, le demolizioni delle borgate romane sono state la prima forma di “compromesso storico”: con un solo gesto si accontentavano sia le richieste dei costruttori che quelle del Pci. Ma gli abitanti delle borgate volevano risorse per urbanizzare i loro quartieri, non ulteriore alienazione e miseria. Il libro di Macioti su Valle Aurelia è il primo e forse l’unico a criticare l’idea di risolvere il problema della casa con grands ensembles e trasferimenti di massa. Macioti aveva partecipato alle inchieste del sociologo Franco Ferrarotti sulle baracche, e si chiede: “Attraverso quali vie una decisione che avrebbe dovuto essere di progresso sociale si è snaturata fino a suscitare e fomentare reazioni intense in senso diverso se non opposto, fino alla distruzione della comunità preesistente?”. E ancora: “La gente vive come abuso e arbitrio una programmazione che non condivide, di cui le sfuggono i termini, che vive come inutile, se non come decisamente dannosa e arbitraria”.
Gli antichi fornaciai di Valle Aurelia, i lavoratori delle piccole fabbriche di mattoni dietro il Vaticano, avevano conservato fino agli anni Ottanta un orgoglio di quartiere operaio, anarchico e ribelle, una “piccola Russia” che salutava l’avvento di una giunta di sinistra come la fine della contrapposizione storica con l’amministrazione pubblica, l’inizio del riconoscimento per le loro lotte. Invece, “il potere, già avvertito per decenni come arrogante e lontano, si è in buona parte confermato tale anche quando era in mano a persone del proprio partito, a gente cui si era pensato sempre come a ‘compagni’”.
La demolizione delle case auto-costruite della borgata, quasi tutte con giardino, e l’assegnazione di appartamenti in palazzi di dodici piani costruiti lì vicino, crearono uno sparpajamento, la dispersione dei legami di solidarietà e dell’identificazione comune. Le case vennero dichiarate fatiscenti senza neanche fare perizie; si espropriò senza garanzie, con margini di tempo molto stretti; si crearono conflitti tra gli abitanti, penalizzando chi aveva investito nel riparare la propria casa; i canoni di affitto erano troppo alti. Il tutto per fare un parco pubblico che gli abitanti non consideravano prioritario. Il parco si poteva fare anche nelle terre del “costruttore comunista” Alvaro Marchini, proprio lì vicino (dove non c’erano case). Invece, mentre gli abitanti di Valle Aurelia persero le case, le terre di Marchini furono valorizzate, permettendogli nuovi profitti. Il tutto orchestrato proprio dal Pci, che tanti abitanti votavano e difendevano. Si rispose con il mancato pagamento degli affitti, con la rabbia, con la difesa a oltranza dei propri interessi individuali; alcuni si incatenarono alle case e furono trascinati via dalla polizia; altri stracciarono la tessera del partito.
Queste operazioni hanno creato i territori disgregati e violenti che oggi fanno la fortuna dei cronisti di nera. Sono i casi più famosi, ma la dinamica si ritrova tra i trasferiti della Magliana studiati da Bruno Bonomo, tra quelli dell’Acquedotto Felice che ho intervistato a Nuova Ostia, tra quelli del quartiere di Bon Pastor a Barcellona e in innumerevoli altre parti d’Europa e del mondo. Sono passati decenni e la mancanza assoluta di autocritica su queste vicende fa temere il peggio. Con l’arrivo di nuovi grandi finanziamenti, si spenderanno milioni per zone considerate “fatiscenti” o “disordinate”, riproducendo semplicemente il problema altrove, come diceva Engels. Il prossimo è sicuramente l’Idroscalo di Ostia, una zona in teoria a rischio di esondazione, da cui cinquecento famiglie verranno ricollocate in nuovi palazzi, anch’essi però in un’area inondabile. Oggi che in tante parti del sud Europa la proprietà della casa sta di nuovo diventando irraggiungibile, aprendo lo spazio a forme di rapporto con la città anche collettive o comunitarie, questa nuova iniezione di miliardi verrà usata per smantellare le poche tracce di vita condivisa rimaste, continuando a creare individui soli e sradicati. Come ha detto il prefetto di Roma, la proprietà privata è sacra. Il resto, macerie.
RIFERIMENTI
C. Stajano, Africo, Einaudi, Torino 1979.
F. Gorio, “Il villaggio La Martella: autocritica di Federico Gorio”, Casabella Continuità n. 200, 1954, in F. Bilò, E. Vadini, Matera e Adriano Olivetti: Conversazioni con Albino Sacco e Leonardo Sacco, Fondazione Adriano Olivetti, Roma-Ivrea, 2013, pp. 139-145.
A. Signorelli, “Spazio concreto e spazio astratto: divario culturale e squilibrio di potere tra pianificatori ed abitanti dei quartieri di edilizia popolare”, La Ricerca folklorica, n. 20, 1989, pp.13-21.
F Giglia, Crisi e ricostruzione di uno spazio urbano dopo il bradisismo a Pozzuoli: una ricerca antropologica su Monterusciello, Guerini e associati, Milano, 2005.
M. I. Macioti, La disgregazione di una comunità urbana, Siares, Roma, 1988.
Clelio Darida, intervistato a Roma il 10 maggio 2016 da S. Portelli, in Archivio Franco Coggiola del Circolo Gianni Bosio.
Giacomo Schettini, intervistato a Roma il 10 febbraio 2016 da S. Portelli, in Archivio Franco Coggiola del Circolo Gianni Bosio.
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