Questa è la seconda parte dell’articolo pubblicato ieri qui.
Tornando dal globale al locale, eravamo rimasti ai neri che bloccano i magazzini per imporre il finanziamento del diritto alla residenzialità indifferenziata. Ci sono proposte in tal senso, la cosiddetta ospitalità diffusa, una progettualità edificante con cui giocano alcune prefetture, agitandola sul muso delle ONG con cui fanno i tavoli di concertazione per poi protrarre indefinitamente la logica dell’emergenza concentrazionaria e ghettizzante dei campi. Al di là di questo, che tutti gli spazi di costruito inabitato fossero occupati da gente che li autogestisce sarebbe di certo un guadagno per il territorio e il primo dispositivo, insufficiente ma di certo necessario, di depotenziamento, se non annullamento, della segregazione di razza. Ma non basterebbe. Almeno non in tempi brevi o medi. I tempi della praticabilità non sono commisurati ai volumi degli arrivi. Di necessità, oltre agli appartamenti si devono approntare strutture collettive, piccoli campi, ad accesso libero, e con capacità di accoglienza… incalcolabili. Perché incalcolabili sono i volumi. E condizioni di vita più decenti significherebbero una maggiore stanzialità. Poiché proprio a questo è volta l’inospitalità assoluta del territorio, a indurre chiunque abbia un’alternativa a sloggiare non appena col finire della stagione si abbassa la domanda di lavoro. E allora non si capisce il punto di arrivo in questa vertenza permanente per i diritti di soggiorno di una categoria, gli stagionali immigrati, non totalmente identificabile legalmente, non quantificabile stabilmente, non gestibile nei flussi reali. A meno di limitare la vertenza ai soli regolari e sostanzialmente ipotecare così ogni conquista, a causa di questa faccia nera che si celerà sempre sotto il quadro ufficiale.
Tra le leggi del capitalismo, che non paiono sostanzialmente mutate, una di quelle basilari è che la merce fondamentale è il lavoro, poiché è quella da cui si genera il capitale, che è appunto lavoro trasformato in valore attraverso il suo “consumo” (la produzione), immobilizzato, morto, mentre quello in atto nei muscoli è lavoro vivo, energia che nella produzione, consumandosi, si trasforma e si incorpora nelle altre merci. La merce che fa da equivalente universale per gli scambi, il denaro, non è altro che “lavoro astrattizzato”. Questa fondamentale duplice merce, lavoro/denaro, architrave del sistema, ha una natura contraddittoria, oltre che nel rapporto conflittuale tra le due facce, con le esigenze del comando capitalistico: nella sua forma viva, è una merce che si muove da sola; nella sua forma morta, tende a circolare a vuoto e a produrre la speculazione; in entrambe le sue facce, lavoro vivo/proletario e lavoro morto/denaro-capitale, la sua circolazione è incontrollabile. Qui sta una contraddizione insanabile. Di una materia che si vuole in movimento e che viene potentemente mossa ma che si vuole anche controllata e che, proprio per la spinta che l’ha mossa, controllabile non lo è del tutto. E allora si caccia a forza di bombe e accaparramenti di terra la gente dall’Africa per poi affondarla sui barconi nel Mediterraneo, si attirano i disperati a fare da manodopera quasi priva dei costi di riproduzione, proprio perché circolante, però li si caccia via o li si tratta come indesiderati, che sarebbe a dire gli si spara addosso… È per questo che prima ho usato il termine “provocazione”. Che non si intende come la provocazione di un individuo ma come la provocazione di un ecosistema per il tramite delle azioni solo parzialmente coscienti di questo o quell’individuo, che si apposta con la Panda e spara, perché qua comando io.
È quello che è sempre successo con le migrazioni, anche quando erano interne alla stessa nazione, lo racconta benissimo Steinbeck nei suoi libri Furore e La battaglia, che sono ambientati nelle campagne meridionali dell’America della grande crisi. Nel secondo dei due libri, un ragazzo decide, sostanzialmente, di morire per la causa trovando la propria utilità soprattutto nell’uso che il suo compagno farà del suo cadavere per incitare alla lotta. Insieme allo stesso compagno di partito, era riuscito a convincere un piccolo contadino a far accampare nella sua proprietà i braccianti in sciopero, spiegandogli la naturale alleanza del contadinato, strozzato dalla speculazione commerciale e dalla grande proprietà, col bracciantato privo di diritti; e cioè come col loro sciopero i braccianti facessero perdere forza alla morsa del gran capitale e degli speculatori locali che strozzava anche lui. Il figlio del contadino verrà massacrato di botte e la casa del vecchio bruciata dalle squadracce di locali inferociti e sbirri prezzolati dal fronte padronale. Nel primo libro, invece, si comprende bene come per i raminghi un campo sia tutto… a patto che quel campo sia uno spazio di autodeterminazione. La famiglia Jode trova un po’ di respiro quando arriva in un campo governativo dove gli ospiti stessi auto-organizzano la gestione delle strutture e la vita collettiva, fin nel servizio d’ordine, al punto da cacciare fisicamente e ordinatamente i provocatori giunti per una festa di ballo. Libreville.
Libreville può però trasformarsi in una enclave assediata, i Jode infatti se ne andranno perché non c’è più lavoro, la pancia vuota impedendo la vita anche coi cessi puliti e le docce calde. E subito fuori, ritroveranno la guerra nella quale Tom, il primogenito, si perderà definitivamente con gesto immolatorio.
È qui che entra in gioco la questione delle alleanze tra i poveri e gli impoveriti. Invece di cercare i dannati della terra sul cui vissuto costruire utopie incendiarie, il compito dei compagni e delle compagne sarebbe quello di creare possibilità di comunicazione, non nel senso riduttivo-verbale ma in quello della messa in comune e della circolazione simbolica dei contenuti e delle pratiche che possono mediare interessi convergenti… Ecco, appunto, la comunicazione tra subalterni. Non si tratta di un buonista dialogo interetnico, sul quale per inciso non intendo affatto sputare ma che ritengo piuttosto un fattore di questo processo più ampio. Si tratta di non cercare scorciatoie. Loro, gli stagionali immigrati, fanno quello che devono, già così, lottano sopravvivendo. Si auto-organizzano a modo loro, sopravvivendo. Quando si vorranno muovere, lo faranno a modo loro, senza aspettare noi che glielo insegniamo, quando poi non siamo in grado di difendere i diritti nostri, che poi sarebbero pure i loro, e viceversa. Se si è d’accordo che il fronte non è etnico ma di classe, allora anche la composizione che si promuove non può che essere interetnica. Nulla togliendo alle istanze dell’orgoglio nero che maturano in società a segregazione stabile e strutturata, come l’America, in qualche modo la Francia… La Calabria, il meridione, non ha ancora questa configurazione. La sta determinando, ma lo fa in una fase che è diversa da quelle del capitalismo espansivo e delle lotte operaie progressive che contestualizzavano lo sviluppo del Black Power negli States. Il contesto di sub-colonia periferica quale è il meridione d’Italia, e in particolare la Calabria e in particolare alcune zone come la piana di Gioia Tauro, come pure la fase declinante, recessiva in modo strutturale, del capitalismo diciamo almeno occidentale, alterano sostanzialmente i termini del fenomeno d’intersezione tra la dinamica segregazionista a sfondo etnico e la dinamica di classe. Il contesto della baraccopoli di San Ferdinando è una intera area di depressione e sottosviluppo, in cui maturano tali sacche di povertà ed emarginazione autoctone da fare corpo centrale e non semplice appendice all’organismo sociale e il cui capitalismo locale ha la natura mafiosa e compradora tipica delle nazioni periferiche. Per capirci meglio, i contratti finti sono la norma per i lavoratori locali, i full-time travestiti da part-time, i contributi pagati dal lavoratore, il lavoro elargito come una grazia che ti acquista mani e piedi al benefattore, sia il padrone o sia il notabile che ti raccomanda, al quale dovrai devozione eterna ben al di là del semplice voto. È questo un quadro in cui il contadinato è stato bruciato dalle politiche monocolturali filo-industriali e oggi è strozzato dai grossi commercianti locali verso i quali c’è un astio diffuso, per quanto il più delle volte solo mormorato. È appunto creando aggregazione e capacità di conflitto tra gli impoveriti di questi territori che si crea il contesto di accoglimento della soggettività nomade dei braccianti. È questo il lavoro difficile, frustrante, incerto, quotidiano, fatto di applicazione sul centimetro piuttosto che di imprese eclatanti… È questo il lavoro che non fa “spettacolo” e che nessuno sembra voler fare.
SOS Rosarno nacque con questo scopo. Ed è qui che entrano in gioco le insidiose ambiguità e le abissali aporie dell’economia solidale. Con l’idea di sottomettere il mercato equo a una causa politica si è sottovalutata la capacità del mercato a sottomettere tutto, lui sì, e inconsapevolmente si è rimasti vittima dell’illusione della crescita, secondo l’adagio “più vendi più l’alternativa si allarga”. In tal modo si è attuato un modello che non va oltre la monocoltura etica, restando dipendenti dalla necessità di vendere al mercato esterno, ancorché etico, con buona pace di tutte le dichiarazioni di principio su km zero e sviluppo locale autocentrato. In tal modo altro non s’è creato che una nicchia etica di lusso, in cui i contadini son ben disposti a vendere a prezzi equi dietro la garanzia di una retribuzione legale (che non è sinonimo di equo) dei lavoratori. Mentre nelle città d’Italia s’è alimentata una nicchia di consumo etico borghese esclusiva, in quanto inaccessibile ai redditi bassi, convergendo in questa dinamica con il vizio di base dell’economia solidale in toto – compresi i contadini di Genuino Clandestino –, che vorrebbe promuovere l’alternativa senza coinvolgere le fasce sociali subalterne della città.
Questo tipo di modello di alternativo ha poco, in quanto si colloca nella corrente diversificazione di mercato che vuole fin negli scaffali delle peggiori catene, responsabili in ultima istanza delle tragedie come quella di Soumaila, i comparti riservati al biologico, al fare trade, ai prodotti di Libera o Goel. Questa nicchia, legittima, diventa imbroglio quando si propone come modello, in quanto è esclusiva anche sul versante produttivo, ovvero non è generalizzabile, poiché questo mercato, in quanto appunto nicchia, è molto limitato. Succede allora che si crea questa legittima nicchia di produttori etici garantiti dal mercato dei Gas a cui non possono avere accesso nuovi produttori che leverebbero spazio ai primi, salvo che in una quantità commisurata alle possibilità di crescita di questo medesimo “altromercato”, invero molto limitate, anche perché come abbiamo scritto piuttosto esclusivo sul versante del consumo. D’altra parte ci si bea della creazione di aristocrazie operaie bracciantili garantite che non hanno nessuna possibilità di coinvolgimento con la generalità dei braccianti sfruttati e restano di fatto, materialmente, da questi scollati e lontani dai loro conflitti. L’effetto di questa pratica sul piano sociale è che il contadinato si sente vilipeso, snobbato e criminalizzato da queste piccole cerchie che sulle sventure di Rosarno hanno costruito la propria immagine etica, unica possibilità di sopravvivenza. Ecco che SOS Rosarno invece di avvicinare i contadini all’alternativa li allontana, pur non volendo. Ecco che l’equivoco dell’economia solidale si rivela non solo a carattere vacuamente retorico ma addirittura fattivamente dannoso nella dinamica sociale, non fosse per la sopravvivenza di poche aziende sane che già in sé, ne resto profondamente convinto, è un risultato importante, ma in nulla simile alle premesse né agli obiettivi dichiarati!
Così non si parla coi contadini, non si agita né si pratica il conflitto, quindi non si opera la funzione di mediazione aggregativa multietnica nell’ottica di un fronte contadino-bracciantile che era lo scopo a premessa da cui nacque questo come altri progetti simili diffusi nel meridione. Chi scrive è stato fondatore e fautore, organizzatore del progetto e corresponsabile delle sue inconsapevoli deviazioni, incoerenze e clamorosi fallimenti. Chi scrive si è giovato della possibilità, umana oltre che economica, di lavorare per anni come bracciante per SOS Rosarno a un salario legale. Chi scrive sente il peso delle illusioni che sono gravi non in quanto espongono noi singoli a crudi risvegli ma in quanto compromettono o ritardano l’avanzamento di una lotta che sola può dare una possibilità di sopravvivenza umana e civile alla mia terra e alle sue genti, raccogliendo in questa comunità tanto i residenti nativi quanto gli immigrati più o meno transitori. Soumaila ci guarda dritto negli occhi e ci chiede di guardarci allo specchio, affinché, come scriveva Franco Costabile, la smettiamo di “raccontarci storie – sulle nostre contrade”. (arturo lavorato)
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