Il 14 maggio ad Atene la polizia greca arresta ventotto persone nel corso di un’operazione contro attivisti greci ed europei che occupavano la facoltà di Giurisprudenza contro il massacro di Gaza. Nove attiviste italiane vengono prima portate al commissariato, poi trasferite al centro immigrazione, infine deportate nei Cpr greci, in quanto considerate pericolose per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Due giorni dopo, a Roma, un altro attivista e rifugiato politico subisce un provvedimento analogo: l’insegnante algerino Seif Bensouibat, già licenziato a gennaio dall’istituto francese Chateaubriand per dei post su Instagram di condanna al genocidio in Palestina (ne abbiamo scritto in questo articolo), è stato prelevato dalla polizia a casa, portato prima all’Ufficio immigrazione, poi trasferito al Centro di permanenza e rimpatri di Roma, a Ponte Galeria.
Nel 1998, quando i Cpr vennero istituti dalla legge Turco-Napolitano, la reclusione doveva durare trenta giorni, oggi con il decreto Cutro il tempo di detenzione si allunga fino a diciotto mesi. Inoltre, secondo una ricerca del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, solo la metà dei migranti viene rimpatriato, gli altri restano nei Cpr fino a che non vengono liberati. In particolare, risulta difficoltoso il rimpatrio degli algerini. Senza dimenticare che un eventuale rimpatrio per Seif poteva mettere a repentaglio la sua stessa incolumità perché fuggito dal suo paese a seguito di persecuzioni politiche.
Seif è uscito dal Cpr il 20 maggio perché il Giudice di pace di Roma non ha convalidato la detenzione, che ha considerato sproporzionata; su di lui però pende ancora il licenziamento dalla scuola e la revoca dello status di rifugiato. L’art. 604 del Codice penale infatti prevede sanzioni per le persone che istigano all’odio, etnico religioso e razziale. Nel suo caso l’accusa di istigazione si basa su una serie di post di una chat privata di Instagram, in cui Seif aveva pubblicato foto di bambini palestinesi insanguinati, condannando la passività degli stati europei di fronte al genocidio a Gaza. Uno dei post si concludeva con “viva Hamas e viva la resistenza”, per sottolineare come anche nel suo paese, l’Algeria, gli eroi della lotta anticoloniale erano accusati di “terrorismo”. Come hanno scritto Alessandro Bergonzoni e Luigi Manconi nell’interrogazione parlamentare ripresa in una lettera pubblicata dal Manifesto poco dopo il licenziamento, indipendentemente dalle nostre valutazioni “non è possibile criminalizzare un’opinione espressa in privato”.
Eppure Seif il 16 gennaio aveva dovuto lasciare la scuola dove lavorava da dieci anni, nel silenzio della stessa comunità scolastica che è rimasta indifferente al suo allontanamento; pochi giorni dopo, inoltre, è stato convocato dalla commissione territoriale, e il 6 febbraio gli è stato revocato lo status di rifugiato politico che aveva ottenuto nel 2013. L’utilizzo ricattatorio dello status di rifugiato palesa un abuso normativo che restringe le libertà del cittadino straniero. Per la legge italiana, infatti, la revoca dovrebbe avvenire solo quando l’interessato si sia avvalso della protezione internazionale del suo paese, o quando vengono meno le circostanze che determinano la protezione. Invece il dispositivo repressivo si avvale della direttiva europea in materia di migrazione, la n. 95 del 2011, che all’art. 4 afferma che è possibile revocare la protezione internazionale se esistono validi motivi che il soggetto rappresenti un pericolo per la sicurezza dello stato. Questa deriva repressiva è stata raccontata anche da uno studio di Italiani senza cittadinanza, che descrive il frequente respingimento della cittadinanza per cittadini italiani di seconda e terza generazione identificati in manifestazioni e cortei di protesta.
Ma la vicenda di Seif è anche una storia di islamofobia. Basti pensare che il Giudice di pace che stabilisce l’uscita di Seif dal Cpr lo definisce “cittadino islamico”; o che i giudici, per motivare le perquisizioni e le indagini, parlano di “radicalizzazione di lupi solitari riconducibili al terrorismo jihadista”. Simili anomalie accadono nelle perquisizioni: nella prima Seif viene costretto a seguire l’Antiterrorismo in caserma per controllare il suo permesso, pur sapendo benissimo che era un rifugiato politico. Nella seconda, i poliziotti entrano nel suo appartamento chiedendogli di seguirlo in caserma per mostrargli una notifica; invece lo portano prima all’Ufficio immigrazione e dopo al Cpr.
Un altro elemento preoccupante è il ruolo dell’istituto Chateaubriand e dell’ambasciata francese da cui dipende l’istituto. Malgrado la scuola avesse più volte smentito a Seif di aver ordinato la perquisizione e allertato la questura per i post su Instagram, le carte processuali mostrano che la perquisizione è avvenuta su impulso della scuola, che prima si è appropriata dei contenuti privati della chat, poi ha avvisato l’ambasciata francese, che a sua volta ha allertato la polizia.
Il ruolo della scuola non è finito qui: alcuni genitori e studenti hanno provato ad avere delucidazioni riguardo l’allontanamento di Seif ma la dirigenza ha insabbiato la vicenda celandosi dietro generiche parole riguardo la necessità di garantire la sicurezza nell’istituto. Lo stesso Seif, uscendo dai cancelli del Cpr, ha riferito che quando il dirigente lo ha chiamato per chiedergli di non presentarsi a scuola, aveva sostenuto che fosse stata la polizia a contattarlo, chiedendogli di allontanarlo da scuola.
Un ruolo di primo piano nella vicenda è da attribuire ai vertici francesi in Italia. Le comunicazioni tra ambasciata e polizia non si fermano ai giorni precedenti la prima perquisizione del 16 gennaio, ma vanno avanti fino a due giorni dopo, quando l’ambasciata trasmette alla polizia i contenuti privati inviati da Seif a una chat di colleghi, a cui non avrebbe dovuto avere accesso.
Un altro fattore è collegato alla nascita di una rete di solidarietà in supporto di Seif, che il pomeriggio del 15 maggio ha organizzato un volantinaggio davanti alla scuola. Quel giorno la direzione comunica tramite mail agli alunni l’uscita anticipata, invitandoli a non sostare davanti l’ingresso e a non farsi prendere dal panico in quanto “la sicurezza è assicurata dalla polizia francese e dagli agenti italiani”, come se il presidio potesse pregiudicare l’incolumità degli studenti e del personale scolastico. Proprio il giorno dopo, il 16 maggio, la polizia si presenta a casa di Seif per trasferirlo al Cpr.
Nonostante questo, la rete solidale ha provato a muovere qualcosa allo Chateaubriand, e nelle ultime settimane qualcosa è cambiato: alcuni genitori e studenti della scuola sono usciti allo scoperto, sostenendo due appelli online in cui chiedono la revoca dell’espulsione, e poi partecipando al presidio davanti al Cpr di Ponte Galeria. Anche la stampa mainstream ha cominciato a cambiare toni nel racconto della vicenda, non ricorrendo più a parole denigratorie come “pericolo per l’occidente”, bensì rimarcando la disumanità del dispositivo repressivo messo in atto contro Seif.
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Nella prima intervista rilasciata subito dopo il trattenimento nel Cpr confessavi di sentirti come un pacco portato da una parte all’altra della città, ci vuoi spiegare meglio?
Un pacco almeno qualcuno dovrà riceverlo. Mi considero invece come spazzatura, un sacco nero costretto a fare quello che vogliono gli altri. Mi prendono da casa mia, mi portano in Questura, mi dicono “vieni solo per una notifica” e finisco al Cpr…
Quando hai saputo della revoca del permesso di rifugiato politico e hai letto le comunicazioni tra scuola, ambasciata francese e Antiterrorismo cosa hai pensato?
Ho sentito che la terra si apriva e mi ingoiava. Sono stato molto deluso perché la scuola l’ho sempre considerata come una famiglia. Molto dispiaciuto di quanto ho appreso dalle carte perché bastava una conversazione, un chiarimento e non saremmo arrivati a questo punto. Io dico sempre che in ogni storia ci sono sempre due punti di vista e anche nella mia vicenda esistono, ma è stata negata la possibilità di raccontarla. Peccato! Perché questa scuola mi conosce da anni, ho un sacco di amici lì dentro, e soprattutto con i miei ex colleghi e gli studenti ho sempre avuto un bellissimo rapporto. In questi quattro mesi mi sono sentito abbandonato, ma questo non mi impedisce di dire che mi mancano tantissimo e non vedo l’ora di rivederli, parlargli, abbracciarli.
Credi sia un caso che la polizia è venuta a prenderti proprio il giorno dopo il presidio allo Chateaubriand?
È bastato un volantinaggio e un presidio di nemmeno di quindici persone e improvvisamente il giorno dopo vengono a cercarmi, nemmeno fossi un criminale. Volevano chiudermi nel silenzio perché consapevoli che tutto quello che mi sta accadendo è sproporzionato, esagerato. Un’altra persona al posto mio, senza questa rete di solidarietà, composta da amici, legali e sostenitori, non ce l’avrebbe fatta, e sarebbe stata rimpatriata nel suo paese nel silenzio generale.
Qual è stato l’impatto con il Cpr e in che condizioni si trova la struttura?
Dentro la cella mi guardavo intorno e mi dicevo: cosa ci faccio qui? Conoscevo le condizioni dei Cpr perché avevo letto articoli che ne parlavano. Però quando sono entrato dentro ho capito meglio che significano questi luoghi. Ho visto con i miei occhi tante cose che adesso non è ancora il momento di raccontare. Posso solo dire che questa esperienza mi ha ferito nel profondo, ho pensato fosse negata la mia dignità umana.
Come ti sei sentito quando i genitori e i ragazzi della scuola sono venuti sotto al Cpr di Ponte Galeria?
Avevo la pelle d’oca, mi sono emozionato quando ho sentito le voci dei miei alunni, che ho riconosciuto subito, visto che li conosco da anni. Mi ha fatto piacere sentire la mia collega e amica che ha parlato al microfono. Mi sono detto: alla fine cominciano a capire che sto subendo una cosa ingiusta e anormale.
Che idea ti sei fatto dell’attenzione ricevuta dai media dopo l’arrivo al Cpr?
Quando mi hanno portato al Cpr la cosa è diventata più mediatica perché tutti hanno capito la gravità della mia vicenda e l’assurdità di quanto stava accadendo. (a cura di giuseppe mammana)
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