La settimana scorsa abbiamo scritto sulla resa dei conti “a bassa intensità” avviata dalla giunta Manfredi nei confronti degli spazi autogestiti napoletani, auspicando una condotta unitaria in un confronto che non si annuncia breve. Accennavamo anche al ruolo di “cavallo di Troia” che potrebbe ritagliarsi l’assessora comunale all’urbanistica, Laura Lieto, avviando interlocuzioni con alcuni di questi spazi. Ci era sfuggito un articolo pubblicato un paio di giorni prima, il 25 aprile, su Repubblica Napoli, in cui la stessa Lieto illustra quello che hanno in mente i nuovi amministratori della città per le occupazioni legalizzate a suo tempo dalle delibere sui “beni comuni” della giunta de Magistris. Al netto degli eufemismi e del gergo tecnocratico progressista, l’articolo dell’assessora è abbastanza esplicito. Rileggiamone alcuni passi.
Intanto la premessa. “Con la lunga crisi del welfare pubblico, le città hanno fornito risposte diverse a soggetti fragili, bisogni non soddisfatti e differenze insorgenti grazie alla capacità della società civile di organizzarsi e promuovere innovazione sociale. […] Questo articolato processo di coesione si innesta adesso sul Piano nazionale di ripresa e resilienza”, che fornisce “risorse ingenti” e richiede “uno sforzo consistente, da parte delle pubbliche amministrazioni, di contestualizzazione di queste risorse entro pratiche locali che lavorano per una società meno diseguale e più inclusiva”.
Secondo Lieto, quindi, l’intero spettro delle esperienze di autorganizzazione emerse nelle città italiane durante la crisi pandemica, ma in gran parte preesistenti, rientrano senza eccezioni in un processo di “innovazione sociale”, quindi un processo di impresa in senso lato, e di “coesione”, cioè di rafforzamento della società nel suo insieme, che a sua volta si “innesta” direttamente nell’orbita del piano di ripresa promosso dal governo centrale. Peccato però che non poche di queste pratiche, a Napoli come altrove, abbiano tra i loro presupposti la contestazione dell’attuale ordine politico e sociale, il rifiuto dei processi di impresa e delle forze che li sostengono, l’appoggio ai soggetti fragili sì, ma in vista di uno scompaginamento degli equilibri esistenti nella società, non di una maggiore coesione.
Lieto si accosta con cautela al nocciolo della questione. Magnifica, all’interno di questa categoria così vagamente definita, il ruolo dei beni comuni, ai quali si devono “significative innovazioni su spazi pubblici, welfare municipale, produzione culturale e diritto alla città”. C’è un però. “E tuttavia – continua infatti – il tema della messa a reddito, in senso strettamente economico, di questi luoghi suscita riflessioni contrastanti sul costo pubblico da sostenere perché queste infrastrutture continuino a prosperare. In una città come Napoli, impegnata in un complesso piano di rientro del debito, questo tema è particolarmente sensibile”.
Lieto è convinta che queste strutture vadano “messe a reddito”. È infatti seriamente preoccupata del loro “costo pubblico”, tanto più che la città sta lentamente provando a “rientrare dal debito”.
A parte il fatto che la città, a quanto ci raccontano i politici, pare stia provando a rientrare dal debito almeno dai tempi delle giunte Bassolino. Ma intanto non si capisce perché un profitto si debba estrarre proprio da queste strutture, che si occupano, tra le altre cose, di “soggetti fragili” o di produzione culturale innovativa, per usare le parole dell’assessora. Ci sono dei buchi di bilancio da sanare? E volete sanarli spremendo soldi proprio da questa decina scarsa di spazi sociali quando avete circa trentamila immobili (escludendo le case popolari) di vostra proprietà, e di questi ne state mettendo circa seicento nelle mani di Invimit Spa per “valorizzarli”, ovvero venderli o affittarli ai privati? Perché tutta la vostra attenzione si concentra su questa manciata di luoghi?
“E dunque ha senso – continua Lieto – discutere dei modi più idonei affinché i beni comuni possano transitare dalla dimensione ‘aurorale’ […] a una condizione più stabile di produzione di valore-in-comune che punti a una vera e propria economia civile, che sia garantita dal pubblico con l’accordo di tutti i soggetti coinvolti e che consenta continuità, stabilità ed evoluzione delle esperienze in corso”.
Sorvoliamo per carità di patria sul “valore-in-comune” e sull’“economia civile”. Il fatto è che questi specifici beni comuni di cui parliamo si trovano ormai ben oltre la dimensione “aurorale” in cui vorrebbe fissarli l’assessora. L’ex Asilo Filangeri, per esempio, festeggia in questi giorni dieci anni di occupazione. Lo Scugnizzo di Montesanto ne ha sette, Santa Fede Liberata ne ha otto, il Giardino di Materdei ne ha dieci, e così via. La “continuità, stabilità ed evoluzione” che vorrebbe assicurargli Lieto, questi luoghi se le sono sempre garantite da loro stessi, sviluppando relazioni, saperi e pratiche originali, adattando i luoghi alle esigenze comuni, rigenerando periodicamente il proprio bacino di fruitori e attivisti.
Che cos’è allora che non vi torna?
“Un altro aspetto – scrive Lieto – è che si tratta spesso di prassi culturalmente omogenee e politicamente orientate, che inevitabilmente si confrontano con forme di cittadinanza che hanno invece aspirazioni e strumenti culturali diversi”.
“Politicamente orientate”. Finalmente, a metà articolo, l’assessora riconosce che in questi posti si fa politica. Sarà questo il problema? Negli anni de Magistris, con tutto il loro carico di demagogia e inadeguatezza, è accaduto un processo importante, su cui si possono avere opinioni diverse, ma che non cessa di essere rilevante: alcuni collettivi che facevano politica di base in diversi ambiti e territori della città, hanno ottenuto dall’amministrazione comunale il riconoscimento per rimanere nei luoghi, un tempo abbandonati, che avevano occupato e poi rigenerato, impegnandosi in cambio ad attivare alcuni meccanismi di partecipazione e di apertura all’esterno.
Questi posti sono ancora lì e, in un modo o nell’altro, con più o meno efficacia, continuano a fare politica. Deve ammetterlo anche l’assessora. Ha voglia di descriverli come luoghi dell’innovazione, della coesione, dell’inclusione, la vera questione è che in questi posti si fa politica.
Per provare a delegittimarli si può dire che essi esprimono “prassi culturalmente omogenee”, come appunto fa l’assessora. Ma questo è falso. La pluralità delle attività ospitate da questi posti, la diversificazione – per età, classi sociali, provenienze geografiche – degli animatori e dei fruitori coinvolti, la capacità di abbinare la qualità con la varietà e l’apertura della proposta culturale, è andata crescendo negli spazi autogestiti fin dagli anni Novanta. Questi posti non nascono dal nulla, e non li ha inventati certo de Magistris.
Per delegittimarli allora si può dire che questi posti devono confrontarsi con cittadini “con aspirazioni e strumenti culturali diversi”. Niente di più vero. Si può anzi affermare che l’altro, il diverso da sé, le persone che animano questi posti se lo vadano a cercare con il lanternino: i bambini di strada, gli adolescenti impossibili che nessuno vuole intorno, i migranti, le donne dei quartieri, i senzatetto, i disoccupati, le innumerevoli tribù urbane che vivono ai margini della città. Chissà perché, queste persone sono convinte che dall’incontro con il diverso possa venir fuori qualcosa di buono, di inedito, in qualche caso addirittura di sovversivo; di sicuro qualcosa di molto lontano dalla segregazione in cui ampie parti della società cittadina, chiuse nei quartieri alti, nelle università, negli uffici comunali, manterrebbero volentieri questo tipo di popolazione.
Insiste l’assessora. “Qui si apre il tema di come garantire una possibilità di azione a quanti vogliano variamente impegnarsi dal punto di vista civico, di come assicurare accessibilità e fruizione a tutti i soggetti che vogliano partecipare, ed è questa una questione centrale”.
Vi ricordate? É come quando si occupava l’università. Spuntava sempre il gruppetto di studenti che chiedevano al rettore e alla polizia di riaprirla. Loro vogliono studiare. Non gli importa che i professori siano negligenti o autoritari, gli insegnamenti insensati, gli spazi per gli studenti inadeguati. Per queste cose è inutile protestare, loro vogliono studiare nell’università così com’è. D’altronde, cosa dicono i politici ai disoccupati che si uniscono e lottano per strappare un posto di lavoro? “Perché voi e non altri? I disoccupati in questa città sono decine di migliaia…”. E così accade anche quando si occupa e si ridà vita a uno spazio abbandonato. A un certo punto arriva quello che dice: ma perché voi, e non io? E quelli, da dentro: ma vieni a occupare anche tu. E quello, da fuori: io voglio “impegnarmi dal punto di vista civico”, voi mi dovete “assicurare accessibilità”. E se ne va. Così fa l’assessora Lieto, fingendo di ignorare, tra l’altro, lo zelo quasi eccessivo prodigato in questi anni da posti come l’ex Asilo Filangeri per assicurare garanzie e procedure affidabili per tutti i “soggetti che vogliano partecipare”.
“Lavorare in questa direzione – continua Lieto – significa investire nei beni comuni e farli evolvere anche come luoghi di produzione di servizi sociali di qualità e a bassa soglia, in grado di coprire aree del welfare totalmente desertificate”.
Ecco che l’assessora immagina un futuro ben preciso per questi spazi: produttori di “servizi sociali di qualità”, in quei settori dove il welfare locale ormai non arriva (o non è mai arrivato). E chi dovrebbe formare, indirizzare, fare da guida, da riferimento verso questa auspicabile “evoluzione”? Forse il personale dei servizi sociali comunali, ormai “totalmente desertificati”? Oppure le imprese dell’arrembante terzo settore cittadino, quelle che continuamente attingono da quegli stessi spazi sociali un personale formatosi da sé sulla prima linea dei quartieri e lo ricompensano con paghe da fame, contratti precari e progetti insensati, buoni solo a espandere il bacino di disagio sociale su cui si esercita la loro crescente potestà.
E infatti, ecco puntuale l’assessora. “E allo stesso tempo significa non alimentare il lavoro precario ma generare ‘lavoro buono’, tutelato ed equamente pagato, dando, a chi voglia spendere le proprie competenze professionali in progetti di ispirazione civica, una possibilità concreta”.
Lavoro buono… Bisogna ammettere che ci vuole coraggio. Ma andiamo fino in fondo ai pensieri dell’assessora. Andando per esclusione, è facile immaginare che nella sua mente gli unici soggetti eleggibili per creare “lavoro buono” nei “servizi sociali di qualità” siano le imprese del terzo settore, scelte tra le più attive, ma soprattutto tra le più affidabili dal punto di vista politico. Dell’unico genere di lavoro che queste imprese private sono in grado di creare, abbiamo scritto nel paragrafo precedente.
Nell’insieme, conclude Lieto, si tratta di “un processo solo in parte monetizzabile, ma che può essere soggetto a metodi di valutazione qualitativa raffinati e accurati. Di questa accountability delle pratiche che animano i beni comuni il governo della città deve farsi carico insieme ai soggetti che li abitano, condividendo i criteri di valutazione delle attività realizzate e avendo cura soprattutto dell’impatto sociale che queste generano sulle comunità aperte cui sono destinate”.
Insomma, la giunta di una metropoli indebitata fino al collo, i cui i servizi educativi, sociali, culturali sono storicamente, e ancor più oggi, incapaci di garantire standard minimi di decenza per ampi strati della sua popolazione, invece di attivarsi per elevare questi standard, si sta fieramente impegnando nel tentativo di delegittimare, e poi smembrare un pezzo alla volta, una manciata di spazi sociali di avanguardia, le cui pratiche non sono nemmeno lontanamente avvicinabili da quelle delle omologhe strutture comunali, e le cui colpe sono di essere stati legittimati dalla precedente giunta, ma soprattutto di fare politica, e di farla innanzitutto attraverso lo sviluppo delle relazioni e della socialità in numerosi campi. E quindi, per suggellare il tutto, questo ente locale disastrato non ha vergogna di prefigurare, in una più ampia strategia di disarticolazione, la possibilità di “valutare l’impatto sociale” delle attività realizzate in questi luoghi. Una procedura che l’assessora Lieto definisce accountability. E che noi chiamiamo controllo. (napolimonitor)
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