L’eliminazione della Spagna da parte del Marocco avviene il 6 dicembre, festa nazionale della Costituzione: in questo giorno il governo spagnolo celebra il documento con cui il re, cacciato dal popolo e restaurato da Franco, instaura il cosiddetto stato democratico, in inquietante continuità con quello franchista. C’è quasi un milione di marocchini in Spagna, senza contare quelli con la nazionalità spagnola; ma la Spagna ha fondato gran parte della sua identità sulla memoria della reconquista della penisola dal dominio arabo, riattualizzando continuamente stereotipi medievali. Molte città festeggiano ancora le battaglie tra moros y cristianos, e nel 2004 il presidente José María Aznar dichiarò che “il problema della Spagna con Al Qaeda è iniziato nell’ottavo secolo”. Dai primi anni Duemila ci sono continui attacchi e manifestazioni contro le moschee, anche nelle periferie di Barcellona, dove vivono quasi duecentomila marocchini; e negli ultimi anni, partiti islamofobi come Vox e Ciudadanos hanno ravvivato il razzismo anti-marocchino, anche in occasione di partite di calcio. Proprio il giorno prima di Spagna-Marocco, a Vitoria, nei Paesi Baschi, qualcuno ha lasciato un cadavere di cinghiale di fronte alla moschea, la stessa in cui nel 2016 avevano sparso sangue e carne di maiale. Intanto, la memoria di mezzo secolo di protettorato coloniale spagnolo nel nord del Marocco (1912-1958), e quella delle bombe sganciate sul Riff durante la rivolta di Abdelkrim Khattabi, sono quasi inesistenti, nonostante l’ex potenza coloniale mantenga ancora le due enclave fortificate di Ceuta e Melilla. Il giorno prima della partita, l’ennesimo migrante è stato trovato morto nel tentativo di attraversare a nuoto la frontiera di Ceuta.
Un’infinità di giornali e siti web avevano diffuso l’allerta e anche notizie false sul pericolo di incidenti o scontri che avrebbero causato i marocchini nelle città spagnole dopo la partita; l’hashtag #putosmoros girava da qualche giorno su Twitter, mentre polizia catalana e nazionale avevano già preparato un dispositivo antisommossa. L’amministrazione carceraria aveva proibito la visione della partita nelle zone comuni del carcere. Poca presa sulla realtà? Il giorno successivo, infatti, tutti i telegiornali hanno dovuto riconoscere il clima puramente festivo, addirittura fraterno, delle celebrazioni della vittoria del Marocco, in contrasto con gli scontri di Bruxelles e Amsterdam. La Sexta intitola il servizio sulle celebrazioni “Contrapposti e gemellati”, evidenziando il buen rollo tra le due tifoserie; addirittura il Faro de Ceuta, che raramente brilla per progressismo, riconosce un “ambiente di sportività”, “tranquillità e armonia”.
In generale cerco di evitare di vedere le partite, proprio perché non sopporto questa tensione creata ad arte tra i due schieramenti; gli stadi mi mettono il nervoso, mi sembrano dispositivi di educazione all’odio, soprattutto quando si scontrano le nazionali. Non reggo lo stress dei simboli nazionalisti, della polarizzazione, della violenza latente, dell’attaccamento di ognuno al “suo” paese. Però mi interessa moltissimo vedere come gestiscono queste tensioni i tifosi; starei tutto il tempo a guardare il pubblico, invece della partita. Per questo sono stato contento di andare a vedere Spagna-Marocco in un ristorante arabo nel quartiere intorno alla Sagrada Familia di Barcellona. Mi ha invitato un gruppo di musicisti gnawa marocchini contrattati dal locale per suonare durante la partita. Gli gnawa sono una confraternita di musicisti famosa in Marocco perché sono in grado di evocare gli spiriti e provocare la trance durante complessi rituali notturni; ma vengono anche chiamati alle parate, a inaugurare i negozi, ai matrimoni, perché portano fortuna; i loro strumenti, soprattutto il grande tamburo e le nacchere di metallo chiamate kraqeb, hanno una funzione propiziatoria, e loro stessi conoscono tantissime formule per le benedizioni, preghiere per la buona sorte, frasi per tenere lontana la sfortuna. Questa partita era proprio una delle occasioni in cui c’era bisogno degli gnawa, visto che il Marocco dagli anni Sessanta non era mai riuscito a sconfiggere la Spagna. Supero la porta d’ingresso del ristorante Luxor, su cui campeggia una brillante insegna luminosa, passo il corridoio di specchi ed entro nella sala centrale, decorata con generici arabeschi, lampadari orientali, e una gigantografia colossale dei templi di Abu Simbel. I tavoli sono già traboccanti di gente che mangia, beve e fuma il narghilè. Quattro maxischermi trasmettono la partita, da ogni parete della sala.
Gli gnawa sono seduti in fondo, con i vestiti tradizionali, i copricapi tempestati di conchiglie, le sciarpe della nazionale e un grande tamburo dipinto dei colori della bandiera del Marocco. Tutta la sala freme di rosso e verde; un gruppetto agita una bandiera con la stella, un altro tira fuori un drappo verde giallo e blu con il simbolo berbero, un altro tiene in aria una sciarpa che dice Maroc. Naturalmente, nel ristorante non c’è una goccia di alcool, almeno in vista: sui tavoli solo bibite gassate, tè alla menta, shisha nei narghilè, e acqua. Il primo tempo è già quasi a metà quando mi siedo tra gli gnawa e un attore marocchino, nato a Larache, nel nord del paese, che mi mostra subito il video di un suo monologo in un teatro di Lerida, strapieno. Al tavolo accanto, un giornalista di Tangeri inveisce contro i blogger e chi si improvvisa giornalista. Ma sta solo giocando: come avevo notato anche guardando le partite in Marocco, rispetto ai nostri standard mi pare che tutti abbiano molta più voglia di scherzare e prendersi in giro che di commentare il gioco.
Gruppi di ragazzi e ragazze di seconda generazione fumano shisha e bevono tè alla menta; le comitive più maschili ridono, cantano e ogni tanto si alzano per gridare un coro da stadio, che tutti seguono entusiasti. I camerieri scattano veloci tra i tavoli, portando via i piatti del pranzo e portando le teiere. Ogni volta che il Marocco si spinge in avanti, gli gnawa partono con il tamburo e i kraqeb, che in tanti seguono battendo le mani. Alla fine del primo tempo tutti si alzano in piedi a cantare e sventolare le bandiere; il maestro gnawa, l’anziano Abdellah Harrouch, comincia a girare per la sala suonando i kraqeb velocissimo per animare la folla: tàkata tàkata tàkata tàkata! Abdellah è nato a Tangeri, da una famiglia gnawa di molte generazioni, ed è il primo maestro gnawa arrivato in Catalogna, all’inizio degli anni Novanta. Porta una tunica rossa tradizionale, una felpa del Barça, un cappelletto rosso con la stella verde del Marocco e una sciarpa blu e rossa, forse dell’Arsenal. Non sembra affatto interessato alla partita, al punto che dopo il gol mancato da Cheddira abbraccia tutti gridando, convinto che avesse segnato. E tutti a sbellicarsi, lui compreso.
Nessuno ha ancora vinto o perso, ma è già una grande festa, di incoraggiamento e condivisione. Si cantano addirittura i cori che inneggiano a dio e al profeta, come nelle feste religiose o ai matrimoni: quando il portiere del Marocco sventa un gol, o il Marocco sta arrivando nell’area avversaria, tutti cantano il coro Sla w slem ‘ala rassul Llah che le donne gridano ai matrimoni, concludendo con il classico grido berbero laylaylaylaylaylaylay!
Le strade intorno al ristorante sono tutte in festa e le macchine suonano il clacson quando passano. Il gruppo di tifosi si allarga ancora; salgono sui cassonetti, cantano, battono le mani al ritmo dei tamburi; nessuno parla della partita, né sbeffeggia gli avversari. Si festeggia una vittoria storica, ma non colgo segni visibili di rabbia antispagnola o anticoloniale. Sono tutti allegri e vogliono festeggiare. Si scende in piccoli gruppi verso la Rambla, con i Mossos d’Esquadra che girano con le sirene, senza trovare ragioni per intervenire.
La festa dura molte ore, prima vicino alla fontana di Canaletes, sulla Rambla, poi in mezzo a plaça Catalunya. Oltre alle bandiere marocchine ci sono quelle algerine, amazigh e palestinesi. Si canta Heyoo mabruk 3lina, il nuovo inno del cantante olandese marocchino Ismo, con strofe in francese, arabo, olandese. Nessun incidente, nessuna tensione. Verso le dieci arriva il rapper marocchino El Paisano, di Tangeri, nato a Barcellona e che canta in spagnolo, che gira un video in mezzo alla folla in festa. Dietro, un gruppo di ragazzette fa il segno della L con le mani: è il segno di un altro famosissimo rapper ispano-marocchino in competizione con El Paisano: El Morad, anche lui nato vicino Barcellona, nella città di Hospitalet de Llobregat. Ma anche qui, la tensione tra i due rapper non sembra creare dissidi. Di fronte ai tentativi di polarizzazione del mondo del calcio, del nazionalismo spagnolo, della propaganda xenofoba di Vox, i marocchini di Barcellona in festa mi sembrano avere voglia di riscatto e di dignità, ma non rabbia o odio contro il paese cosiddetto “d’accoglienza”, che invece fa di tutto per respingerli ed emarginarli. Anche rispetto a quello che dev’essere successo a Bruxelles e Amsterdam, sembra che ci sia qualcosa di vero in uno dei titoli di giornale alla vigilia della partita, che diceva: “Scegliere tra la Spagna e il Marocco è come scegliere tra mamma e papà”. Curiosamente, la stessa frase l’avevo sentita dire da una giovane ragazza catalana, durante il conflitto indipendentista: “Scegliere tra la Spagna e la Catalogna è come scegliere tra mio padre e mia madre. Non capisco perché dovrei”.
C’è una canzone di El Paisano che si chiama Dos Mundos, e inizia su una spiaggia di fronte al Peñón di Gibilterra, la grande montagna a picco sullo stretto che divide la Spagna e il Marocco. El Paisano pianta le due bandiere sulla spiaggia, quella della Spagna e quella del Marocco, e canta: “Due mondi / Spagna e Marocco / Attraversare lo stretto / Le bandiere sul petto”. Altro che doppia assenza! Mi pare che in questo nazionalismo che stanno celebrando in plaça Catalunya ci sia qualcosa che sfida profondamente le divisioni post-coloniali, ma puntando sulle alleanze di classe, di quartiere, non sul riscatto nazionale. Un altro video El Paisano lo ha girato nel quartiere di Príncipe, il più povero di Ceuta, dove migliaia di marocchini immigrati illegalmente si nascondono nelle case dei familiari, sperando di non essere ributtati in Marocco o trascinati in un centro di detenzione. In un altro canta per Tangeri, e in un altro ancora per Barcellona: “Agli inizi era duro […] ora stiamo hamdullah, che controllo il campionato / Tutti i miei sono felici, che Allah ci benedica”. Sono figli dei quartieri, sia di quelli marocchini che di quelli spagnoli, e questa doppia presenza è carica di orgoglio per chi ha superato la migrazione, ma anche di amore per chi è rimasto lì. Non sarà facile abbattere queste barriere che durano da secoli, riattualizzate ogni giorno. Così dice in Dos Mundos: “Sono figlio di un muratore che è immigrato / ora il figlio del muratore è diventato cantante / Non vado per una strada sbagliata / Sento che sono la voce / di tutti i miei paesani / Sono figlio delle signore che caricano i pesi / sulla schiena della frontiera di Ceuta / e sono anche figlio di quello / che emigra su un barcone. / Due Mondi / Spagna e Marocco / pieni di dolore per l’immigrazione. / Due mondi / e uno non sempre risponde con compassione. / […] Qui siamo uguali / Spagna e Marocco / non siamo rivali”. (stefano portelli)
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