Ne L’amore buio, Antonio Capuano raccontava qualche anno fa le vite parallele di due adolescenti che abitano la stessa città, Napoli, ma sono immersi in mondi lontanissimi. Le loro traiettorie s’incrociano solo per pochi istanti, in modo tragico e violento. Lo stupro di un gruppo di ragazzini di strada ai danni di una coetanea della città-bene, al culmine di una giornata di scorribande estive, è l’episodio che apre il film e ne indirizza lo svolgimento, con il progressivo avvicinarsi tra uno dei ragazzi, chiuso nel carcere minorile, e la sua vittima, che ha ripreso la vita di prima, tra scuola, famiglia e fidanzato, ma con un’insofferenza nuova e un malessere crescente nei confronti di quella cornice di relazioni obbligate.
Capuano indaga da sempre il rapporto tra le “due città”, quella borghese e quella plebea, privilegiando il punto di vista di adolescenti e bambini. Con le sue opere ci ripete che i temi della separatezza e della convivenza sono cruciali per il futuro della città, che nessuno può girare la testa dall’altra parte di fronte alla violenza, all’ignoranza, all’ingiustizia; né illudersi di alzare muri o di nascondersi dietro i cancelli, perché ogni volta che ci proviamo il “mostro” viene a cercarci fin sotto casa; e che non valgono le soluzioni drastiche, quelle che oppongono i buoni ai cattivi, il buio alla luce, perché la città è fatta di esseri umani e delle loro relazioni, e se non cambiano queste niente cambierà.
Servirebbe rimettere in circolo qualche film di Capuano per arginare questo fiume di immagini e parole sconnesse che ci sommergono da settimane raccontando di una città ostaggio di ragazzini feroci, che esercitano una violenza senza apparenti motivi? No, non servirebbe. Tra una settimana o tra un mese, la marea si ritirerà da sola. Quante volte è accaduto? L’evento tragico che apre gli occhi su una realtà arcinota, le reazioni indignate, gli appelli alla legalità, i richiami al ruolo della scuola, della chiesa, del volontariato; poi la psicosi cresce, le “immagini choc” su Facebook, le aperture dei tg nazionali, la casistica martellante delle aggressioni, sempre più slegata da una cornice di senso (in questo esercizio, si sa, i giornalisti sono insuperabili), fino alle dichiarazioni del sindaco, del ministro, all’invio della “task force”, all’erogazione di denaro una tantum per qualche associazione di benintenzionati. E avanti così, fino alla prossima ondata.
Accade da anni, da decenni. Un discorso cristallizzato in immagini logore, che cambiano solo per il paesaggio sullo sfondo: gli sciuscià del dopoguerra che accompagnano i marines dalle prostitute, i muschilli che sfrecciano sui motorini truccati negli anni Settanta, i baby-killer nei Novanta, le “paranze di bambini” l’anno scorso. E adesso – ma anche dieci anni fa – le “baby gang”. I volti cambiano, ma davanti abbiamo sempre la stessa figura, immutabile nei suoi caratteri, nella sua prospettiva di vita.
Politici e intellettuali, preti e giornalisti, insegnanti e imprenditori continuano a interrogarsi. Hanno davanti agli occhi questa spia che continua a lampeggiare, a segnalare una falla nel sistema a cui tutti sembrano così affezionati. Ma la falla, nessuno di loro può ignorarlo, è l’inevitabile eredità di una metropoli cresciuta sull’esclusione e la disuguaglianza, sull’abbandono declinato in tutte le sue forme, urbanistiche, sociali, politiche, culturali. Tutto questo agitarsi non indica forse in costoro un disagio interiore, una coscienza non proprio immacolata?
Le soluzioni che hanno in serbo poi sono il solito concentrato d’inefficacia e ipocrisia. Ancora le squadre speciali del ministro dell’interno, ancora “l’esercito degli insegnanti”, i “presìdi di legalità”. Il solito “pacchetto” dell’ossimoro – sicurezza e solidarietà – da attivare quando la spia lampeggia con più insistenza. Quando basterebbe anche qui farli sedere per un’ora davanti a un film, A scuola, girato da Leonardo Di Costanzo nel 2003, per fargli esplodere contro l’insensatezza della scuola così com’è, il naufragio delle buone intenzioni progressiste, l’esclusione sistematica degli allievi problematici in un qualsiasi istituto della periferia metropolitana. Ma c’è da scommetterci, non servirebbe a niente.
La realtà è che dentro questo perimetro, al di fuori del quale nessuno di coloro che hanno preso la parola in questi giorni osa avventurarsi, tutto è già stato tentato. Dalla constatazione che la scuola non era adatta ai ragazzi di strada, per esempio, nacque vent’anni fa l’esperienza di Chance, la scuola della seconda opportunità, che in dieci anni ha compiuto la sua parabola: all’inizio piena d’energia e di ottimismo, alla fine rattrappita dalla sfiducia e dalla burocrazia. Così oggi, in una situazione infinitamente più arretrata per disponibilità politiche e di risorse, leggere che il suo fondatore, Marco Rossi Doria, attuale responsabile della cabina di regia ministeriale contro la dispersione scolastica, vorrebbe istituire un “presidio permanente in ogni quartiere, in cui confluiscano tutti gli operatori che si occupano di educazione, disagio, giovani”, fa più che altro malinconia.
L’impressione è che ogni parola sia stata già spesa, e inutilmente. Eppure non è così. A parlare sono stati, come sempre, soltanto i “bianchi”. Dei “negri” è stato captato qualche ridicolo o spaventoso frammento, per esacerbare il disprezzo o il terrore; ma sollecitarne e poi ascoltarne le voci è operazione del tutto diversa, e del tutto fuori dalla portata dei nostri osceni cronisti e caporedattori. È vero, tra i bianchi ha testimoniato anche qualche sparuto mediatore, qualche educatore di buon senso, differenziandosi dal coro per sensibilità o per accuratezza, facendo balenare talvolta il problema della giustizia sociale, l’unico spendibile in questa situazione, l’unico che potrebbe smuovere la palude di un dibattito ipocrita. E, certo, sono scesi in piazza anche i ragazzi: gli amici e le amiche di Arturo, di Gaetano, delle vittime del momento. È stato importante e confortante. Peccato che alle loro parole si siano sovrapposte immediatamente quelle degli adulti: dei politici, dei genitori, degli insegnanti.
Altre voci invece sono mancate del tutto. È mancata quella collettiva degli educatori, degli operatori sociali. Nessun gruppo o associazione si è preso la briga di stilare un documento, di prendere posizione, di provare ad arginare banalità e generalizzazioni. Era successo negli anni scorsi, quando i ragazzi di quartiere erano stati vittime mortali – al Rione Traiano di un carabiniere e alla Sanità di un commando di camorristi – ma stavolta che sono carnefici è calato il silenzio. E non solo per il timore di essere fraintesi, per non rischiare di essere confusi con la parte sbagliata, ma soprattutto perché chi oggi fa intervento sociale opera in una dimensione del tutto asettica, neutra, “professionale”, integralmente subordinata ai discorsi contro cui dovrebbe far fronte. Non esiste più da tempo una dimensione politica, critica, conflittuale di tale intervento, non esiste memoria né consapevolezza nelle attuali organizzazioni di essere eredi di un ruolo e di una funzione che non è stata sempre così integrata e servile, così accessoria ai poteri e alle sue retoriche.
Perché ogni volta che si tirano in ballo i ragazzi di strada napoletani, quel che viene a galla non è solo la sequela di speculazioni e trascuratezze sui quali è cresciuta la città odierna, ma anche tutta la nutrita galleria di chi ha provato ad andare in direzione contraria, e l’ha fatto alleandosi con i più giovani e diseredati: creando pratiche pedagogiche, aprendo spazi di condivisione, cercando le vie della consapevolezza e dell’emancipazione. Sono personaggi evocati abitualmente fuori dal loro contesto storico, come figurine patetiche e innocue, eppure gente come Mario Borrelli, il prete che condivise la strada con gli scugnizzi nel dopoguerra e con i baraccati negli anni Sessanta, come Felice Pignataro, l’inventore negli anni Ottanta del carnevale sociale, una formula che oggi ha messo radici in ogni quartiere, e come tanti altri, singoli e gruppi, anche in anni recenti, non erano sentinelle al servizio dell’ordine pubblico, ma persone che mettevano in discussione integralmente il mondo in cui vivevano, senza esitare a schierarsi dalla parte “sbagliata”, denunciando le responsabilità delle istituzioni anche quando ne facevano parte (Borrelli, per dire, arrivò a cambiare ordine religioso per sottrarre alla Curia il controllo del centro comunitario che aveva fondato a Materdei). Oggi le organizzazioni di intervento sociale cooperano sotto la stessa bandiera di politicanti, cardinali e banchieri, nel tentativo di tappare i buchi che si aprono nella tela del migliore dei mondi possibili. Gli squarci però continueranno ad aprirsi, in maniera sempre più disperata e brutale, e i primi a farne le spese saranno come sempre i più fragili, i più contigui al disagio e alla violenza.
Infine, anche stavolta è mancata la voce dei “negri”. Dei barbari, dei cattivi, delle baby gang; dei dispersi, degli invisibili, dei ragazzi e delle ragazze dei ghetti urbani. Intrattabili, pazzi, criminali, loro non parlano mai. E non confondiamo la loro voce con quelle immagini postate su Facebook, o con quei volti travisati di fronte alle telecamere, con quei suoni camuffati e distorti che in qualche servizio del tg sembrano confermarci tutto quel che già crediamo di sapere sul loro conto.
Carla Melazzini, che era capitata a Napoli dalla Valtellina per fare scuola a questi ragazzi, ci ha insegnato quanto sia difficile creare le condizioni perché possano davvero prendere la parola. Ci ha descritto che lavoro minuzioso, estenuante, spesso frustrante sia necessario. Ci ha trasmesso la difesa ostinata degli ultimi della classe, la battaglia contro lo stigma, la disponibilità ad apprendere da loro, e non solo a insegnare; ma anche a non idealizzarli, a non accettarne l’incontinenza verbale e fisica, la pigrizia, il conformismo, gli scoppi di violenza, la condizione servile riservata alle donne. Ci ha esortato a rintracciare le origini di quei comportamenti, dell’odio, delle paure, dell’incomunicabilità; non per giustificarli o compatirli, ma per affrontarli con lucidità, istituendo zone franche, spazi fisici e mentali dove rielaborare i lutti e le sofferenze, luoghi tanto più efficaci quanto potenzialmente “pericolosi”, perché possono aprire “prospettive di relazioni e di vita sentite come inaccessibili”. Tutto questo, chi oggi ha il diritto di parola, non solo non può capirlo ma non vuole nemmeno concederlo. Eppure è l’unica strada, insieme a un posizionamento critico, collettivo, politico, verso il mondo così com’è. Non la soluzione, ma l’unica alternativa a questo insensato baccano. (luca rossomando)
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