Sarà presentato martedì 28 febbraio, a Napoli, alle ore 17.30 al Centro per le arti della scena e dell’audiovisivo (CASA – Palazzo Degas, calata Trinità Maggiore, 53), Cospira, libro di Patrizio Esposito. Con l’autore discuterà del volume Attilio Scarpellini.
Nelle prime pagine di Cospira (Cronopio, 2022) Patrizio Esposito esamina le foto delle torture di Abu Grahib e nota come “ricorre lo schema fondante di alcune pitture popolari del Congo divenuto proprietà privata di Re Baldovino nel 1885 (un dono delle potenze europee che colonizzavano l’Africa) e poi del Belgio nel 1908: i neri sono quasi sempre dipinti al suolo, faccia a terra nelle baracche o nelle piantagioni dove la schiavitù fiorisce. Su di loro risalta la figura eretta dell’aguzzino bianco in abiti civili (o di un suo funzionario): ha frusta o bastone nella mano ed è ritratto mentre colpisce i corpi distesi”. Cospira mi sembra un’indagine divagante sull’origine degli sguardi nel mondo in cui viviamo. In basso sta l’oppresso, “l’incapace di star dritto”, e in alto, con “la schiena dritta”, s’erge l’oppressore. Il secondo, con la sua “posizione impettita” è il “puntello che regge il nostro quotidiano guardare”. Così la posizione di chi schiaccia determina l’abituale configurazione dello sguardo occidentale: la “prospettiva lineare” è il punto di vista del dominatore.
Cospira è una ricerca non sistematica sugli assetti possibili che permettono la configurazione di una visione. L’oppresso guarda da altrove: “I neri, i sottomessi, i poveri, le plebi, toccano la terra coi corpi sfiancati: da quella postura penano e guardano. E se dovessimo reclamarla quella posizione? E se da quella posizione venisse il guardare che coglie quanto è trascurato o velato dai vocabolari egemoni?”. Cospira esplora un archivio di visioni che s’oppongono al “vedere frontale”: sguardi curvi, reclinati, “pose slogate”. E così la scrittura – un annotare di esperienze e ricordi – imita la slogatura dello sguardo e cerca un andamento “discontinuo, privo di risultati istantanei e rivolto a lingue dette insane”. Nei capitoli s’accostano voci e visioni dai margini: le prigioni segrete del Marocco dove “in basso, sottoterra, sono tenuti soldati e dissidenti marocchini, dei militanti sharawi con loro”; una casa di contadini abitata da Antonio Neiwiller; l’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli; Chatila, quartiere di esuli dove una donna esclama: «Veniamo dal villaggio di Safouryeh, vicino Nazareth, uccisi o cacciati come animali, al nostro posto i coloni».
C’è una statua di Donatello in una nicchia di Orsanmichele a Firenze e rappresenta San Giorgio eretto che tiene uno scudo. Alla base della statua si trova un rilievo in marmo dello stesso Donatello: San Giorgio libera la principessa. Al centro della scena cavalca il santo, impugna una lancia che si conficca, dall’alto verso il basso, nel petto del drago schiacciato a terra, la coda attorcigliata. Esposito non menziona questa immagine, eppure mi sembra coerente nella galleria di Cospira: nell’atteggiamento del cavaliere e del drago intravedo l’origine di un rapporto di forza, e dei relativi sguardi. In un diario sloveno l’autore riporta la storia di un contadino sordomuto e del suo toro che “sarà abbattuto in una struttura comunale, ucciso secondo le leggi moderne”. Il contadino firmerà i fogli necessari perché “la burocrazia […] combina il sangue all’igiene, certificando l’esclusiva istituzionale della morte”. Ritorna la stessa figura con un aggiornamento adeguato al nostro tempo: oggi il drago sarebbe ucciso a seguito di un’ordinanza comunale.
Nel vagare deviante degli appunti di Esposito compare Rosa Luxemburg che scriveva in una lettera dal carcere: “Gli uomini estranei e terribili e le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia”. Questo sentimento di comunanza è forse possibile se l’occhio osserva tra le sbarre della prigione, istituzione totale che mostra – scrive Esposito in memoria dell’anarchico Pinelli – “quell’efficienza dello Stato nel dare morte ai suoi cittadini pensanti”. E uno sguardo non lineare, fuori asse, sorge anche dall’istituzione manicomiale che contiene “folli quietati dalla cura del sonno e dalle fasce strette tra i polsi e sponde del letto”. Da qui emerge l’arte a forma di labirinto di Oreste Fernando Nanetti. Allora Cospira m’appare come un’interrogazione di quel che vede il santo, di quel che vede il drago. Eppure le due modalità non sono certo paritarie, né simmetriche; forse per questo chi scrive segue l’andatura sghemba che elude la geometria lineare.
Trovo straordinario il rilievo di Donatello ogni volta che ne osservo il paesaggio sullo sfondo. A destra, dalla parte del santo, vedo archi e colonne d’una architettura ordinata: è il luogo da cui giunge il cavaliere. A sinistra, invece, dalla parte del drago, ecco una grotta, la tana della bestia. Il mondo di San Giorgio segue l’ordine lineare della prospettiva; deforme invece l’antro che accoglie i mostri. Ho sempre immaginato che la linea della lancia è direzione di un avanzamento: la disciplina prospettica conquista il mondo selvatico e vi impone il proprio raziocinio. Così il mondo del drago e di tutti i sottomessi s’espone a una procedura di traduzione prospettica che dura da secoli.
Questa conversione dell’irregolare ritorna nella descrizione del manicomio: “È il suono che tornava in testa a ogni ingresso nel Bianchi, fare di un uomo una cosa, farne roba, domarne l’inversa simmetria, reificarlo, per adeguare all’arredo manicomiale l’avanzo sgradevole”. L’oscenità della follia è riammessa “in pubblico se funzionale all’economia di uno Stato, di una regione, di una ditta, di un manicomio”. Si comprende questo generale principio di traduzione del mondo grazie allo studio della ragione cartografica: “Lo sguardo di chi esplora una mappa: il territorio giù, steso sul pavimento, e noi da sopra a vedere. Una vista bellica quella dei cartografi, vicina alle ragioni di chi sorveglia il cielo per possedere l’astro”. Ricorda Esposito di un dialogo con Fabrizia Ramondino: “Bisognava sperare che il verticalismo estremo degli Stati Uniti, quel giganteggiare della loro architettura e dei loro armamenti, e quindi di una presenza oppressiva, totalizzante, nello spazio, fosse ripensato a favore di una orizzontalità dei luoghi e della politica. Bisognava sperare che quell’estetica ‘bianco-centrica’, modulo rovinoso per il mondo desiderato dai libertari, fosse discussa in patria e criticata ovunque”. Forse il compito nostro è disarmare il santo bianco, disarmarci, cospirare con “occhi che sragionano” nella città della prospettiva.
Sarebbe un errore, però, concepire nella lotta tra il santo e il drago un dualismo. Ogni procedura strettamente analitica traccia un confine che è caro alla lancia puntata al petto del mostro. È la “logica di separazione inscritta limpidamente nel progetto: divide et impera”. Nel duale ancora si assume lo sguardo di chi osserva dall’alto. Come evitarlo? Esposito descrive una veduta di una città della Mauritania: a destra appare “la città rigida, la città stanziale” con case di mattoni e cortili; a sinistra invece si vede la città instabile, “la città di stoffa, di pali e teli intrecciati tra loro”, luogo aleatorio. “I due blocchi appaiono desideranti, l’uno dell’altro. […] I due blocchi possono aiutarci a individuare uno schema, che chiamerei ‘meticcio’, sulle conseguenze del dormiveglia. La condizione oscillante che dal sonno porta al risveglio e viceversa”. Il dormiveglia è condizione liminale su una frontiera labile: tra il sonno della ragione e la violenza cieca della veglia. Scriveva Walter Benjamin negli “Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso” nell’opera sui Passages: “Il momento del risveglio sarebbe allora identico all”adesso della conoscibilità’ in cui le cose assumono la loro vera – surrealistica – espressione. Similmente in Proust è importante come tutta la vita sia in gioco nel punto di rottura – dialettico in grado supremo – della vita rappresentato dal risveglio. Proust comincia con un’esposizione dello spazio di chi si sveglia”. (francesco migliaccio)
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