A Corvetto anche nelle settimane passate sono successe tantissime cose nuove, forse perché, come ha detto il presidente Fontana dopo che Marcell Jacobs ha vinto i 100 metri alle Olimpiadi, “la Lombardia fa correre veloce l’Italia”.
Per esempio è successo alla fine di luglio che c’è stata un’operazione di polizia gigantesca, proprio di quelle che – da quando la periferia non esiste più – vedi in qualunque quartiere della città: c’erano droni, elicotteri che volavano bassi e camionette e auto della polizia in tutte le strade e le piazze, e anche poliziotti con il mitra spianato. Entravano in alcuni palazzi e giravano per le vie del quartiere. Così la jeep e la camionetta dell’esercito, che stanno qualche giorno a settimana fisse in piazza Rosa per l’operazione Strade Sicure, si sono spostate, le canne dei loro mitra si sono ritirate, o comunque per una volta nessuno si è accorto della loro presenza perché eravamo tutti impegnati a vedere come le strade stavano diventando sicure. Tra l’altro non si sa bene cosa cercassero, perché i giornali e gli altri media non hanno dato notizie chiare: hanno detto che un ragazzo del campo rom aveva rubato una catenina a due ragazzi di corso Lodi, poi che la polizia, già che era lì, si è pure accorta che in un ristorante lavoravano sei persone senza contratto, poi che era un’operazione straordinaria di pattugliamento. Qualcuno ha perfino detto che non era un’operazione speciale ma solo la scorta del candidato sindaco del centrodestra Bernardo, il pediatra con la pistola in studio e i movimenti fascisti a supporto, che aveva appena visitato Rogoredo affermando che Sala non si interessa alle periferie e che con lui invece nelle periferie ci sarà molto “volontariato” e “presidi ovunque”. Nessuno però ha creduto a queste spiegazioni e tutti ci chiediamo cosa sia successo nel nostro quartiere in quel pomeriggio d’estate, perché anche se sappiamo che il sindaco e la ministra degli interni vogliono che le nostre strade siano sicure, gli elicotteri e i mitra per liberare sei lavapiatti in nero ci sembrano un po’ esagerati.
Poco prima di quel giorno, invece, camminavo per strada e ho letto su un lenzuolo appeso in piazza Rosa che la Brigata Abdelsalam, una delle brigate volontarie nate dopo lo scoppio della pandemia, avrebbe tenuto un’assemblea per parlare del problema della casa, del lavoro e della povertà nel quartiere. Dato il tema e il linguaggio utilizzato, mi è sembrata gente poco aggiornata sulle trasformazioni del quartiere, comunque sono andata ad ascoltare. Oltre alla brigata sono intervenute molte altre associazioni e gruppi attivi nel quartiere e in città e a metà dell’assemblea un ragazzo arabo si è avvicinato al tavolo a dire che voleva intervenire anche lui. Allora gli organizzatori lo hanno iscritto alla lista e gli hanno chiesto di attendere il suo turno. Lui smaniava e alla fine ha preso la parola, e ha preso anche l’ascolto: tutta la piazza si è messa zitta zitta ad ascoltare.
«Buonasera a tutti e grazie per avere accettato che parlo adesso. Voglio dire che qua a Corvetto e tutte queste zone che sono vicine a Corvetto non è manco una città che può vivere un bambino, può vivere, crescere bene, può avere un futuro bello – perché quando esce vede un altro che fa una cosa brutta e anche lui ci viene il pensiero che quando diventa grande anche lui deve farlo. Ci sono anziani fuori di casa, ci sono case chiuse: come mai? È lo stato che lo sta facendo questo. Ci sono case chiuse, chiuse! Col ferro, pure. Perché non le date queste? E poi: se arriva un reddito di cittadinanza arriva cinquecento euro. Lui paga per l’affitto diciamo duecento, cento per le spese, cento per i figli che vogliono uscire qua, qua, qua: vogliono fare queste cose, vogliono essere come gli altri delle altre zone ricche, che non ci pensano neanche a noi che siamo della parte… non bassa, ma sotto-bassa – non zero ma meno-uno, meno-due… bassissima. C’è tanta gente che sta soffrendo che… questa zona rossa, proprio rossa, speriamo che tutti saremo uniti, tutti uniti, che questa cosa non va bene per niente. Facciamo un esempio: ci sono dei ragazzi di qua, che portano i suoi figli in comunità. Perché le dovete portare in comunità? Quelle comunità i figli diventano più aggressivi, più pensieri, “perché mio padre m’ha lasciato?”. Non dice “perché lo stato mi ha tolto da mio padre?”. Dice “perché mio padre mi ha lasciato?”. Vanno a vivere con altre famiglie che non sono manco le loro famiglie…».
Tra il pubblico, in mezzo alle ragazze e i ragazzi della brigata, ci sono diverse bambine di nemmeno dieci anni. Sedute con le gambe incrociate e il mento appoggiato sui pugni, ascoltano ogni parola dell’assemblea, anche l’analisi sul futuro degli scali ferroviari di Milano, ma adesso le parole risuonano diversamente nella piazza in cui vengono tutti i giorni a giocare. Come loro, moltissime persone che stavano nella piazza, nell’area dei giochi per i bambini, e non avevano fino ad allora ascoltato granché, negli ultimi minuti si sono voltate e si sono messe ad ascoltare in silenzio.
«Quelli ricchi manco ci vedono a noi, manco ci pensano. Noi soffriamo di brutto, speriamo che lo stato sente questa parola che tutta questa zona, non solo questa zona, anche altre zone: ci sono anziani che dormono per strada. Vuol dire che Italia non è un paese buono. Italia si deve migliorare, Italia si deve migliorare per tante cose. Lo stato fa apposta ste cose qui perché così i problemi andranno sempre avanti: tutto qua è dello stato, è lo stato che lo sta facendo: sennò non ci sarà l’ospedale pieno, non ci sarà la galera piena, non sarà… sennò loro non lavorano: loro lo fanno apposta ste cose qui. Noi dobbiamo stare uniti: noi siamo tutti uguale. Non c’è differenza tra bianco e nero. Noi siamo tutti uguali. Tutti devono stare in una casa, non deve dormire fuori. Ci sono tantissimi che hanno studiato e non hanno lavorato. Io ho due diplomi di parrucchiere uomo e uno donne, c’ho patente regolare… mai lavorato. Ho cercato tantissimi lavori… non lavoro e sono stato anche preso tante volte da loro: insulti, tante cose, dalla… che conoscete tutti quanti, non dico neanche il nome… Io sono uscito l’altro ieri di galera. Per niente! Lo dico avanti tutti. Però che il governo vede ste cose e ci cambia tante cose e ci dà solo il nostro diritto, che l’abbiamo studiato, ci dà il nostro diritto, come qualunque essere umano. Siamo tutti essere umani. E voglio mandare una… un messaggio alla polizia. Alla polizia, proprio alla polizia: non state sempre addosso a quelli che sapete o che vi danno fastidio perché vogliono il loro diritto. Chi vuole suo diritto, lo deve prendere! Abbiamo diritto di prenderlo! Non abbiamo paura di nessuno!».
Su un lato della piazza, gli agenti in borghese prendono appunti. Sono lo stato presente nella piazza. Lo stato a Corvetto però ci guarda da tante finestre, e ha anche tante e diverse porte: i tre asili comunali, le scuole, le case di riposo (anche se ormai in gestione privata), perfino diverso spazio verde o vuoto per stare fermi e per camminare, come piazza Rosa stessa oppure viale Omero con gli alberi, le panchine sempre piene di persone che parlano al telefono con parenti che stanno ai quattro angoli del globo e i suoi cartelloni con gli spazi pubblicitari in cui nessuno pubblicizza mai nulla e allora il Comune li riempie con i manifesti delle proprie mostre, così siamo aggiornatissimi sugli eventi culturali della città. Poi, più mascherato, lo stato è anche nei finanziamenti spesso dispersi e insufficienti, altre volte inutili e fuori controllo, alle associazioni, alle cooperative e ai consulenti che gestiscono oggi il welfare cittadino.
«Però non vogliamo come l’altro sgombero dell’altro anno: come Afghanistàn, che siamo usciti, andati a scuola e vedere polizia, carabinieri, finanza… tutti addosso a nostri madri, tutti addosso alle nostre famiglie. Andavamo a casa, pensavamo che trovavamo tutte le cose fuori: dove dormiamo? E questa è la parola giusta e dico grazie a tutti perché avete dato a me la parola da parte di tutti che stanno soffrendo di brutto. Speriamo che il governo cambi e non guardi solo il suo stesso, vede anche l’altra gente, vede tutti gli esseri umani e grazie a tutti, molto gentili».
Quando Othman ha finito di parlare l’aria nella piazza era cambiata e non si poteva non pensare che in questo quartiere potrebbero succedere cose incredibili, che Othman e i tanti altri uomini e donne che abitano questa piazza che a volte fa paura attraversare, potrebbero insegnare e imparare tantissime cose se solo dedicassimo a queste assemblee e ai dialoghi che ne potrebbero seguire il tempo che meritano. Per esempio, che so, quel tempo che passiamo a scrivere progetti per bandi insensati in cui si disperdono tanti fondi comunali. Oppure se solo uno dei tanti progetti culturali autosostenibili-innovativi-
Tornando verso casa passo davanti a tre uomini con il borsello che avevano seguito con attenzione, ai bordi della piazza, l’assemblea. Il rumore della loro ricetrasmittente fa eco a quello della radio della jeep militare parcheggiata davanti alla parrocchia, e aspetto che da questo fruscio parta la canzone successiva. Quale sarà? Cosa verrà dopo?
Più tardi mi torna in mente un piccolo libro pubblicato nel 1976 da Il Punto Emme: I bisogni del bambino nel quartiere scritto da Enzo Ferraro, Stefania Orio e Luisa Tarantola. È la ricerca di un gruppo di “tecnici”, una psicologa e due assistenti sociali in formazione, svolta a partire dal loro lavoro in Corvetto tra il 1971 e il 1973 . Nel primo capitolo ricostruiscono la storia del quartiere e scrivono che è “un filtro tra nord e sud. Non è stato possibile renderlo né un dormitorio, né un centro residenziale per borghesi, cioè dargli un’unica funzione […]. In questa zona, su 100 abitanti, 17-20 sono sottoproletari (persone senza lavoro o con lavori irregolari), 10-15 sono professionisti, burocrati, funzionari o dirigenti, e 1 o 2 borghesi o capitalisti (padroni dei mezzi di produzione, di terre o di rendite immobiliari); il resto è proletariato con modi di vita diversi in ciascuna famiglia”.
E tra le tante storie che raccontano, mi torna in mente la parte finale di quella di M., un ragazzo meridionale cresciuto in quartiere, da poco finito in carcere per spaccio. Scrivono: “Dalla povertà ci si difende qui in due modi: con lo scivolare nella malavita o con la lotta di classe. M., immigrato di recente e subito escluso, è scivolato nella malavita, perché non ha avuto dalla scuola, dalle organizzazioni politiche, dai centri di vita culturale della zona, la possibilità di calarsi in questa situazione e di assimilare la tradizione alla quale si riferiscono in gran maggioranza gli abitanti, i proletari nati qui: una tradizione laica, anticapitalista e antifascista, documentata da molti fatti storici”.
Sono passati cinquant’anni e tutto è cambiato dentro e fuori le istituzioni dell’assistenza. I tecnici come quelli che hanno scritto il libro hanno contribuito a costruire istituzioni più democratiche, che sono cresciute, sono da decenni sotto attacco e vivono oggi una crisi di cui non si vede la fine. Una crisi cha ha generato una nuova industria dell’assistenza, con le Ong per l’Africa che “salvano” oggi anche i bambini poveri delle nostre metropoli, e ci offrono qualche occasione di lavoro. Eppure Othman assomiglia molto a M. e le domande su come ci si salva dalla povertà oggi rimangono più o meno le stesse. Che fare allora? Tra un bando innovativo e una jeep dell’esercito, mentre un drone attraversa a tutta velocità quella caramella Polo che è la città, con le elezioni amministrative alle porte, che cosa si può fare? Dove correre? Il posto migliore mi sembra quello dove si prova a organizzare la prossima assemblea di quartiere. (rosa hayat)
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CARTOLINE DA CORVETTO
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