1. La raccapricciante ritorsione dello stato di Israele in risposta al massacro del 7 ottobre ha indotto molti, anche tra i suoi sostenitori, a prendere le distanze dalle modalità – e dagli obiettivi – con cui il governo di Tel Aviv ha ritenuto di esercitare il suo “diritto all’autodifesa”. La sproporzione tra l’offesa ricevuta e la risposta lascia sgomenti, non meno dell’arbitrarietà con cui si continuano a colpire indiscriminatamente soggetti che con Hamas, responsabile della terribile operazione del 7 ottobre, non hanno nulla a che fare. Bambini, operatori umanitari, religiosi, medici, giornalisti, funzionari delle Nazioni Unite, non c’è nessuno o nessuna che sembra potersi salvare dalla furia dell’esercito israeliano, che con protervia ha definito “danni collaterali” la perdita di migliaia di vite umane, come se l’uccisione di civili non fosse messa in conto dai programmi di intelligenza artificiale di cui l’esercito israeliano si avvale. Questa reazione ha suscitato innumerevoli critiche, trovando il suo apice nella denuncia di Israele alla Corte internazionale di giustizia da parte del Sudafrica per genocidio.
Leader di molti paesi – il brasiliano Lula, il malese Anwar Ibrahim, il colombiano Petro, tra gli altri – si sono espressi in maniera severa nei confronti del governo di Tel Aviv creando incidenti diplomatici. La Bolivia ha interrotto le relazioni diplomatiche, Cile e Colombia hanno richiamato i propri ambasciatori, il Venezuela ha condannato gli attacchi nella Striscia di Gaza. Il Nicaragua ha esteso le responsabilità agli alleati di Israele, denunciando la Germania alla stessa Corte internazionale di giustizia e riservandosi di fare la stessa cosa contro Olanda, Canada e Regno Unito per complicità in genocidio. Il Consiglio dei diritti umani, un’agenzia dell’Onu, ha presentato il 26 marzo a Ginevra un rapporto che aveva come titolo Anatomia di un genocidio.
Artisti e artiste, giornalisti e giornaliste, numerosi intellettuali hanno preso parola in questi ultimi mesi per denunciare il massacro; diverse università europee, anche per via della pressione esercitata da movimenti studenteschi e d’opinione in crescita, hanno messo in discussione le collaborazioni su programmi cosiddetti dual use (ossia suscettibili di applicazioni militari e coloniali) che coinvolgano anche università israeliane. In Italia, è ormai noto il caso del Bando Maeci, un accordo di collaborazione stilato da organismi statali italiani e israeliani, che l’Università di Torino ha giudicato ambiguo al punto che il senato accademico ha approvato una mozione che giudica “non opportuna” la partecipazione a esso. Lo stesso organo della Normale di Pisa, dopo aver approvato un documento che chiede il cessate il fuoco a Gaza, ha invitato il ministero degli esteri a riconsiderare il “bando scientifico 2024”, lo strumento di attuazione dell’accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con Israele.
Questo elenco non è esaustivo e si estende di giorno in giorno. Il punto di convergenza dei diversi movimenti e istituzioni è la difesa della vita e dei diritti dei palestinesi. Eppure su tutti, senza eccezioni, è calata l’accusa, a volte strisciante più spesso esplicita, di “antisemitismo”, mossa principalmente da giornalisti, commentatori, politici di professione, provenienti per lo più dal mondo conservatore o di destra, ma non solo. Non è mancato purtroppo il sostegno di una parte consistente di una generazione di sinistra cresciuta nell’idea dell’eccezionalità dello stato d’Israele, che quindi non dovrebbe essere oggetto di critica politica alla stessa stregua degli altri stati. Pur essendo abbastanza chiaro l’obiettivo reale di quanti usano l’epiteto “antisemita” – ossia: chiudere sul nascere ogni forma di discussione screditando l’interlocutore –, ci pare opportuno fare uno sforzo per capire di cosa si parla quando si scomoda l’antisemitismo. Visto che la parola viene usata con leggerezza senza mai essere sostanziata, l’obiettivo di questo intervento è ricordare come e dove nasce l’antisemitismo, come si è storicamente concretizzato e quali attori ne sono stati protagonisti. Ci soffermeremo su cosa la parola descriva oggi e infine, mostreremo che, anche nelle critiche più accese, sia del tutto impossibile trovare tracce di antisemitismo.
2. L’antisemitismo ha radici cristiane risalenti nel tempo, che risultano evidenti sul piano teologico e politico: si direbbe un tratto caratterizzante il cosiddetto Occidente, dall’antichità al medioevo. In epoca moderna l’antisemitismo, mai rifluito, si sposa con il razzismo, che riconnette il comportamento di individui e popoli alla presunta appartenenza razziale. Su questa strada si muove alla metà dell’Ottocento il primo tentativo di sistematizzare il fenomeno: il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, a firma di Joseph Arthur de Gobineau. Il libro esalta la superiorità della razza bianca, bella, intelligente, forte, e contrasta ogni forma di meticciato, che porta alla decadenza delle civiltà. Il passo dal razzismo all’antisemitismo di nuova foggia viene compiuto di lì a poco in tutta Europa, con le opere di Ernest Renan, Edouard Drumont, Robert Knox e infine Chamberlain, che nei Fondamenti del XIX secolo (1899) indica la razza ebraica come il male da combattere, additando l’ebreo come un pericolo per la civiltà. Il dado è tratto: tanto sul piano pseudoscientifico quanto sul piano politico l’ebreo diventa bersaglio da colpire e poi eliminare. Nessuna delle cosiddette grandi nazioni all’inizio del Novecento è immune dall’antisemitismo, che si diffonde con la cultura di destra, il nazionalismo e il fascismo, con la sua declinazione nazista in Germania. Grandi responsabilità nel suo radicamento popolare sono da attribuire anche alla Chiesa cattolica, come la storiografia ha ampiamente comprovato. Non è il caso di omettere che nel mondo del socialismo internazionale tra Otto e Novecento fanno capolino figure anche importanti che nelle loro teorie rivoluzionarie o riformatrici cedono al razzismo e all’antisemitismo (Eugen Dühring, tra essi); detto questo bisogna però sottolineare che mai compaiono elementi di razzismo e antisemitismo nei programmi politici delle organizzazioni di partito e sindacali e neppure testi teorici significativi e di un qualche impatto nel socialismo occidentale. Anzi più spesso socialisti, comunisti, anarchici sono indicati dagli avversari come parte di un complotto ebraico, e poco importa se contemporaneamente l’ebreo viene indicato anche come il capo della plutocrazia capitalistica mondiale: non è certo la coerenza logica uno degli strumenti del razzismo e dell’antisemitismo.
L’Olocausto rappresenta un punto di non ritorno nella storia dell’umanità, e le operazioni successive di riduzionismo e negazionismo, tentate nel secondo Novecento da settori della cultura di destra sempre più ampi ed estremisti, sono state e ancora vengono contrastate dalle forze democratiche e di sinistra. Quelle che oggi vengono accusate di antisemitismo. È infine il caso di menzionare i noti tentativi di Stalin di fomentare, dopo la seconda guerra mondiale, l’antisemitismo, anche con feroci campagne complottiste, ma va ricordato che questo accade in un paese che da molto tempo di socialista manteneva soltanto il nome.
3. Negli ultimi anni si è assistito, in concomitanza con le sempre più numerose e gravi violazioni del diritto internazionale da parte dei governi israeliani, al moltiplicarsi delle accuse di antisemitismo rivolte sia a posizioni e iniziative critiche verso le politiche israeliane, sia ad atti verbali o fisici (dai crimini d’odio su Internet alle vere e proprie aggressioni) che hanno coinvolto persone di origine ebraica. Il punto è assai sensibile, quindi occorre fare chiarezza. Senza sminuire affatto la persistenza di pregiudizi e violenze antisemite, che, anzi, in un’epoca di crisi permanente, trovano nel complottismo e nella vocazione al linciaggio dei social network un brodo di coltura ideale, è stato osservato da diversi studiosi come si sia innescata una spirale perversa. L’aumento degli atti di antisemitismo, in Occidente imputabile in gran parte ad atti criminali dell’estrema destra, ha provocato un allarme che ha indotto, non a intensificare la sorveglianza dei gruppi fascisti e nazisti, bensì a proporre definizioni sempre più estensive di ciò che va considerato come antisemita. Con l’obiettivo di stroncare sul nascere il fenomeno, in tale categoria viene così annoverato un ventaglio molto ampio ed eterogeneo di comportamenti, comprese le critiche e le manifestazioni contro Israele e il sionismo: in breve, il legittimo dissenso. In tal modo la crescita dell’antisemitismo, reale per quanto riguarda l’estrema destra, è sovrastimata nel complesso, il che sembra confermare l’allarme originario e spiana la strada a ulteriori giri di vite.
Se guardiamo all’Occidente nel suo insieme, è impossibile sottovalutare l’importanza che ha avuto, nello stroncare sul nascere qualunque dibattito sui governi israeliani, screditando gli oppositori qualificati come antisemiti, l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 a Stoccolma dall’allora primo ministro socialdemocratico Göran Persson, l’IHRA nasce con l’obiettivo di promuovere la ricerca e la formazione sull’Olocausto. Accertato che “il flagello dell’antisemitismo è ancora una volta in ascesa”, nel 2016 ha elaborato una “definizione operativa” di antisemitismo che, pur non essendo giuridicamente vincolante, ha esercitato un’influenza enorme: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.
Non è tuttavia questa concettualizzazione molto generica ad aver suscitato accese polemiche, bensì gli undici “esempi contemporanei di antisemitismo” illustrati dall’IHRA. Almeno sette si prestano infatti a letture decisamente discrezionali, tra queste per esempio:
- “Negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio sostenendo che l’esistenza dello stato d’Israele è una espressione di razzismo”;
- “Applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico”;
- “Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti”.
In base a questi “esempi” organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch sono state tacciate di antisemitismo per aver denunciato il regime di apartheid imposto da Israele ai palestinesi. Quanto ai doppi standard (e ammesso e non concesso che Israele sia una democrazia), qualsiasi critica alle violazioni del diritto compiute da Israele potrebbe essere giudicata antisemita ogni qualvolta siano riscontrate violazioni più gravi in altri stati. L’anatema contro l’individuazione di similitudini tra alcune politiche israeliane e il piano nazista di discriminazione degli ebrei impedisce ipso facto la denuncia della sistematica violazione dei diritti dei e delle palestinesi all’interno di Israele e in Cisgiordania, nonché della ghettizzazione su base etnica e di ciò che oggi a molti appare – persino alla già ricordata Corte internazionale di giustizia – un pericolo plausibile di genocidio.
La definizione proposta dall’IHRA è stata adottata da quarantacinque paesi nel mondo, tra cui i ventisette membri dell’Unione europea e trentaquattro stati degli Usa (più il Dipartimento di stato), nonché da innumerevoli amministrazioni locali. Molte università, sia in Europa che in America, l’hanno ripresa. Nel Regno Unito (dove, per inciso, grazie a questa definizione Jeremy Corbin è stato scalzato dalla leadership del Labour; si è tentato lo stesso nel 2016 in Usa con Bernie Sanders, ma non ha funzionato) la maggioranza degli istituti di formazione superiore l’ha incorporata. Anche la Conferenza dei rettori delle università italiane ha invitato, in un documento sottoscritto con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e l’ambasciata di Israele, a “favorire l’adozione/l’utilizzo della definizione di antisemitismo della IHRA […] e gli esempi/indicatori proposti inserendoli nei codici etici dei docenti universitari e non” [grassetto nel testo]. L’Università di Pisa l’ha adottata nel 2019, senza consultare il corpo docente.
4. Alla luce di tutto ciò, appare calzante la considerazione di Neve Gordon, ebreo, insegnante di diritto internazionale e diritti umani alla Queen Mary di Londra: la definizione IHRA può essere considerata come “uno strumento contro-insurrezionale sviluppato per proteggere Israele dalla resistenza alla sua forma oppressiva di governo razziale e al suo persistente rifiuto della liberazione palestinese nonché, alla luce della sua recente guerra a Gaza, dalle accuse di violenza genocidiaria”.
L’applicazione della definizione dell’IHRA ha del resto svolto egregiamente il suo compito nelle università europee e statunitensi. Nonostante la maggior parte delle inchieste su presunti comportamenti/dichiarazioni antisemite di studenti, studentesse e docenti si risolva nel nulla (perché le accuse non sono corroborate dai fatti), la nocività di questa strategia rimane inalterata: inquina il dibattito e lascia una coda di discredito e isolamento nei soggetti che esprimono critiche allo stato di Israele. Non vengono risparmiate Ong, attivisti e perfino membri del Congresso e nemmeno le forme squisitamente nonviolente di opposizione a Israele. Per esempio, in Germania, nel 2019, il parlamento ha approvato una mozione che marchia il movimento BDS (Boycott, Divestment, Sanctions) come antisemita, collegandolo alla fase più buia della storia tedesca. La prima forza politica a presentare una mozione in tal senso è stata l’antisemita e ultranazionalista Alternative für Deutschland; la mozione è stata respinta solo perché proveniva da una forza politica “impresentabile” (ma in continua ascesa), non per i contenuti, che sono anzi riproposti nella mozione dei partiti mainstream. Sulla questione, in una importante sentenza del 2020 (Baldassi e al. vs. Francia), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che il BDS rientra pienamente tra le libertà fondamentali di espressione del pensiero.
La definizione dell’IHRA ha tuttavia centrato l’obiettivo reale: è diventata un’arma retorica potentissima nelle mani dello stato di Israele e della destra occidentale. Pare non servire a nient’altro: è ormai difficile salvarsi da questa accusa. Alcuni casi sono emblematici. Masha Gessen, intellettuale ebrea di origine russa, newyorkese di adozione, ha più volte denunciato l’appropriazione da parte dell’estrema destra europea dell’antisemitismo come strumento di rilegittimazione del proprio passato e insieme di stigmatizzazione del dissenso (verso Israele e più in generale verso ogni forma di autoritarismo e razzismo); per questo ha ricevuto minacce di morte di inaudita crudeltà. A dicembre si è vista cancellare il premio per il pensiero politico che la Fondazione Heinrich Böll aveva deciso di conferirle. Il motivo? In un articolo del 9 dicembre 2023 sul New Yorker ha osato utilizzare la parola “ghetto” per descrivere la condizione di Gaza: “Da diciassette anni la Striscia di Gaza è un luogo sovrappopolato, impoverito, fortificato, da cui solo una piccola parte della popolazione ha il diritto di andarsene anche solo per un breve periodo di tempo. In altre parole, è un ghetto. Non come il ghetto ebraico di Venezia o di alcune città degli Stati Uniti, ma come il ghetto ebraico in un paese dell’Europa orientale occupato dalla Germania nazista”.
La sua affermazione rientra dunque nei comportamenti sanciti come inammissibili dall’IHRA, nello specifico i paragoni tra la politica israeliana e il nazismo. Allo stesso modo figurerebbe come antisemita la lettera che diversi intellettuali ebrei, tra i quali Hannah Arendt e Albert Einstein, inviarono al New York Times nel 1948 per denunciare l’ascesa del Partito della libertà di Menachem Begin (il principale partito di destra del parlamento israeliano fino alla sua confluenza nel Likud, nel 1988); “un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti nazista e fascista”.
Se anche ebrei ed ebree, in Israele come nella diaspora, possono essere tacciati di antisemitismo, è evidente che ci troviamo di fronte, citando Furio Jesi, a un’“idea senza parole”, un vessillo agitato per suscitare una reazione emotiva che annienti qualsiasi capacità di riflessione (e autoriflessione); un “simbolo” plasmato dalla destra ma che ha impregnato, proprio come Jesi avvertiva, la cultura maggioritaria – compresa quella di una fetta della cosiddetta sinistra.
5. La crisi permanente in cui siamo immersi da anni ha assunto la forma paradigmatica della guerra. Siamo di fronte a un processo unitario e criminale: la guerra ampia, aperta, guerreggiata, che ci pone di fronte al tempo della fine. Una guerra che va configurandosi come una somma di guerre incontrollate e incontrollabili da parte di classi dirigenti insensate, tanto più pericolose nell’epoca attuale, perché sappiamo che non esistono attori razionali sulla scena. Per limitarci a qualche esempio, élite pericolose in questo senso sono al potere in Russia, in Ucraina, in Turchia, nelle cosiddette democrazie occidentali… e pure nello stato d’Israele: al centro della critica ci sono, non già gli ebrei, ma la politica e la strategia di politica internazionale di uno Stato.
I richiami a un antisemitismo da polemica televisiva sono del tutto strumentali, come abbiamo provato ad argomentare. E per di più rischia di depotenziare quello che da anni denunciamo con preoccupazione: l’antisemitismo sempre più aggressivo (che sempre va di pari passo con l’islamofobia: le discriminazioni viaggiano insieme) di gruppi apertamente fascisti e nazisti, che in alcuni paesi europei si fanno forti dei loro “camerati” al governo. Chiarito ciò, non ci illudiamo che la nostra parte politica ne sia immune e siamo i primi a stigmatizzare scivolamenti in questa direzione che si possano presentare nel nostro ambiente di vita, lavoro, impegno. Ma sollevare il problema dell’antisemitismo nella sinistra che critica le politiche dello stato d’Israele a fronte della crescita impressionante delle forze nazifasciste in Europa, ci pare metta in evidenza la riduzione drammatica degli spazi di dissenso anche nelle “democrazie” nel momento in cui si preparano alla guerra.
Noi non abbiamo letto un solo documento antisemita tra quelli circolati negli ultimi anni nel mondo della sinistra in relazione al conflitto israelo-palestinese. Quanto al controverso slogan “From the river to the sea, Palestine free”, esso ha assunto significati diversi a seconda del contesto storico e di chi lo ha pronunciato. È vero, Hamas lo ha incorporato nei suoi documenti per negare il diritto di Israele a esistere (pur aprendo, nel corso degli anni, a un riconoscimento de facto dello stato israeliano; rimandiamo al libro di Paola Caridi, Hamas. Dalla resistenza al regime, 2023). Ma se ne è altresì appropriato il Likud di Netanyahu, per affermare che tra il fiume e il mare ci sarà solo una sovranità: quella israeliana. È difficile pensare che chi oggi manifesta per il cessate il fuoco a Gaza (per lo più giovanissimi, in molti casi alla loro prima esperienza politica) gridi questo slogan per esortare alla distruzione di Israele; piuttosto chiede la fine della frammentazione dei territori palestinesi, libertà e sovranità per i palestinesi e le palestinesi, nonché pace e sicurezza per tutti, israeliani compresi.
Sul termine antisemitismo evidentemente si gioca una partita rischiosa. Pare attivarsi lo stesso meccanismo che, particolarmente in Italia, riguarda l’uso e l’abuso della parola “terrorismo”, impiegata spesso per squalificare in anticipo qualsiasi forma di opposizione all’ordine dominante. Non ci si rende conto che ampliando il campo d’applicazione della parola si smarrisce la sua capacità di descrivere ed esprimere i fenomeni che le sono correlati? E il loro carattere eccezionale e specifico? Il termine antisemitismo, una volta ridotto a epiteto da scagliare contro gli interlocutori, subisce questo stesso destino.
Anche in una versione debole, la più generica, di “sinistra”, sempre si troverà la critica delle diseguaglianze e delle discriminazioni. E sempre si troverà la contestazione dell’oppressione dei popoli da parte degli stati: questa e solo questa è oggi la critica rivolta allo stato d’Israele dalle forze organizzate, dai movimenti, dai singoli intellettuali. E da molti ebrei della diaspora e non solo. Se nei movimenti filopalestinesi compaiono tracce di antisemitismo, devono essere stigmatizzate senza esitazioni: sostenere che tali casi siano la cifra dei movimenti è falso e in cattiva fede. E la cattiva fede, di solito, difende cattive cause. (monica quirico, gianfranco ragona, roberto salerno)
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