I pranzi più belli nonna me li offrì sull’Intercity Vesuvio per Milano Centrale. Partenza da Napoli Centrale ore 8:00, arrivo ore 15:00. A quei tempi, di alto non c’era la velocità, ma la signorilità, che, diversamente dall’alta velocità di oggi, non era tanto un brand da ripetere all’infinito per dire a chi se ne tiene fuori che sta prendendo una decisione che lo penalizzerà comunque, ma piuttosto una pratica vissuta senza troppe chiacchiere da chi sui treni ci lavorava ogni giorno. E il simbolo dell’alta signorilità di quelle ferrovie per me erano i disegni del caimano o della tartaruga che si vedevano sulle fiancate delle motrici: denotavano la volontà e la capacità di mettere nel piatto qualcosa di giocoso, di garbato, qualcosa che avesse anche l’intelligenza per fare autoironia. Roba distante anni luce dalle motrici dell’alta velocità di oggi, falsamente seriose, desolate rappresentazioni di un gigantismo vorace e fallocratico.
In giacca bianca, leggermente gualcita dall’enorme dignità del suo lavoro, il caposala verso le 11, tra Roma e Firenze, si faceva tutto il treno annunciandosi in modo perentorio e gutturale: «Prenotazione ristorante!». Agli interessati chiedeva se volevano pranzare al turno di mezzogiorno o dell’una e su un block-notes annotava l’orario richiesto col numero di persone. Quando nonna fermava il caposala al suo passaggio davanti al nostro scompartimento, per me iniziava un viaggio nel viaggio. Pranzavamo sempre a mezzogiorno, nonna diceva che la roba buona se ne va per prima. Con buon anticipo arrivavamo alla carrozza ristorante, il caposala ci faceva sedere al tavolo che aveva apparecchiato per noi e iniziavo a sgranocchiare qualcosa. Sulla bella tovaglia di cotone bianco un cestino metallico traboccava di grissini e tarallini, che a quei tempi facevano parte del saper campare, mentre oggi chi te li mette sotto il naso ti avverte che stai facendo l’esperienza esclusiva di un’eccellenza dell’aperifood italiano.
Ogni tanto vedevo uscire allo scoperto la sagoma di un cuoco, col suo cappellone bianco, ma i fornelli dove armeggiava lo risucchiavano velocemente. Ma la scena che più di ogni altra, nella mia memoria, sarebbe diventata preistorica nel volgere di una manciata d’anni, era quando mia nonna, dopo il secondo, chiedeva se si poteva avere del formaggio e allora il caposala arrivava con varie forme su un grosso tagliere: la fontina, il pecorino romano, il gorgonzola, l’asiago e chiedeva cosa volesse assaggiare. Tutto veniva “porzionato” a tavola, da chi stava lì dopo aver imparato come si facesse. Anche perché “porzionare” la pastasciutta da un vassoio mentre si corre a duecento km/h non si può improvvisare. Almeno non secondo i canoni di allora. E la giacca del caposala poteva essere un po’ spiegazzata, ma era sempre bianchissima. Erano altri tempi.
Le Ferrovie dello Stato offrivano servizi abbastanza lussuosi venduti a prezzi quasi popolari e nelle carrozze ristorante di allora, col conto, si rendeva anche la gratitudine di una mezz’ora di accoglienza ospitale, una sensazione completamente estinta nella ristorazione di bordo come si pratica oggi, in cui il personale di servizio in sostanza bada a quanti minuti deve tenere a mollo in acqua bollente i sacchettini contenenti cibo precotto che a ritmo continuo gli altoparlanti cercano di vendere, magari gracchiandone ad alta voce le presunte caratteristiche di specialità regionali. Siamo cambiati per volontà nostra o è la sotto-proletarizzazione dei desideri che ci ha cambiati senza che neanche ce ne accorgessimo? In fondo, se un anno via l’altro si continua a ripetere solo e soltanto che la spesa pubblica dev’essere tenuta sotto controllo e si lascia ogni spazio aperto per convincere e per convincersi che solo la prossima applicazione della tecnologia alle nostre vite, smart e low-cost, ci porterà una nuova cucchiaiata di quel benessere che altrimenti si è smesso anche solo di immaginare che possa estrarsi da canali che non siano economici né tecnologici, allora è chiaro che il trentenne upper-class, che oggi per trentacinque euro si convince di fare una “esperienza gourmet” in un vagone ristorante facendosi riscaldare cibi precotti e messi sotto vuoto una settimana prima, assolve unicamente le aspettative di un piano marketing che, ogni anno che passa, diventa sempre più aggressivo, finché le sue chiacchiere non saranno mandate all’aria perché giudicate una buona volta per quello che sono: una montagna di frottole.
Ma questo non succederà mai, anche perché, come fedele specchio della società, la ristorazione di bordo sui treni si è enormemente differenziata per gruppi di censo. Oggi da un lato c’è il fumo negli occhi delle soluzioni gourmet per chi può tirare fuori un biglietto da cinquanta infischiandosene di quanto resto gli torni in tasca e da un altro il servizio di carrello che, oltre al classico caffè, offre panini che pure, per quello che costano, al primo morso fanno pensare: la prossima volta me lo faccio a casa, così almeno mi mangio qualcosa.
Negli anni Novanta, quando per dare forma al mio desiderio di libertà ho iniziato a farmi portare in lungo e in largo per l’Italia sulle rotaie, per perpetuare l’imprinting di nonna Rita mi sembrò un atto dovuto visitare carrozze che erogassero servizi a pagamento anche per figli di ferroviere e il bisogno di far quadrare i conti dello studente a reddito zero mi fece scoprire la carrozza self-service, già riconoscibilissima dalla pensilina per la livrea grigia, le due strisce rosse e la dicitura molto squadrata che sembrava una libera ripresa del logo della casa madre, ormai votato a un corsivo angoloso dopo la fase eroica della sigla FS con la bombatura che richiamava gli schermi televisivi dell’epoca.
Entrate in servizio nel 1974 per democratizzare l’offerta della ristorazione a bordo, le carrozze self-service offrivano tavola calda e fredda da asportare col vassoio e consumare ai tavolini a spina di pesce che correvano lungo le due fiancate del vagone. A ogni tavolino corrispondeva un seggiolone girevole con schienale basso, che permetteva di modularsi verso i compagni di mangiata se si era in compagnia o, altrettanto bene, a guardar fuori il paesaggio che sfilava alla finestra se si era da soli. Gli arredi erano nelle tonalità dell’aragosta, strizzavano l’occhio a certa pop-art che andava forte ai tempi, ma di sicuro quel luogo metteva voglia di prendersi del tempo per un vino e una porzione di lasagna perché era puro colore e sapeva virtuosamente parlare allo stomaco e non alla testa, come in seguito avrebbero fatto le delittuose decorazioni verbali, in cui l’abuso di parole come feeling e food iniziarono a generare reazioni contrarie rispetto a quelle auspicate dalla sconfinata ignoranza dei loro progettisti.
Ecco, le carrozze self-service coi tavolini a spina di pesce, che negli anni Novanta erano ancora in giro per l’Italia, erano un servizio pubblico pensato con cognizione di causa. Con seimila lire, tre euro di oggi, pranzavi onestamente e, cosa molto apprezzata d’estate, ti facevi mezz’ora d’aria condizionata. Non ricordo una sola volta che l’aria condizionata delle carrozze self-service non funzionasse: sarà stato perché, nel rappresentarsi l’idea di servizio pubblico, a quei tempi ancora non ci si fregiava di bollare come gravosi e inattuali i regolari interventi manutentivi effettuati con personale proprio e nelle tempistiche previste dalla legge. Sarà stato perché ancora non usava dar patenti di esperto d’economia e offrire ricche consulenze a chiunque predicasse il dogma di esternalizzare ogni tipo di servizi alle aziende che mettevano sul tavolo l’offerta più stracciona, che oggi come allora si regge sempre e solo sulla garanzia di impiegare personale a tempo e a condizioni schiavistiche o – per usare il gergo degli esperti – capaci di implementare il tasso di produttività e di competitività.
Che cosa abbiamo fatto di male o, meglio, che cosa di buono abbiamo omesso di fare se oggi, pagando in treno venti euro una porzione di cibo conservato sotto vuoto, ci sentiamo anche di ringraziare e di dire che ci è piaciuto a chi, del personale di servizio, neanche ci ha guardato in faccia, probabilmente perché indaffarato a chiedersi come la sfangherà il mese prossimo, nel testa a testa con un datore di lavoro sempre più evanescente eppure sempre più autoritario, che non gli ha insegnato ad accogliere gli altri con un sorriso, ma a praticare i piccoli tranelli di chi vuol mangiarsi tutto il piatto avendo tre scartine in mano?
Sono troppo pochi, oggi, i galantuomini del refrain di mio nonno capaci di farsi riconoscere, vivono isolati, ritirati, ma forse un giorno, per eccesso di sfibramento, li si dovrà ossequiosamente riammettere a tavolino per rianimare le forze disperse di un dire e di un agire declinati al plurale. (pasquale guadagni)
MEMORIE DI UN FIGLIO DI FERROVIERE
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