Questo giovedì abbiamo pubblicato sul nostro sito una riflessione di Alessandra Ferlito su All’aldilà di qua, film di Alessandra Cianelli e Opher Thomson. Proponiamo a seguire un ulteriore contributo ricevuto, una recensione del documentario a cura dell’antropologa Marina Brancato.
Le geografie della terra sono inseparabili da quelle della mente, e tra landscape e mindscape ci sono legami inevitabilmente estetici e poetici. I luoghi che percorriamo nel quotidiano sono al tempo stesso una scoperta e un’invenzione perché sono già dentro di noi. Possiamo guardare un paesaggio, un luogo come una parte del mondo reale, un luogo dell’identità e della memoria personale o collettiva, uno specchio delle nostre emozioni, uno spazio di immersione sensoriale in storie mai raccontate. Un paesaggio pieno di segni e suoni, di simboli e ferite, di cose nascoste. Un linguaggio celato che si comincia a comprendere mano a mano che il racconto va avanti, che la storia personale intima e famigliare percorre quella ufficiale fatta di inaugurazioni prepotenti e corpi di/spersi in lontane terre d’oltremare. Ed è proprio nell’esotico e doloroso ricordo di un altrove mai vissuto ma solo immaginato che prende vita il film All’aldilà di qua, di Alessandra Cianelli e Opher Thomson. Un film che rappresenta un esperimento di pensiero, un racconto/ricerca visuale che sfugge per bellezza e intensità a ogni tipologia di definizione.
Cianelli è ricercatrice, artista, praticante culturale. La sua ricerca si sviluppa all’intersezione tra pratiche della memoria privata – archivi biografici – e collettiva, attraverso la produzione di opere video, audio, testi, performance, installazioni. All’aldilà di qua è prodotto da Dormire Fondazione ed è stato presentato in concorso al Torino Film Fest lo scorso novembre. Il film rappresenta il capitolo più recente di un percorso di ricerca intitolato “Il Paese delle Terre d’Oltremare” iniziato nel 2008 e dedicato all’eredità post-coloniale. Un itinerario, dunque, che non si può esaurire in un unico percorso. Seguendo sviluppi inattesi, si è avvalso della collaborazione di artisti, ricercatori e filosofi, sfociando in due momenti. Nel 2017, a Berlino, con una performance radio-live presentata a Documenta 14 Radio, e nel 2018, con una video-installazione già parte della mostra “War is Over”, al Museo MAR di Ravenna.
«Intrecciando echi e suoni, oggetti e tracce, dotati del potere favoloso di aprire mondi nascosti, scomparsi o mai esistiti, ci siamo spesso persi nella nostra antichissima, amatissima città, scoprendo pezzi segreti di aldilà nell’aldiqua. Abbiamo percorso migliaia di chilometri su e giù, tra il tempo che fu (forse) e il tempo che (forse) sarà, alle radici del nostro sé coloniale», narra la voce di Alessandra Cianelli che ci accompagna in un viaggio sensoriale a ritroso e contemporaneo al tempo stesso, sulle tracce di nonno Severino, soldato scomparso in Cirenaica nel 1940, di cui restano due lettere, per ricostruire e reinterpretare l’eredità del passato coloniale italiano. Quel ricordo s’intreccia con le sorti della grande struttura della Mostra delle Terre d’Oltremare, il polo fieristico che, a Napoli, porto verso il Mediterraneo coloniale, doveva rievocare il mistero esotico di quei mondi da scoprire, conquistare, addomesticare. Zoo umano del desiderio coloniale, inaugurato a maggio del 1940, chiuse un mese dopo per lo scoppio della seconda guerra mondiale. Oggi è un archivio nascosto che Cianelli e Thompson trasformano in pittografie sonore in cui la melodia di canzonette fasciste e cinegiornali dell’epoca fanno eco ai paesaggi sonori della natura: ci invitano a riflettere non solo sull’uso e l’abuso di quella retorica coloniale su cui ancora si fa fatica a riflettere ma su cosa è diventato e cosa racconta quel complesso monumentale per Napoli. Perché uno spazio è un concetto solo apparentemente oggettivo e astratto, non esiste se non in quanto creazione culturale, di conseguenza non può mai essere neutro: proiettando su se stesso tutti i sistemi di classificazione simbolica che la società ha adottato, si riflette il sistema sociale stesso, che si materializza e si rinforza continuamente. Lo spazio è dunque una sorta d’imprescindibile contenitore dei nostri percorsi mentali, delle nostre relazioni con noi stessi e con l’esterno. La sociologa Tiziana Terranova ha descritto il film come una splendida immersione in quell’archivio mediale e architettonico del rimosso passato coloniale italiano che ancora oggi attraversa la nostra quotidianità metropolitana. Il verde rigoglioso della natura che nasce tra le rovine, la forma di un viso, l’azzurro terso del cielo, il suono dell’acqua: diventano memorabilia, oggetti riverberanti, nostri e altrui, dentro e fuori, trovati e ricreati.
Ma quali potenzialità ha un film di raccontare il passato in modo significativo e accurato? Si chiedeva la storica Natalie Zemon Davies. Una questione su cui All’aldilà di qua si muove, scompaginando le tradizionali modalità visuali a cui siamo abituati. La memoria è una facoltà universale del genere umano ma ogni cultura sviluppa una specifica struttura connettiva tra presente e passato, a partire dalla propria rappresentazione ed esperienza del tempo. In questo senso possiamo dire che la memoria sta a fondamento dell’identità collettiva, in quanto ne assicura la continuità nel corso del tempo, facendo sì che perduri al di là del passare delle generazioni e degli individui, il senso di appartenenza a una collettività che si esprime e si percepisce come un noi.
Il tema del “passato rilevante” è uno dei compiti delle discussioni che attraversano la sfera pubblica. Ma, essendo embrionale e frammentaria la sfera pubblica italiana ed europea, lo è anche la sua memoria pubblica. Ed è un terreno conflittuale. La memoria pubblica è sempre un terreno conteso: da ciò che si decide di includervi o escludervi, dai modi di interpretare il passato che vi acquistano l’egemonia, dipende la legittimazione o meno dei diversi progetti che nel presente competono in ogni collettività. In ogni paese europeo, battaglie per la memoria sono all’ordine del giorno. Si tratta di una memoria che appartiene a una tradizione negativa. Qualcosa che è ricordato perché non succeda più e che ha senso spingersi a ricordare perché sarebbe troppo desiderabile dimenticarlo. È una memoria scomoda, onerosa che necessariamente si associa ad altre memorie: le memorie del colonialismo, appunto e delle sue atrocità. Non è esattamente lo stesso discorso ma è anche di razzismo che si tratta, della riduzione degli altri a subumani, del diritto che ci si arroga di questa categorizzazione, di non comportarci da esseri umani a nostra volta. All’aldilà di qua – il cui suono rievoca il nome di Adi Quala, città dell’Eritrea – è un lavoro importante per chi si occupa di memoria autocritica, di archivi postcoloniali, ricerca artistica. Un archivio è fatto di storie e, per dirla con le parole del sociologo Paolo Jedlowski, le storie servono a moltiplicare la vita, a metterla in relazione con la sua infinità. Sono vascelli per varcare confini. Esse leniscono il sentimento della finitudine perché possono rappresentare ciò che non è più, ciò che è altrove, appunto. Oltremare. (marina brancato)
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