Agosto sta per finire, le sere di Aliano rilasciano nell’aria una vibrazione forse inconsueta. I vicoli del centro antico risuonano di musiche e poesie declamate, cresce il vociare fra banchetti e capannelli e il brusio si diffonde mentre i visitatori si spostano da uno spettacolo all’altro. Nella penombra delle illuminazioni artificiali compaiono alcune targhe con le parole di Carlo Levi, stralci dell’opera dedicata al borgo lucano. Nella piccola piazza Panevino risalta il bianco delle case antiche ristrutturate di recente. Nessun segno di vita quotidiana proviene dalle stanze e dai balconi: sono luoghi disabitati, gli interni sono spogli senza mobili senza servizi. Le pareti coperte di calce seguono le linee e le forme delle strutture originarie e come gusci vuoti accolgono le installazioni temporanee degli artisti invitati. Per quattro giorni Aliano è un ritrovo di scrittori, intellettuali e politici, ospiti del “festival di paesologia” La luna e i calanchi, manifestazione dedicata all’Italia interna, ai centri abitati in via d’abbandono.
Aliano emerge dai calanchi lucani e disegna un arco lungo il crinale eroso dall’acqua e dal tempo. Sull’estremità orientale gravano le case moderne e i palazzi a tre piani del paese nuovo, dall’altra parte, verso sud, si assiepa il borgo antico: le pareti color dei calanchi contrastano con la macchia bianca delle case rifatte. Poco sotto il paese nuovo un uomo anziano tiene alcune pecore, il recinto è costruito davanti a un piccolo rustico in cemento e calce, in fondo si apre una cantina scavata nel tufo. «Qui trascorro le ore di luce, ho cura delle pecore e faccio i miei lavori. Per dormire torno alla casa nuova, ad Alianello». Dal pergolato del pastore si vedono le propaggini del paese vecchio: i mattoni scoperti, spesso cadenti, sembrano una secrezione delle montagne intorno. «Il terremoto portò con sé tanta paura – racconta il pastore – ma nessun muro venne giù. Eppure costruirono il paese nuovo con i fondi del terremoto. Le famiglie hanno abbandonato il borgo antico per andare a vivere nelle palazzine vicino al cimitero». L’uomo accenna un sorriso mentre dispone sul tavolo una forma di pecorino e una bottiglia del suo vino: «Favorite, favorite pure; tutto quello che ho è a vostra disposizione». Dice che la ricostruzione è una buona occasione per raccogliere i soldi dalla regione e dall’Europa: «Negli ultimi anni hanno iniziato a mettere a posto le case vecchie, quelle lasciate libere dopo l’Ottanta. Un pezzo per volta i lavori vanno avanti, l’importante è avviare i progetti. Alcuni edifici sono abitabili, stanno giù vicino alla pizzeria, ma anche quelli per ora restano vuoti».
Durante le prove del laboratorio teatrale – ospitato nell’ampia sala di una vecchia abitazione del centro – un uomo di quarant’anni entra e si guarda intorno. «Qui dove vi trovate era la casa della mia infanzia. Eravamo in affitto, e vivevamo in due piccole stanze. Ora gli spazi sono più vasti perché hanno tirato giù le pareti interne. Fa effetto tornare e vedere questo vuoto. Abbiamo lasciato questo luogo quando avevo sette anni, dopo il terremoto. Ci hanno offerto un appartamento lassù, nella parte nuova, tutto per noi». Ora le abitazioni antiche appartengono quasi tutte al comune, il sindaco vuole realizzare un albergo diffuso per i turisti che hanno letto Cristo s’è fermato a Eboli. Circola anche l’idea di attirare gli artisti, affinché stabiliscano i loro ateliers sopra i calanchi.
I fondi della ristrutturazione non vengono solo dal post-terremoto e dai capitali pubblici. Vicino alla piazzetta Panevino una pinacoteca conserva alcuni dipinti di Levi, sotto l’arco di mattoni rimesso a nuovo un targa ricorda al passante: “Intervento finanziato con le risorse regionali derivanti dalle royalties delle estrazioni petrolifere”. A fianco compare il simbolo del Programma operativo Val d’Agri, l’ente regionale creato per investire i soldi derivanti dai diritti di estrazione del petrolio lucano. Le royalties di Eni e Total finanziano l’edilizia, il mantenimento e la costruzione delle reti stradali e gli eventi culturali come La luna e i calanchi.
Durante i quattro giorni del festival il petrolio non è mai stato nominato, né si è discusso della storia urbanistica di Aliano. Le poesie hanno accompagnato le ore di luce e di buio – quieto sottofondo delle speranze di “cambiamento” e di “rivoluzione” – ma nessuno ha posto il problema di quale sia il rapporto fra la “cultura” e il sistema economico, nessuna riflessione ha avuto il coraggio di soffermarsi sulle origini materiali della manifestazione né ha ricordato che le azioni teatrali, i concerti notturni di pizzica, i “parlamenti comunitari” del pomeriggio sono stati possibili grazie alle trivelle che scavano a valle. Quando le domande sono esiliate e lo spirito critico si perde nella dimenticanza, un festival di letture e dibattiti rischia di trasformarsi in una liturgia rivolta a una platea che ha eletto sé stessa a “parte migliore dell’Italia”; la partecipazione diventa un passatempo per gli abitanti delle grandi città che trovano confortevole trascorrere la fine dell’estate ad Aliano, magari sognando un futuro di piccoli paesi e di abitudini contadine. «Abbiamo bisogno di più poesia!» dicevano gli uomini con il microfono, ma la poesia può anche trasformarsi in consolazione: l’ascolto dei versi è pratica proficua per chi desidera celebrare il proprio status di cittadino colto, civile, edotto alle belle arti.
È la mattina di sabato sotto il sole caldo che si infrange sui calanchi. Nella piazza più grande del paese il direttore artistico del festival, Franco Arminio, il sindaco di Aliano e il sindaco di Matera promuovono la candidatura di Matera a capitale della cultura nel 2019. Fioccano parole istituzionali sul futuro della Basilicata, sul suo sviluppo, sull’importanza della cultura. Non è un dibattito, ma un evento rivolto all’informazione giornalistica: i tre protagonisti si scambiano doni di rappresentanza, espongono targhe, sventolano bandiere davanti agli occhi delle macchine fotografiche. «Anche i simboli sono necessari», dicono. Dal circolo di persone raccolte intorno emerge, inatteso, il sacerdote di Aliano, don Pierino. Con voce aspra attira l’attenzione sulla discarica realizzata due decenni fa a pochi chilometri di Aliano. Avrebbe dovuto essere un sito per “rifiuti non pericolosi”, ma i rilevamenti hanno confermato livelli di contaminazione elevati, soprattutto a causa delle perdite di percolato aggravate dalle piogge invernali. Sembra che negli ultimi anni la discarica abbia accolto anche i residui delle estrazioni petrolifere. «Don Pierino, non è il momento adatto, non stiamo parlando di questo. Don Pierino ne parliamo stasera, durante il concerto lanceremo la raccolta firme», le istituzioni tentano di ridurre l’attrito della critica e di riportare la discussione su Matera 2019. Qualcuno getta acqua sul fuoco, legge una poesia di Arminio, si diffondono applausi generali. (Ma c’è chi manifesta la sua solidarietà al sacerdote, «Don Pierino, insisti!»).
Durante i giorni del festival la luna è calante, una sparizione nel cielo stellato: “luna” è solo una parola, un effetto poetico. L’astro del festival è un fenomeno di superficie senza un interno pieno, come le pareti esterne del paese vecchio ceduto allo spettacolo del turismo colto. Ma la patina secreta dai sortilegi di poesia può essere rimossa ed è ancora possibile prendere coscienza delle contraddizioni dell’edilizia, dei capitali petroliferi, dell’impatto ambientale delle discariche. Uno sforzo di attenzione lascia intravedere la difficile vita di un paese che, come molti, si sta spegnendo per mancanza di lavoro. «Vorrei che mia figlia rimanesse, non voglio se ne vada fuori», dice una madre di fronte alla chiesa. «Il festival è importante perché porta soldi ad Aliano, crea movimento e rompe la solitudine dell’inverno che ci aspetta», si dice in giro fra le vie del paese nuovo. (francesco migliaccio)
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