Da La Repubblica Napoli del 13 luglio
Alcuni anni fa un centro sociale di Montesanto organizzò uno scambio culturale con la Germania: un viaggio a Berlino per dieci ragazzi del quartiere, ospiti per qualche giorno di un altro centro sociale, e poi il ricambio della visita da parte dei coetanei tedeschi. Gli adolescenti napoletani affrontarono l’esperienza con emozione e curiosità, ma anche con la coscienza di vivere un’esperienza singolare, difficilmente ripetibile. Solo per uno di loro quel viaggio rappresentò qualcosa di più che una breve parentesi. Lino aveva sedici anni e doveva covare già allora l’idea della fuga. In Germania, grazie al suo carattere istrionico, strinse diverse amicizie e soppesò le possibilità che poteva offrirgli quel posto. Poi tornò a Napoli insieme agli altri, ma nel giro di un mese era già ripartito. Lavorava in un ristorante a Berlino, raccontavano gli amici, e si era anche fidanzato.
Qualche tempo dopo lo incontrai in piazza del Gesù. Era tornato dalla Germania – qualcuno diceva che non poteva più ritornarci – ma diceva di voler ripartire al più presto per non doversi affiliare a un clan del suo quartiere. Intanto lavorava in un negozio di certi parenti, ma non aveva voglia di fare né l’una né l’altra cosa. Tutto quel che raccontava era enunciato in un tono tra il grave e lo scherzoso, che rendeva impossibile distinguere le sue reali intenzioni.
Poi un pomeriggio di primavera lo ritrovai a Barcellona, in piazza Catalogna, con le mani in tasca davanti al bar Zurich, il posto in cui ogni giorno si danno appuntamento centinaia di persone in quella città. Nel via vai della folla ricomparve con il suo sorriso enigmatico. Non aspettava nessuno, mentre io avevo appuntamento con degli amici e alla fine andammo tutti insieme a mangiare in trattoria. Il giorno dopo lo accompagnai in un ristorante gestito da napoletani nei pressi del porto. Il titolare accettò il suo curriculum e qualche giorno dopo lo chiamò a lavorare. Un paio di mesi dopo era di nuovo a Napoli.
Qualche tempo dopo mi inviò un messaggio: “Sono a Madrid, conosci qualcuno dove andare?”. Lo chiamai: era andato a trovare un’amica, ma dopo tre giorni era già per strada. Scrissi a un amico prete che gestiva una rete di accoglienza per giovani in difficoltà. Il prete gli lasciò il divano in casa sua e poi gli trovò posto in un altro appartamento. Lo richiamai qualche settimana dopo. Lino era inquieto. Non si sentiva a suo agio nella nuova casa e non aveva ancora trovato un lavoro.
Naturalmente non c’è una morale alla fine di questa storia. E non c’è nemmeno una fine. La storia di Lino e delle sue false partenze continua ancora oggi, senza che nessuno di quelli che di volta in volta incontra sul suo cammino, riesca in qualche modo a placare la sua irrequietezza, il suo sentirsi fuori posto ovunque. Ogni storia è diversa dalle altre. Ma se proviamo a ragionare sugli strumenti che negli ultimi anni le agenzie educative – dalla scuola al terzo settore, fino alle esperienze più indipendenti di intervento sociale – hanno fornito ai ragazzi come Lino per attenuarne il disagio, l’insofferenza, i ritardi, ci ritroviamo di fronte un campionario di misure frammentarie, parziali, sempre un passo indietro rispetto alle esigenze che questi giovani rendono esplicite e che più spesso si tengono dentro.
I nuovi progetti ministeriali, programmati ai tempi del governo Monti in quattro regioni meridionali e partiti pochi mesi fa, sono imperniati sulla “lotta alla dispersione scolastica”. Ma la dispersione in certi contesti è un concetto molto più ampio di quel che dichiarano i numeri, già di per sé preoccupanti. E comprende i tanti che ancora frequentano la scuola ma che in seconda o in terza media hanno capacità di leggere, scrivere e far di conto inferiori al livello medio che si raggiunge di solito in terza elementare. Questi, forse, con i nuovi progetti prenderanno il diploma di scuola dell’obbligo. O non lo prenderanno. Fa poca differenza. Resteranno pressoché analfabeti e questo li segnerà per il resto della vita.
Sono questioni non nuove, che una quindicina d’anni fa vennero poste all’ordine del giorno proprio dai maestri di strada napoletani, e affrontate dai governi nazionali con misure specifiche e risorse ingenti, che di riflesso mobilitarono anche le energie di chi, dentro la scuola, non gradiva quella messa in discussione così profonda del ruolo e dei metodi dell’istituzione. Quella stagione si è conclusa, con bilanci che hanno investito forse solo gli addetti ai lavori e non l’intera opinione pubblica. I nuovi progetti, se da un lato affermano l’inadeguatezza della scuola, dall’altro restituiscono proprio alla scuola il timone dell’intero processo, moltiplicano gli intermediari adulti – quelle figure sempre più vanamente nominate “tutor”, “esperti”, “supervisori”, ecc. –, gonfiano la burocrazia, rendono impalpabili le verifiche, assegnano condizioni di lavoro sempre peggiori agli educatori non provenienti dalla scuola, che sono poi quelli a contatto diretto con i ragazzi; e relegano questi ultimi, destinatari finali del progetto, dal centro dell’attenzione a elemento quasi di contorno, scomoda ma necessaria appendice. La vera, triste novità del lavoro sociale negli ultimi anni è proprio questa: la progressiva convergenza – nella precarietà, nella perdita di senso del lavoro, nell’impossibilità di avere voce in capitolo – tra giovani in difficoltà ed educatori precari, coloro che in teoria dovrebbero raddrizzarne le storte esistenze. Solo una presa di parola degli uni e degli altri, a questo punto, potrà invertire la tendenza e prefigurare soluzioni nuove. (luca rossomando)
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