Torno in città il 25 aprile. Il due piani dell’Air impiega circa trenta minuti per raggiungere la prima fermata disponibile in città dallo svincolo autostradale. Il tempo di scendere e constatare il funzionamento bugiardamente regolativo del semaforo più infelice della storia dell’urbanistica. Mi aspetta la linea 2 e il suo treno jazz, fiore all’occhiello delle novità apportate da De Luca al piano trasporti.
Per lasciarmi tutto alle spalle, decido di chiudermi in un cinema. Non uno di quelli presi d’assalto nel dì di festa. Sfruttando i benefici di una programmazione diversificata – a causa dell’estrema vicinanza tra i tre cinema nella Napoli degli aperitivi e dei baretti – opto per quello che penso sia il film con meno pubblico.
In sala siamo in due – più una ritardataria, tre. Acqua di marzo, per la regia di Ciro De Caro, è in programmazione al Cinema Teatro delle Palme. Dopo Spaghetti Story, il regista battipagliese firma questa pellicola in distribuzione limitata. Il protagonista Libero –Roberto Caccioppoli alla sua prima come attore principale – si trova sempre in balia degli eventi che lo trascinano da Roma a Battipaglia (i piani spazio-temporali in gioco) richiamato dalla famiglia perché la nonna novantanovenne è in fin di vita.
L’intreccio gioca con i sempre tesi rapporti familiari; la crisi di coppia con Francesca, la sua ragazza che prova a fare l’attrice; l’adolescenza e il liceo che riemergono grazie a Neve, la sua compagna di banco che non nasconde il suo interesse sebbene separata e con bimba a carico; la religione come stella polare di una vita sociale paesana avvertita come una gabbia.
Libero è un musicista; un escamotage per portare sullo schermo l’annosa questione se le band possano fare della loro passione una professione di cui vivere. Ecco, questa è l’unica cosa per la quale Libero fa una scelta: lascia la musica, perché fa solo intossicare. A ogni modo, le musiche del film restano davvero discutibili e poco lontane da un risultato che non sia il semplice sfondo acustico. Il montaggio, nella discutibile anch’essa eppure coerente scelta di tagliare lo scorrere di una stessa sequenza a camera fissa, prova a dare ritmo alla narrazione. Altre volte, più serrato ancora, viene impiegato per spezzare i diversi segmenti narrativi sfruttando riprese che manifestano un cambio di definizione dell’immagine. Dovrebbe risultare sconnesso e frammentario. Risulta pedante e didascalico.
La drammaturgia prevede una commistione tra un poco riuscito dramma e una meglio riuscita commedia. Ci si affeziona ugualmente ai personaggi per via di una mediocrità in grado di avvicinare quel pochissimo pubblico presente: ogni personaggio resta intrappolato nei limiti di una azione confinata dal “potrei ma non voglio”.
Il film si chiude così come era iniziato, con Neve ripresa di spalle, sdraiata sul letto dopo aver fatto l’amore con lo “sconosciuto” Libero. La fortunata ripresa di una mosca che si appoggia sul suo corpo viene scelta dal regista come cornice per il suo lungometraggio. Fuori, cade impetuosa l’acqua di marzo, che dovrebbe suggerire l’idea di rinascita. (antonio mastrogiacomo)
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