Da Repubblica Napoli del 23 marzo
Una domenica mattina dello scorso febbraio. Partita del campionato di calcio di terza categoria allo stadio comunale Hugo Pratt di Scampia. Sulle gradinate, più di duecento spettatori. Alcuni, muniti di petardi e fumogeni, li accendono per festeggiare il gemellaggio tra le due squadre. Il gestore del campo, forse messo in agitazione dall’inusuale affollamento, allerta gli agenti del commissariato locale. Questi, oltre al divieto di sparare petardi, segnalano la parziale inagibilità dello stadio. Qualche giorno dopo la municipalità stabilisce che per il resto dell’anno tutte le partite – anche quelle degli altri campionati minori – si disputeranno a porte chiuse. Seguono proteste delle società colpite dal provvedimento e incontri in commissione sport del comune, fino all’assicurazione che il divieto sarà revocato e il campo riaprirà le porte al pubblico.
Negli stessi giorni un centinaio di persone, mobilitate da una piccola società di calcio dell’area flegrea, occupano simbolicamente un campetto nella zona di Cavalleggeri d’Aosta, un luogo a suo modo storico, che ha ospitato in passato gli incontri della Bagnolese e di altre squadre nate intorno alla fabbrica. Corre voce che il campo, inutilizzato da tempo e di proprietà statale (Fintecna), sia sul punto di essere messo in vendita. Gli occupanti ne reclamano un’acquisizione da parte del comune e un utilizzo a fini sociali, per scuole calcio e campionati minori. L’amministrazione prende tempo e non si impegna, ma l’obiettivo di riaprire il campo rimane all’ordine del giorno per i giovani della zona.
Le due vicende raccontano non solo la fame di spazi per attività ludiche e sportive, ma anche il protagonismo recente, in qualche modo inedito, nato intorno ad alcune squadre di calcio iscritte ai campionati dilettanti. Un movimento che si autodefinisce “calcio popolare”, rivendicando non solo la passione per la pratica sportiva, ma anche i suoi valori educativi e politici. Una diversità richiamata da slogan che evocano il “calcio di un tempo” o “un altro calcio possibile”, in contrapposizione alle derive affaristiche del calcio professionistico. In questo senso, la similitudine con gli anatemi lanciati dagli ultras contro il “calcio moderno”, viene declinata in una versione più costruttiva e aperta verso l’esterno.
Un libro appena uscito, “A tutto campo. Il calcio da una prospettiva sociologica”, di Luca Bifulco e Francesco Pirone (Guida edizioni), fornisce un panorama aggiornato dei cambiamenti che hanno ridefinito il volto del calcio negli ultimi vent’anni, illuminando così anche le spinte contrarie a tale evoluzione, provenienti dai settori più irriducibili del tifo organizzato o dalla base dei praticanti più consapevoli. I due autori, ricercatori in Sociologia della Federico II, attraverso un uso accurato dei dati e della letteratura esistente, descrivono con chiarezza le caratteristiche dell’attuale sistema calcistico, riscattando la superficialità con cui vengono spesso trattate dagli addetti ai lavori, per diventare rapidamente chiacchiere da bar fondate su luoghi comuni parziali o del tutto errati. Fusco e Pirone illustrano gli aspetti simbolici, rituali e identitari del gioco; il modo in cui chi possiede i mezzi per produrre tali simboli fonda poi anche la propria autorità in altri campi; la peculiare biografia del calciatore professionista, in cui il corpo, custode di saperi “sensibili”, rischia di essere soppiantato dal potere dell’immagine; ma soprattutto mettono in risalto le questioni che riguardano la politica, il denaro e in generale la gestione del potere nel calcio di oggi: la possibilità di fissare le regole o di derogarle, la legittimazione a governare le competizioni e distribuire le risorse tra i partecipanti, la capacità di imporre la propria volontà sulla base della forza economica messa in campo. È qui che risiede il nucleo di ogni cambiamento, e in questo il gioco del calcio, storicamente sensibile alle variazioni del contesto economico e sociale, non si sottrae.
In un mercato globale deregolamentato, in cui le identità nazionali scolorano, gli squilibri aumentano, i campionati maggiori diventano un prodotto televisivo sempre più sofisticato, mentre le leghe e i calciatori minori faticano a restare a galla, forse la cosa migliore da fare – sostiene Vittorio Dini nella postfazione al volume – piuttosto che la condanna moralistica o la contrapposizione tra professionismo e dilettantismo, è affidarsi ancora una volta alla bellezza del gioco. Perché l’industria del calcio, nonostante il suo volume d’affari in vertiginosa crescita, difficilmente potrebbe svilupparsi in assenza di una consolidata pratica di massa. E perché, nonostante la prevalenza dello “spettacolo”, sono ancora valide le ragioni che motivano la popolarità dello sport, il suo essere espressione di un’esigenza egualitaria e democratica. (luca rossomando)
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