Arriverà a Napoli il prossimo fine settimana Scapezzo, lo spettacolo di Nicola Vicidomini in scena al teatro Zona Vomero venerdì 29 e sabato 30 aprile. Proponiamo a seguire la versione integrale di una intervista pubblicata da Il corriere del Mezzogiorno il 24 aprile 2016.
“Il più grande comico morente”. Questo si dice di Nicola Vicidomini, artista napoletano (in verità è nato a Tramonti, sulla Costiera amalfitana) che porterà il suo Scapezzo il 29 e 30 aprile al Teatro Zona Vomero. Scapezzo è lo spettacolo di Vicidomini, ma è anche il suo alter ego, la definizione del suo umorismo. La capacità di saltare da un registro all’altro, di interagire con l’assurdo e il grottesco, di raccontare la decadenza senza chiamarsene fuori, anzi facendosene parte integrante e colpevole. Se è “morente”, Vicidomini, è perché in giro ci sono pochi comici capaci di raccontare il fallimento come riesce lui, in un linguaggio eccessivo e preciso, verbale e “di corpo”, aggirandosi per il palco inquietante e bestiale, con tre buste di plastica e due infradito, petto, pancia e peli scoperti, capelli lunghissimi scompigliati. Un vero “zincaro”, tanto per citare il nome della sua più nota maschera che ha rotto persino il muro televisivo, fino a diventare presenza costante in programmi come Stracult, Colorado Cafè, e Che Fuori Tempo Che Fa, in quest’ultimo caso grazie anche al sodalizio con Nino Frassica. Una presenza inedita e irruenta nel rassicurante scenario della tivvù comica nazionale, a cui Vicidomini scompiglia le carte sfruttando – come da poetica del personaggio – l’occasione e la necessità di trovarsi perennemente “fuori posto”.
Tutto questo, lo “zincaro” riesce a farlo benissimo, attraverso il suo linguaggio, i suoi excursus in un dialetto ibrido e originale, i blitz sul piccolo schermo, la scrittura di corrispondenze paradossali come quelle del novantacinquenne Flavietto Gioia, i devastanti componimenti musicali. Meglio ancora riesce a farlo in questo spettacolo (per la regia di M Deborah Farina, e con la presenza di Sarò Zero e Italo Vegliante), che torna a mostrare qualcosa di nuovo in un panorama comico assolutamente livellato.
Vicidomini, lei è un comico di successo. Ma prendere un appuntamento con lei è troppo facile. Non avrebbe bisogno di un segretario? Un portaborse, un lacchè, un tirapiedi? Così, giusto per darsi un tono.
Avevo un commercialista tuttofare. Era un bastardo, inteso come meticcio. Un cane: incrocio tra un bracco tedesco e un agricoltore diretto. Faceva tutto ciò che serve: bavava, leccava i piedi. Poi montò la testa: aveva troppa ambizione e un carattere autoritario. Da suo capo e padrone, senza manco accorgermene, diventai il suo cane. Nell’aristocrazia romana ero conosciuto come “il cane del cane”. I nostri rapporti finirono quando a un ricevimento presso l’ambasciata americana, impruvvisamente ho cacato in miezzo al salone.
Veniamo allo spettacolo. Lei ha un look sciatto e trascurato. Un sacco di peli. Il suo odore è fastidioso. Parliamoci chiaro: non le si può stare vicino in un teatro.
Credo che di fronte allo sterminio democratico e buonistico promulgato dai media (e all’omologazione del linguaggio) sia necessario tornare a fetare. L’impegno preso col mio pubblico è principalmente quello di non lavarmi mai. Non lo faccio dal settembre del ‘43. Ero a Salierno e c’era un casino.
Lei ha dedicato una poesia ad Angela Merkel, il suo sogno erotico. È quindi in disaccordo con il più grande viveur dei nostri tempi, nonché suo datore di lavoro su Italia1?
Conosco Silvio dal ‘55, da quando eravamo due Teddy Boy. Il nostro bersaglio preferito era Cipriani Stelvio. Io organizzavo corse d’auto, risse anni ‘70 (ero molto avanti) e lotte tra femminielli. Alle femmine lui cantava Trenet. Io avevo più successo perché le picchiavo immediatamente e senza mutivo (a loro piace così). Quindi Silvio non può parlare. In Rocco e i suoi Fratelli, Visconti si ispirò a me per il ruolo di Simone, mica a lui. Ora ha capito perché mi ha imposto a Colorado? Mi fa chiamare per tenermi sotto. Una rivalsa.
Lei vive tra Roma e Milano. Perché non si stabilisce tra Foggia e Forlì?
Pronuncio male le “j”, le “gn” e sopratutto le “f”. Rischierei di perdermi. Però le capisco. Al contrario, ci sono lettere che pronuncio bene ma non capisco, come la “oiuk” e la “fosbury”. In ogni caso io vivo tra Roma e Roma. A Milano vado solo quando mi chiamano a fare la televisione e mi danno un minutaggio da zincaro. Preciso che quando soggiorno a Milano, soggiorno sempre tra Milano e Milano. Approfondendo la sua domanda, tra Foggia e Forlì preferisco Bisceglie.
Su di lei hanno scritto recentemente critici e persino ricercatori universitari. Che rapporto ha con l’accademia?
Uottimo. Tra questi, il saggio su Scapezzo del prof. Fabrizio Natalini (Università di Tor Vergata) è la cosa migliore. Comunque poco importa. In quanto uomo vado contro me stesso. La più grossa strunzata che ha fatto l’uomo è quando ha iniziato a mettersi al centro del criato (manco fosse Bobby Solo): lo “scapezzo” è inevitabile, l’umorismo nasce dal corto circuito tra quel caos che è la natura e il senso che l’uomo gli ha impresso arbitrariamente. Il mio suogno nel cassietto è murire di una malattia viecchia e impurtante, come il vaiolo o la sifilide. Ma credo che come tutte le belle cose, non accadrà mai. Per dirla con Herzog e Kinski: “Sono Aguirre, furore di Dio”. E non creperò neppure dopo muorto. (riccardo rosa)
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