Blu, si chiama, come la notte. È l’ultimo lavoro di Franco Ricciardi, un disco che nelle musiche più che nei testi è un vero concept album, il cui flusso sonoro dà l’idea di un viaggio notturno, in auto, per locali e discoteche, con un ritmo che sale e scende, scelte piacevolmente spiazzanti, fusioni tra generi e stili a cui il ragazzo di via Marche ormai cinquantenne ci ha abituati in realtà da diversi anni.
Dal flusso ci si lascia trasportare con facilità, in un sistema che nella prima parte dell’album procede a coppie di canzoni: si comincia con l’ambient e l’elettronica, nei primi due brani, il singolo N’ata notte e Si ce staje; gradualmente la serata si vivacizza, con il passare delle ore-minuti-secondi, e altrettanto in crescendo si tracima nel rock di Chiammale e nell’electro-tammurriata Femmena bugiarda. Poi ancora sintetizzatori ed elettronica, questa volta più ritmata (si è fatta ora di ballare), e a seguire due pezzi rock-melodici come Ammore senza core e Uocchie ‘e na femmena, che sembrano indicare l’avvicinarsi dell’alba. Solo che a questo punto, come accade in quelle serate che riservano sorprese quando tutto sembra stia per finire, il disco ha un sussulto finale, infilando uno dopo l’altro i pezzi migliori: Jesce, Sta chiuvenno ancora e Capisce a me, una triade che miscela l’ultimo e definitivo cocktail di dance, soul, disco e pop.
Blu arriva tre anni dopo Figli e figliastri, il disco più completo di Ricciardi, in cui il cantautore napoletano aveva messo in mostra, assieme a un gruppo consolidato di musicisti, i frutti migliori delle rispettive evoluzioni musicali e personali. Ma quello, in un certo senso, era un disco più “facile”. Prima perché poteva contare su una serie di collaborazioni importanti (Rocco Hunt, Lucariello, Clementino), e poi perché, nei suoi passaggi chiave, proponeva alcune riletture, rinnovate e molto efficaci, dei successi più importanti della carriera di Ricciardi.
Blu invece è un album di inediti, tutto in dialetto, arrivato con il trentesimo anniversario degli esordi discografici, quando il suo autore si sarebbe potuto anche concedere qualche autocelebrazione. Invece è un disco che non ha paura di osare, di mescolare tendenze e suoni con quello che potrebbe essere definito ormai il “metodo Ricciardi”: ripartire ogni volta dalla maturità conquistata dal sound del lavoro precedente, inserendo uno o due elementi nuovi. Le novità di questo album sono, per esempio, le sonorità orientali combinate con l’elettronica, qualcosa di simile ad alcune sperimentazioni etno-elettroniche di collettivi come il Tabla Beat Science, un gruppo di musicisti e produttori statunitensi, per la maggior parte immigrati di seconda o terza generazione, che lavorano sulla fusione di percussioni, musica tradizionale indiana, ambient, dub ed elettronica.
È un album, Blu, in cui la musica la fa da padrone, andando a colmare anche le lacune di qualche testo meno riuscito, come nel caso dei due brani celebrativi della città. Lacune trascurabili, tuttavia, davanti ad altri testi molto ben costruiti sulla voce di Ricciardi come Sta chiuvenno ancora, e altri poetici come Uocchie ‘e na femmena. È il secondo o terzo album di fila sfornato da Ricciardi, insomma, che ascoltato nella giusta atmosfera e – se ce ne fosse ancora bisogno – dopo essersi liberati di stupidi e inutili pregiudizi, richiama alla mente echi molto ben mescolati di Depeche Mode e Nuova Compagnia di Canto Popolare, Eurythmics e Sugarhill Gang, Massive Attack e tradizione classica partenopea. Un mix che trova la sua compiutezza inJesce, traccia numero dieci che merita un’ulteriore e speciale menzione: una canzone costruita e suonata come l’avrebbero fatta Prince o Africa Bambaataa, se fossero nati anche loro a via Marche. (riccardo rosa)
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