Sulla sinistra, la sagoma del Sacro Cuore di Montmartre è appena riconoscibile nella nebbia. Dall’altro lato, in cima alla Tour Super Chapelle, la pubblicità di una celebre marca recita: Life’s Good. Appena sotto il cartello, su un tabellone coi led rossi, è scritto : DÉFI – in francese, “sfida”. Col palazzo di fronte, la Tour Sablière, sono due grandi gemelli di ventisette piani: ultime sentinelle della città, prima che l’incrocio di Porte de la Chapelle si esaurisca in un dedalo di passanti ferroviari e autostradali, lasciando poi il posto ai primi scampoli di Saint-Denis. Dritto davanti c’è il Centro d’accoglienza “umanitario” voluto dal sindaco di Parigi Anne Hidalgo, inaugurato nei giorni successivi allo sgombero della tendopoli di migranti a Stalingrad.
È una grande bolla di plastica, o meglio, tre bolle di plastica fuse in una, al pari di un cono gelato con la palla centrale a mo’ di vetta. S’innalza per diversi metri, con degli oblò al piano terra a fendere la plastica spessa della struttura a cupola. Il suo aspetto pulito è in netto contrasto con l’ambiente circostante, il che rinforza l’impressione di un oggetto misterioso, atterrato di recente.
Il centro non è al livello della strada, ma leggermente al di sotto, sul lato verso la banlieue. La Tripla Bolla ne è solo la parte frontale: dietro s’intravede una specie di grande capannone, dove alloggiano i migranti che hanno potuto trovare riparo dal freddo. La Bolla funge da primissima accoglienza ma con posti limitati. È aperta dal mattino presto fino alle otto di sera. Fino a quell’ora, vi si può entrare e uscire con relativa libertà – esclusi i giornalisti, per i quali è necessario un permesso della prefettura estremamente difficile da ottenere. Per avere un posto al caldo per la notte, vera e propria lotteria, bisogna invece mettersi in coda al mattino presto e, qualora arrida la fortuna, farsi rilasciare un tagliando che certifica la vincita.
Qua e là, sotto al passante ferroviario o all’uscita dell’autostrada, gruppetti di migranti aspettano al gelo. Qualcuno attende la coda del mattino, quando sarà possibile allinearsi nella speranza che uno dei pochi posti disponibili gli venga assegnato; altri stanno là semplicemente perché è ormai l’unico posto dove si può stare, dove c’è gente che porta coperte, giacche, tè caldo e cibo. Dopo lo sgombero di Calais e Stalingrad, sono aumentati i rischi, sia per via della polizia, che per il freddo. Alcune stazioni – quelle più defilate, tipo Gare de l’Est, o quelle abitate dai barboni, come Nation – sono ancora vivibili, ma meglio il gelo che la solitudine e la fame.
Davanti al centro gruppetti di migranti passano il tempo nell’attesa. Sono soprattutto afgani e sudanesi, anche se non mancano magrebini e somali. Chiacchiero con Jazid, richiedente asilo algerino, della deludente prestazione di Ryad Mahrez nella Coppa d’Africa. Dice che per più di un mese ha dormito sotto al passante ferroviario. L’occhio ha perso la vista, nel frattempo, e gli occhiali non funzionano più come prima (infatti non ha colto la battuta sul cartello “défi”: non lo vede). Una signora ha avuto pietà di lui e lo sta ospitando per qualche tempo. Giovedì andrà in questura, dove gli rilasceranno il foglio che dice che sì, Jezid è proprio un richiedente asilo. A Jezid non importa che sia participio presente, basta che faccia caldo.
Poi Jezid si volta e, lesto come un professionista, accorre a dare una mano a tre ragazze con la pettorina “Utopia 51”, una delle Ong che lavorano dentro alla Tripla Bolla. Sono stracariche di cartoni e, mentre mi associo a Jezid, mi accorgo che dentro alle scatole c’è del cibo: mele, thermos con tè caldo e uova sode. Afferro le uova prima che la volontaria le distrugga, inciampando nel fango gelato tra il centro e il marciapiede. Immediatamente, una trentina di persone s’ammassa intorno a noi. Appena il tempo di posare le scatole che la massa si scuote, si spinge e si calpesta, bestemmiando e imprecando, per afferrare un uovo o un pezzo di una specie di torta friabile avvolta nel cellofan. Scorgo Jezid mentre, sballottato qua e là, riesce con la punta dei guanti ad afferrare l’ultimo uovo. Niente mela però: sono finite.
Mi allontano lungo il marciapiede in direzione Saint-Denis, con le torri alle mie spalle. L’ultima volta che ero stato qui, un centinaio di migranti s’erano accampati sotto una specie di mercato coperto, all’inizio del boulevard, quando l’autostrada s’interra e la periferia prende il sopravvento. Quando arrivo, non c’è più nessuno. Sono stati evacuati a inizio gennaio, dice una ragazza mentre scende dal motorino. Poco distante, nel parcheggio davanti al mercato, un gruppo di donne sta dando da mangiare ad alcuni migranti. Mi avvicino e mi offrono uno squisito piatto di lenticchie alla marocchina – piccanti e con il pollo – che tirano fuori da un grande contenitore nel bagagliaio della macchina. Sono quattro, tre donne e un uomo, tutti di origine araba a parte la più anziana. Una porta il velo, è quella che ha cucinato le meravigliose lenticchie di cui mi dettaglia la ricetta. Faty, invece, è la più giovane e l’unica cosa che porta è un trucco aggressivo, nella nebbia fredda tinge il suo viso di una tonalità arancio. Frequenta questi luoghi da tempo. Prima frequentava i vari Stalingrad, Barbès, Avenue des Flandres: topografie cittadine che indicavano gli accampamenti migranti, prima dei ripetuti sgomberi.
Faty è incazzata col mondo, e si esprime a grandi gesti ondeggiando il corpo. Racconta delle notti passate al freddo per monitorare la polizia, che “spazza” regolarmente le zone circostanti alla Grande Bolla per impedire ai migranti qualsivoglia speranza stanziale, intervenendo – se necessario – con manganelli e calci a tirare via coperte e tende. Accuse lungamente ignorate dai media fino al 7 gennaio scorso, quando Medici Senza Frontiere ha rilasciato un comunicato dall’eloquente titolo: “Migranti a Parigi: le molestie e violenze della polizia devono cessare”.
Faty e le altre sono dirette al centro, dove serviranno da mangiare e da bere. Prima si sono fermate in questo piazzale per una decina di ragazzi, per lo più minori e di origine afgana, che conoscono e cercano di aiutare. Uno di loro racconta di essere stato operato di appendicite, un paio di mesi fa. Afferma che l’ospedale l’ha dimesso immediatamente dopo l’operazione, narrando di come, con la pancia ancora gonfia, è andato a ficcarsi in un angolo di strada. Un altro mostra una brutta ferita alla tibia, chiaramente infetta. Dice che all’ospedale l’hanno cacciato via.
Se ne vanno dal parcheggio, e quando raggiungo Faty e gli altri di fianco al centro, nella viuzza che porta a Saint-Denis («La polizia ci impedisce di stare davanti alla Bolla», dice Faty), una fila ordinata di persone, o meglio, ordinata da Faty a colpi di grida e grasse risate, attende con calma la distribuzione delle lenticchie. Mi fermo a parlare con Mohamed, somalo, in Europa dal 2008 e con alle spalle vari anni di vita in Italia. Il suo italiano è ottimo e mi prende in giro per il mio berretto e i miei guanti: dice che «questo non è freddo». Lui ritorna dalla Finlandia. Prima era in Danimarca, prima ancora in Olanda, e prima ancora in Germania. È molto spiritoso, Mohamed. Scoppia a ridere quando gli racconto che ho fatto un cortometraggio all’ex-Moi a Torino, e che il rifugiato con cui l’ho fatto, da quando ha mandato il video ai genitori, ha smesso di ricevere richieste di soldi da casa.
Mohamed mi mostra un foglio in francese. È un documento della prefettura di Parigi. C’è scritto che Monsieur Mohamed è stato riconosciuto “suscettibile alle disposizioni della convenzione di Dublino (…) in quanto ha presentato domanda d’asilo in: Olanda, Germania, Italia, Danimarca”. Il signor Mohamed è dunque informato del fatto che sarà rispedito entro trenta giorni nel paese stabilito – in questo caso, l’Italia.
Quando gli addetti della Bolla – che m’immagino come degli esseri futuribili di un lontano pianeta – rilasciano il tagliando al migrante, quest’ultimo è obbligato a fare una visita alla prefettura, dove gli fanno richiedere l’asilo e gli prendono le impronte. In pratica, se entri nella Bolla, sei obbligato a chiedere l’asilo in Francia e a sottometterti all’esame per Dublino: chi è già stato registrato in un altro paese europeo, è costretto a farvi ritorno. E se non vuole andare in prefettura, una volta ottenuto il tagliando? «Semplice – dice Mohamed –, non ti danno il letto». A lui il letto l’hanno dato, prima nella Bolla, poi in un centro d’accoglienza nel tredicesimo arrondissement, in attesa del rinvio in Italia.
Fa troppo freddo per stare fermi, checché ne dica il Somalo-che-venne-dalla-Finlandia, cosi facciamo un giro cercando altro tè caldo. Un signore sudanese si avvicina a Mohamed parlando in arabo con tono sussiegoso. Ha bisogno d’aiuto, dice Mohamed. Ha delle costole incrinate, residuo di un’antica operazione, e dopo una settimana passata a dormire al gelo sotto all’autostrada, praticamente non riesce più a camminare. Si tiene a stento in piedi e respira con affanno. Io e Mohamed lo portiamo al furgone di MSF, distante un centinaio di metri. Sul cammino, quasi inciampo su una scala appoggiata a un muro, di fianco a un passeggino. Siamo di nuovo nella terra di nessuno tra Parigi e il resto del mondo, e dietro a quel muro diroccato c’è un altro accampamento. Una ragazzina sporge la testa prima di scendere la scala con noncuranza. Sono gitani.
Apro la tenda alla postazione di MSF, e il calore mi avvolge come una coperta lasciata sul termosifone. Prendono in cura il signore sudanese, parlandogli in arabo. Dicono che lo ospiteranno loro stanotte. Io e Mohamed torniamo alla Tripla Bolla. Mohamed ha fretta: tra poco si chiuderanno le porte del centro e lui ha bisogno del bagno. Solo che c’è una certa confusione: l’impiegato di Emmaus – coinvolta nella gestione della Bolla e nell’assistenza a tutti gli sgomberi di accampamenti voluti dal governo – gira e rigira la chiave nella serratura del cancello, mentre con tono aggressivo spiega che bisognerà aspettare. È arrivato il sindaco Anne Hidalgo, dice, a fare una visita. Adesso mi spiego la presenza dei poliziotti col mitra spianato. Spiego la situazione a Mohamed. «Il sindaco? Il sindaco viene qui? Allora dovrà aspettare», dice. Come dovrà aspettare? «Certo. Non vedi che c’è la coda?», domanda sornione, prima di scoppiare a ridere. (filippo ortona)
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