Fotogalleria di Santiago Molfino
Diceva Ilich Ulianov che ci sono decadi dove non accade niente e settimane in cui passano decadi, sussulti che portano trasformazioni e accelerano il tempo in cui viviamo. Dal 18 giugno il Kenia è scosso da ogni parte, e per capire meglio quel che sta succedendo bisogna lasciarsi condurre da questi tremori. Per la prima volta dalla sua indipendenza dal Regno Unito nel dicembre del 1963, un movimento popolare, spinto in gran parte dalla cosiddetta Generazione Zoomer (la Gen Z, i nati alla fine degli anni Novanta, considerati nativi digitali per la loro precoce familiarità con internet e la tecnologia digitale), ha preso le strade per protestare contro le nuove tasse previste dalla Finance Bill 2024, frutto del disperato tentativo del governo di aumentare le entrate – 2.700 milioni di dollari – per ridurre il deficit di bilancio e raggiungere gli obiettivi stabiliti dal Fondo monetario internazionale.
Il progetto di legge era una bomba a orologeria: introduceva nuove imposte sui prodotti di base come il pane, la benzina, l’olio vegetale e lo zucchero; una nuova tassa sulla circolazione dei veicoli a motore; una “tassa ecologica” su gran parte dei prodotti manifatturieri e l’aumento delle tasse esistenti sulle transazioni finanziarie attraverso la app M-PESA di Safaricom, il sistema di pagamenti mobile che monopolizza l’economia e il portafoglio dei keniani.
La sequenza degli eventi mostra il precipitare della situazione: dalla sordità politica, con l’insistenza nel portare avanti il progetto di legge nonostante le proteste e la manifestazioni massicce in tutto il paese, alla violenza poliziesca nelle piazze, con l’assassinio di almeno cinquanta persone secondo la Commissione nazionale diritti umani del Kenia, fino al rifiuto del presidente William Ruto di firmare l’approvazione della legge, la rinuncia del capo della polizia nazionale e la destituzione della quasi totalità del suo gabinetto. Adesso l’unica via d’uscita possibile è la rinuncia del presidente e la chiamata alle urne. «Non si tratta più solo dell’economia, sono i fratelli, gli amici, i giovani assassinati e quelli scomparsi, e c’è un responsabile diretto: il presidente», mi dice un ragazzo mentre ci incamminiamo a una manifestazione nel centro di Nairobi.
La parabola di questa crisi si legge anche nella successione degli hashtag: #Rejecthefinancebill, all’inizio, #ShutdownKenya e #Occupyparliament fino all’ormai inamovibile #Rutomustgo. Il voltafaccia di Ruto, presidente dal 2022 con la coalizione Kwanza Kenya (in swahili, “prima il Kenia”), ha innescato l’animosità di coloro che oggi lo vedono come un traditore. Durante la sua campagna elettorale ha mobilitato migliaia di giovani disoccupati e sottoccupati – l’informalità africana che tutto muove – degli strati più marginali, nel nome della Hustler Nation, popolare slogan che ha infuso entusiasmo e speranza negli hustlers, questi reietti che lottano ogni giorno per la sopravvivenza, riuscendo a coinvolgerli nella battaglia politica.
Enfatizzando la sua umile origine – Ruto è nato in un piccolo villaggio della valle del Rift, da giovane vendeva pollo ai camionisti della zona e non proviene da famiglie di lignaggio politico come gli Odinga o i Kenyatta –, l’attuale presidente prefigurava un retorico scontro di classe promettendo di colpire i privilegi delle élite in favore dei ceti più svantaggiati.
Nelle ultime settimane, l’intesa con Washington – Ruto è stato il primo leader africano in più di quindici anni a realizzare una visita di stato ufficiale negli Usa, designato principale alleato non appartenente alla Nato –, i viaggi milionari e l’invio di truppe ad Haiti hanno infiammato ancora di più la situazione.
«Era il nostro hustler boss – mi dice Kabwanga, che si guadagna da vivere vendendo auricolari e custodie di telefono fuori al mercato di Gikomba –, conosce la strada e aveva promesso di farla finita con gli sprechi dei politici, i loro milioni, le ville, gli orologi d’oro, e ora non solo ci aumenta le tasse ma ci uccide; non è più il nostro leader, è un assassino». Sulla schiena Kabwanga ha un cartello attaccato con lo scotch, con su scritto USITUUZIE WOGA – don´t sell us fear – questo il significato, mi dice; poi mi allaccia un braccio esclamando con il pugno levato: «New generation, new rules. Fearless. Mr president, watch us!».
La politica keniana, sostengono quelli che manifestano, non tornerà più la stessa. Qualcosa si è rotto. La rivoluzione è capitanata da giovani che stanno cancellando – in queste settimane-decadi – scenari anchilosati da mezzo secolo. “Stiamo facendo la storia”, ripetono. (santiago molfino /traduzione di luca rossomando)
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