Cos’è uno stato? Come si comporta? Perché lo consideriamo così legittimo? Ma soprattutto: si sta rafforzando, si sta indebolendo, o si sta trasformando in qualcos’altro? L’antropologia, la scienza che studia le forme di organizzazione dei gruppi umani, da molto tempo prova a rispondere a questo tipo di domande. Da Come pensano le istituzioni di Mary Douglas a Legends of people, myths of states di Bruce Kapferer, oltre ad Akhil Gupta, Veena Das, fino al recentissimo Lo stato nazione e i suoi mali di Michael Herzfeld (in uscita per Castelvecchi), gli antropologi si sono scontrati con il mistero di questa costruzione sociale recentissima, ma in grado di far credere a enormi masse di popolazione di essere sempre esistita, o di avere le radici in un passato remotissimo, se non nella stessa natura umana. Le loro riflessioni sono molto profonde, ma sono rimaste lontane dal dibattito pubblico; d’altra parte, come scrive Herzfeld, “se non evitiamo l’astrazione eccessiva e un gergo che offusca più che spiegare, non abbiamo il diritto di chiedere al pubblico un serio apprezzamento del ruolo che l’antropologia potrebbe svolgere nello smantellamento di strutture opprimenti ed esclusive”.
Il libro di Deniz Yonucu, Police, provocation and politics (Cornell University Press, 2023) è un contributo fondamentale per capire cos’è lo stato, attraverso lo studio di una sua istituzione fondamentale: la polizia. È un libro ben scritto, chiaro e comprensibile, e allo stesso tempo profondamente radicale, nel senso di andare alla radice delle questioni. L’autrice è una antropologa turca che insegna a Newcastle (Inghilterra) e ha ricevuto il premio Anthony Leeds per questo lavoro, considerato il miglior libro di antropologia urbana dell’anno; un risultato notevole, visto che sin dalle prime righe si schiera apertamente dalla parte delle vittime della violenza dello stato, dichiarando che alcuni elementi della ricerca saranno volutamente omessi, proprio per non collaborare con questa istituzione. Del resto, l’incontro della American Anthropological Association dove Deniz è stata premiata, è stato anche il momento in cui migliaia di antropologi di tutto il Nordamerica e oltre hanno condannato collettivamente la violenza coloniale e omicida dell’esercito israeliano a Gaza (ne ho già parlato in un articolo di qualche mese fa). Tra gli antropologi e le antropologhe sta prendendo sempre più spazio la critica aperta e motivata al militarismo, al nazionalismo e alla violenza degli stati.
Poliziotti, militari e agenti coloniali sono stati sempre presenti sui “campi” dove lavorano gli antropologi: ce n’erano nei villaggi trobriandesi studiati da Malinowski, in quelli samoani di Margaret Mead e tra i Nuer di Evans-Pritchard. Ma con poche eccezioni, le cosiddette “forze dell’ordine” sono rimaste quasi sempre fuori dall’analisi, che si concentrava sulle istituzioni indigene o native, senza curarsi troppo di come esse si interfacciassero con gli stati nazionali. Progressivamente però – un episodio importante è descritto da Clifford Geertz a Bali nel ’73 – i ricercatori hanno iniziato a vederli, a descrivere la loro presenza e la loro azione, fino a iniziare a teorizzare su come fare ricerca sulla polizia. Nel 2018 è uscita una raccolta di saggi, The anthropology of police (a cura di Karpiak e Garriot), e un articolo sull’Annual Review of Anthropology (di Jeffrey T. Martin) che spiega che l’antropologia della polizia si basa su una visione dello stato come un oggetto nuovo, ma basato su forme più antiche di ordine morale, e per questo sempre duplice e stratificato. Naturalmente, queste ricerche prendono nuova linfa anche dalle mobilitazioni dopo la morte di George Floyd, molte delle quali hanno avuto come orizzonte l’abolizione della polizia. Ma per abolire bisogna prima capire: e non è del tutto chiaro, ancora, come funzionino gli stati e la loro struttura di monopolio della violenza civile, la polizia.
Il libro di Yonucu, che ha come sottotitolo “Controinsorgenza a Istanbul”, descrive il comportamento della polizia nei quartieri popolari della capitale turca, con una ricostruzione storica basata per lo più su interviste ai residenti, e un’osservazione prolungata nel tempo dello sviluppo dell’assedio poliziesco nelle zone periferiche. Ha origine nella partecipazione dell’autrice alle mobilitazioni del 2013 a Gezi Park, quando per la prima volta giovani figli della borghesia e intellettuali si sono trovati a subire la repressione della polizia insieme ai figli dei quartieri più poveri della città, dove quella repressione era la norma da decenni. La “primavera” turca, spiega Deniz, si divise proprio su questo: quando la polizia alzò il livello della violenza nelle periferie, i ragazzi di queste borgate si ritirarono dalla protesta di Gezi, perché dovevano andare a difendere i loro quartieri, e gli attivisti di classe media come lei provarono ad accompagnarli, ma per lo più rimanendo scioccati, o schifati, dal livello di violenza di queste zone. Deniz è stata tra i pochi a cui questa nuova divisione di classe non è andata giù; e ha iniziato a lavorare in uno di questi quartieri, per capire come funzionasse l’intreccio tra violenza, repressione e politica locale. La scoperta fondamentale è stata che, nonostante queste zone fossero considerate da tutti come intrinsecamente violente, questa violenza è l’effetto di decenni di provocazioni e divisioni capillarmente create dalle cosiddette “forze dell’ordine”, per smantellare le strutture organizzative e politiche locali, e spingere i quartieri nel caos e nella paura. C’era un piano di “controinsorgenza” all’opera, che gli abitanti locali avevano molto chiaro, ma invisibile al resto della città.
La casa editrice universitaria che ha pubblicato il libro, Cornell University Press, mette le mani avanti di fronte a questa evidenza, presentando il libro come “un’analisi controintuitiva delle pratiche contemporanee della polizia”, che si concentra sulla “promozione della controviolenza, del conflitto perpetuo e della tensione etnica e settaria”, anziché sul mantenimento dell’ordine. Ma che la polizia fomenti i conflitti e semini zizzania, anziché tentare di mettere pace, è controintuitivo solo per chi non ha mai sentito parlare della strategia della tensione, o delle violenze durante il G8 di Genova del 2001; oppure per chi – come le case editrici universitarie – mantiene in piedi la finzione degli stati di diritto, dove benintenzionate “forze dell’ordine” garantiscono pace e giustizia ai cittadini, attente a punire solo chi si “comporta male”. Anche il più grande teorico dello stato moderno, Michel Foucault, dava per scontata la funzione pacificatrice delle forze di polizia: disciplinare e punire, sia con la forza che senza, doveva servire a mantenere l’ordine, a garantire i corpi e a proteggere la società. Addirittura Agamben nel 2014 spiegò che dopo la “guerra del terrore” gli stati invece di creare ordine hanno iniziato a “gestire il disordine” (cit. a p.154). Deniz dimostra esattamente il contrario: che la polizia lavora invece proprio per promuovere il disordine e la paura; per rendere impossibile la vita collettiva, per boicottare l’organizzazione comunitaria, e per minare la pace sociale di alcune classi o aree geografiche. Altro che “governamentalità”! Gli stati nazionali sono macchine da guerra contro la convivenza pacifica e l’autogestione popolare; le provocazioni e le violenze della polizia si scatenano proprio contro chi è più in grado di autogestirsi e convivere, anche a prezzo di aizzare le persone e i gruppi sociali gli uni contro gli altri.
Nel quartiere di Istanbul che Deniz chiama Devrimova (dalla parola turca devrim, “rivoluzione”), questa dinamica è particolarmente visibile e violenta; ma non si può evitare di riconoscere le somiglianze con quello che succede negli stati cosiddetti “democratici”, dove l’infiltrazione immotivata della polizia, le assurde accuse di terrorismo agli attivisti di base, la connivenza con la grande criminalità, sembrano fatte apposta per alimentare la paura e la sfiducia reciproca; lo stesso si può dire del continuo tentativo di dividere tra militanti buoni e militanti cattivi, tra poveri bianchi vittime e poveri neri (o meridionali) fannulloni e pericolosi. Negli anni Settanta, i cosiddetti gecekondu, o quartieri “spuntati di notte” del proletariato turco – analoghi ai borghetti autocostruiti di Roma e di Milano – furono teatro di una grande sperimentazione di “una nuova forma di vita socialista” (p.38), fatta di comitati di quartiere, reti di solidarietà, gruppi di autodifesa, strutture di autogestione e autocostruzione collettiva, addirittura “tribunali popolari” e organizzazioni di donne contro l’alcolismo e la violenza domestica. Queste sperimentazioni permettevano a decine di migliaia di persone di sopravvivere all’esclusione e alla segregazione urbana, ma erano malviste dalla maggioranza turca sunnita, per lo più nazionalista, che considerava questi quartieri come pericolosi e nemici.
Invece che Foucault, Deniz segue Jacques Rancière, per cui la polizia è il contrario esatto della politica: la guerra continua dello stato contro la popolazione si può riassumere come il tentativo del policing di distruggere il politics, cioè la politica di base, la capacità umana di organizzarsi e creare forme stabili di autogoverno del territorio. La polizia non è solo repressione e disciplina, ma è la struttura istituzionale che distribuisce e assegna gli spazi alla popolazione, definendo cosa dev’essere reso visibile e cosa invisibile, cosa dev’essere percepito come discorso, e cosa invece verrà relegato al ruolo di “rumore”. La politica, per Rancière, è esattamente il contrario, e cioè “qualunque cosa sposti un corpo dal luogo a esso assegnato, o cambi la destinazione di un luogo”, “rendendo visibile quello che non riusciva a essere visto”, e “rendendo udibile come discorso quello che prima si percepiva solo come rumore” (cit. a p.14).
Nel libro questa lettura emerge dallo studio dei quartieri marginali di Istanbul dove vive soprattutto uno dei tre gruppi di popolazione anatolica conquistati dallo stato turco: gli aleviti, che con i curdi e gli armeni costituiscono più della metà della popolazione della nazione. Se l’oppressione dei curdi e il genocidio degli armeni sono conosciuti anche in Europa occidentale, la marginalizzazione e la stigmatizzazione degli aleviti è meno nota, ma non meno sistematica. Gli aleviti sono in teoria un gruppo religioso, ma siccome storicamente sono stati laici, ostili all’islamismo sunnita e al nazionalismo conservatore, sono sempre stati identificati con le organizzazioni rivoluzionarie, a cui hanno aderito in massa. I loro quartieri erano “zone liberate”, nate dall’opposizione collettiva alle continue aggressioni della polizia, che tentava di demolire le loro case, considerate abusive. Come racconta un intervistato cinquantenne: “Da piccoli giocavamo nei terreni vuoti intorno al quartiere, e quando vedevamo le ruspe avvicinarsi iniziavamo a correre e a gridare: ‘Sta arrivando lo stato! Sta arrivando lo stato!’. Gli uomini erano per lo più al lavoro, ma le donne che ci sentivano riempivano le strade e iniziavano a raccogliere pietre nelle gonne, per tirarle contro le ruspe” (p.35). Dopo ogni demolizione il quartiere si riorganizzava per ricostruire le case che erano state abbattute: “Non c’era elettricità, né acqua, né strade, né servizi… era una terra vuota piena di fango […]. Quando la gente ha iniziato a stabilirsi qui, ci riunivamo per capire cosa fare. Le organizzazioni rivoluzionarie stavano già discutendo su come creare comitati popolari […]. Non avevamo scelta. Dovevamo sviluppare i nostri strumenti con cui risolvere i problemi più in fretta possibile. Non era solo una scelta politica: era una necessità di base”, dice un altro intervistato, più anziano (p.37).
Con il tempo, da questa auto-organizzazione scaturirono la distribuzione autogestita delle terre, anche con l’aiuto di architetti, urbanisti e studenti di architettura, nonché forme di tribunali del popolo, basati sui consigli di villaggio delle campagne, in cui si decideva sulle controversie interne, senza dover ricorrere alla polizia turca (che avrebbe considerato tutti comunque in qualche modo colpevoli, per il solo fatto di essere aleviti). Anche le donne partecipavano ai consigli di quartiere, com’era consuetudine anche nei villaggi aleviti. Deniz dice che nei quartieri rivoluzionari c’era una “politica femminista de facto”: la partecipazione politica delle donne portò alla messa in discussione di forme patriarcali di gestione delle famiglie, contrastando la violenza, l’alcolismo, e reclamando la gestione femminile delle risorse. Una volta, un tribunale popolare impose a un uomo che aveva picchiato la moglie di lasciare il quartiere e di non tornare mai più. Un’altra volta un tribunale punì un gruppo di studenti che aveva promesso di portare uno spettacolo teatrale, ma poi aveva dato buca quando gli abitanti avevano già organizzato tutto. Li portarono davanti al tribunale popolare, che ascoltò le loro scuse ma impose loro di non tornare più nel quartiere per due mesi.
Queste organizzazioni locali comprendevano anche gruppi di autodifesa del quartiere contro la polizia e contro gli attacchi degli abitanti delle zone intorno, leali allo stato; naturalmente, erano considerate come nemiche dalle istituzioni e dalla polizia. Sin dalla fine degli anni Settanta, e poi con il colpo di stato del 1980 – che uccise milleduecento persone e ne incarcerò seicentocinquantamila – la polizia articolò una strategia di controinsorgenza contro questi quartieri, fatta di attacchi diretti, infiltrazioni, e incursioni di gruppi paramilitari. La polizia “esportò ai margini urbani di Istanbul le tecniche di controinsorgenza spaziale che aveva applicato nelle province kurde” (p.54), trasformando molti gecekondu in piccole “Gaza di Istanbul” isolate tra loro, una sorta di arcipelago di enclave non molto diverso anche da come l’esercito israeliano riuscì a usare la pianificazione e l’architettura per impedire l’organizzazione politica palestinese (lo spiega magistralmente Eyal Weizman, e anche Alessandro Petti). In queste “piccole Gaza” segregate, con il tempo iniziarono a rifiorire forme di organizzazione rivoluzionaria, che mantenevano viva la memoria dell’autorganizzazione del passato. È a questo punto che diventa interessante capire il ruolo della polizia. Perché è contro questi quartieri che si articola il lavoro poliziesco spiegato da Deniz, che “non è solo un progetto foucaultiano di governo di produzione della docilità, ma anche un progetto schmittiano di produzione di ostilità, che promuove attivamente l’inimicizia tra popolazioni diverse” (p.11).
Nella guerra contro il PKK, il partito comunista kurdo, l’esercito turco ha usato le deportazioni, l’esilio e il controllo capillare dell’informazione, trasformando alcune città in prigioni a cielo aperto di cui non si sapeva praticamente nulla nel resto del paese. Allo stesso modo, i quartieri ribelli dei kurdi e degli aleviti a Istanbul furono isolati gli uni dagli altri, facendo in modo che i residenti avessero difficoltà a uscirne, che i non residenti non li attraversassero mai, e che un generale senso di paura aleggiasse su alcune parti della città. Queste forme di provocazione, unite al lavoro capillare di agenti sotto copertura, hanno modificato la stessa percezione del mondo degli abitanti dei quartieri. Entra in gioco qui un’altra dinamica, che Deniz chiama violent interpellation. Lo stato ha inquadrato la repressione delle organizzazioni rivoluzionarie come una repressione etnica: i kurdi non erano perseguitati in quanto ribelli, ma in quanto kurdi, e lo stesso per gli aleviti. “Morte agli aleviti!” gridò la polizia quando nel 1995 sparò sulla folla in una manifestazione nel quartiere di Gazi, uccidendo diciotto persone. A furia di essere repressi come aleviti, molti rivoluzionari iniziarono a percepirsi come tali, più che come rivoluzionari. Hannah Arendt spiega di essersi accorta di essere ebrea proprio a partire dagli insulti antisemiti che le rivolgevano i figli dei nazisti: “Chi è attaccato in quanto ebreo, deve difendersi come ebreo. Non come un tedesco, o come un cittadino del mondo, o un sostenitore dei diritti umani” (cit. a p.78).
Questa “interpellazione violenta” ebbe l’effetto di far identificare i rivoluzionari aleviti sempre più come membri di un gruppo etnico e religioso, che come militanti di un’idea emancipatrice universale. Il risultato fu la frattura sempre più evidente tra rivoluzionari aleviti, rivoluzionari kurdi e rivoluzionari della maggioranza turca sunnita, che iniziarono a dubitare gli uni degli altri. “Dopo [il massacro di] Gazi, la gente iniziò a parlare di chi era alevita e di chi era sunnita”, dice un intervistato settantenne, turco sunnita, ma abitante e militante del quartiere di Devrimova. “Forse c’era già, ma è diventato molto più esplicito” (p.83). La repressione lavora innanzitutto rafforzando ogni singola identità, rinchiudendo ogni gruppo nella sua piccola bolla e stimolando la diffidenza e il conflitto tra tutti i gruppi che mettono in difficoltà lo stato. Impossibile non vedere un riflesso ingigantito della frammentazione del movimento radicale italiano (e romano più che ogni altro), diviso in bolle di “individualità” o “soggettività” riottose, sospettose le une delle altre e incapaci di allearsi, a volte neanche temporaneamente.
Dopo il massacro di Gazi, una volta instaurato questo clima di tensione e di segregazione, con i checkpoint e carri armati nelle strade, all’improvviso la polizia si ritirò dai quartieri. “Ne eravamo fieri al tempo, pensando di averli spaventati. Ma ora capisco che stavano lasciando che la violenza dilagasse tra noi”, spiega un militante esiliato dopo aver subito l’arresto e la tortura. “Non è che la polizia avesse abbandonato i quartieri: come nelle tattiche di guerriglia, la polizia veniva a creare tensione e poi si ritirava” (p.89). La segregazione non ha più bisogno dei carri armati: sono le stesse dinamiche costruite dallo stato a permettere che la violenza si diffonda in alcune zone, per caratterizzarle come pericolose e separarle dal resto della città. Quante volte, anche in Italia, la polizia ti ferma all’ingresso di certe periferie, chiedendoti dove vai e perché, dando per scontato che chiunque ci vada dall’esterno è per cercare droghe, o comunque per qualcosa di proibito. È la stessa dinamica di creazione di ghetti, ovviamente in scala minore.
Inoltre, la polizia ha promosso attivamente la marginalizzazione di tutte le figure di mediazione, quelle che riuscivano a tenere insieme diversi gruppi e comunità, lasciando invece impunito chi esercitava violenza al fine di potere e profitto, per esempio i narcotrafficanti. Con il tempo, e l’azione incessante di provocazione e detenzione arbitraria, i gruppi di autodifesa si radicalizzarono, diventando vigilantes, in gran parte indistinguibili dagli sgherri dei narcos, dai paramilitari e dalla polizia stessa. (Anche questa deriva si riflette in altri paesi europei, dove a volte il maschilismo generalizzato rende simili fascisti e antifascisti, o dove certe forme di “servizio d’ordine” e autoritarismo degli spazi autogestiti sembrano scimmiottare stato e polizia: ricordiamo il green pass in alcuni centri sociali!). Così, i quartieri dove c’era stato un tentativo di emancipazione collettiva, laica e inter-settaria, nel giro di qualche decennio diventarono luoghi pericolosi e violenti, in cui girano giovani armati in passamontagna, forse membri delle vecchie organizzazioni rivoluzionarie, forse al soldo dei trafficanti, forse poliziotti in borghese. A dominare è la diffidenza reciproca, il sospetto e il risentimento, soprattutto verso i giovani, sempre presentati come violenti per natura. Lo stigma, la diffamazione, l’ambiguità, gli stereotipi etnici e di classe, il conflitto intergenerazionale, sono promossi attivamente per alimentare situazioni di tensione e legittimare la presenza e la violenza della polizia contro gli abitanti. Questa azione si nasconde sempre dietro retoriche di ordine, decoro, ragionevolezza e civiltà, che la rendono incomprensibile alle parti di cittadinanza più integrate. Deniz inoltre ricostruisce in dettaglio come queste tattiche di provocazione del disordine e della paura siano arrivate alla polizia turca attraverso i manuali in uso dall’esercito britannico in Irlanda del Nord, a loro volta basati sui manuali di “guerra sporca” della Nato, che a loro volta si basavano sulle strategie di conquista dell’esercito coloniale francese in Algeria. Un filo nero connette la colonizzazione europea in Africa, con la guerra fredda, con le strategie che usa la polizia contro i dissidenti politici.
Il libro è un capolavoro di etnografia militante, che sarebbe importantissimo tradurre. Dal punto di vista metodologico, è un modello di come andrebbe fatta una ricerca sul terreno e di come articolare l’esposizione dei risultati per non parlare solo ad altri studiosi, ma anche senza dare informazioni che possano essere usate contro i protagonisti della ricerca. Combina un lavoro lungo sul campo, una chiarezza etica e politica del ruolo e della responsabilità della ricercatrice, e una ricostruzione di rara profondità del contesto storico e delle implicazioni politiche. La conclusione è che c’è una guerra in corso tra lo stato e la popolazione, che alza o abbassa la sua intensità a seconda di quanto lo stato riesce a mantenere invisibili alcune pratiche popolari di liberazione e autogestione. Questa è anche l’essenza della lettura di David Graeber dello stato, in Sul potere dei re e in altri testi: nello stato confluiscono strutture politiche e sociali diverse, che sono continuamente in tensione e che rischiano continuamente di perdere la presa. La buona notizia è che, per lo stato, è molto difficile vincere questa guerra contro i suoi stessi cittadini. Per paradosso, infatti, violenza istituzionale, provocazione e controinsorgenza sono in sé una “vera e propria prova dell’esistenza di una lotta politica” (p.161). Così, nonostante decenni di tentativi, “l’élite turca al potere non è mai riuscita a spegnere del tutto il dissenso di sinistra in Turchia”.
C’è una forza politica molto forte, infatti, che sfida ogni tentativo di provocazione e continua a spingere le persone a sfidare lo stato: la memoria di chi lo ha già fatto. “La controinsorgenza è anche produttrice di lotta politica, perché le sue sporche tecniche esacerbano le ingiustizie già presenti nella società. Finché esisteranno le radici del dissenso – la dominazione, lo sfruttamento, la diseguaglianza, l’ingiustizia – continueranno a esistere sia la controinsorgenza che la sua antitesi: la politica”. (stefano portelli)
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