Dal 6 novembre è in libreria a Napoli, e da questa settimana anche in tutti i punti di distribuzione di Roma, Bologna, Milano e Torino, il numero 11 de Lo stato delle città (novembre 2023).
Pubblichiamo, tratto dalla rivista, l’articolo Gli antagonisti del clima, di Salvatore De Rosa.
Non inizierò questo articolo con l’elenco degli eventi metereologici estremi di questa estate, di questo mese o di questa settimana. Sono troppi, sono noti. “Maltempo” è una categoria fuori luogo per descriverli, e anche una giornata di sole non è più così “serena” a quarantatré gradi. Il pianeta è ormai terra incognita nella sua interezza. Nessuna nuova normalità, piuttosto una normale instabilità. Destinata a peggiorare se le emissioni antropiche di gas serra, derivanti soprattutto dall’uso dei combustibili fossili, non saranno dimezzate entro il 2030 e azzerate globalmente entro il 2050, e se il collasso degli ecosistemi e della biodiversità non sarà invertito. Il consenso scientifico è risaputo. Gli eventi estremi innegabili, e la loro relazione diretta con il cambiamento climatico non solo prevista ma quantificabile. Il fallimento nel contenere la degradazione ecologica e climatica sta avendo già ora effetti devastanti, distribuiti entro le gerarchie sociali e le differenze di classe esistenti. Dati gli assetti attuali, a pagare di più è chi ha un reddito basso o nullo, chi risiede in una zona marginalizzata o sacrificata dal sistema economico, o in una periferia del mondo schiacciata dalla geopolitica neo-coloniale.
Eppure, qualcosa deve essere andato storto se anche il ministro dell’ambiente afferma di non essere poi tanto sicuro che le responsabilità del cambiamento climatico siano da attribuire alle attività umane, o che non è chiaro cosa si debba fare per affrontarlo, sapendo di raccogliere le simpatie di una parte dell’uditorio. Mentre le città italiane arrostivano, su tv, radio e social si è ripresentato il negazionismo classico delle basi fisiche, con il proliferare di “evidenze” che dimostrerebbero come il clima sia sempre cambiato o che le società umane comunque non hanno responsabilità. Discussioni allucinate, in cui i fatti non hanno importanza. Di più recente invenzione è il negazionismo antisistema, nelle varianti cospirazionista e anticomunista. Nel primo caso, si proclama che la transizione ecologica non ha nulla a che fare con il clima, è invece un piano cospirativo delle élite per rinforzare il loro potere attraverso l’imposizione di nuove produzioni e strutture di controllo. Visione complottista ma con un grammo di verità: la transizione è forse la più grande sfida sociale ed ecologica che rischia di essere di fatto privatizzata e affidata al mercato. Nel secondo caso, la governance del clima è la scusa dei “rossi” per avanzare un’agenda di giustizia sociale camuffata da scienza, un attentato alle irrinunciabili prerogative di consumo e superiorità di chi lavora sodo, di chi è nato nella parte giusta del mondo. E anche questo è parzialmente vero, in fondo l’equità delle politiche climatiche è iscritta nei trattati, e qualche forma di decrescita dei consumi tra i privilegiati avverrà, in un modo o nell’altro.
Vi sono poi modi più sottili di paralizzare l’azione. L’argomento cardine è che la trasformazione sistemica verso zero emissioni è troppo costosa se viene affrettata, porterebbe alla recessione economica privandoci del benessere garantito dallo sviluppo industriale. Gli attivisti sono additati come promotori del ritorno all’età della pietra, quando invece, si afferma, è solo con un aumento dell’uso dei combustibili fossili e grazie all’innovazione tecnologica che realizzeremo la transizione. In sostanza, una ricetta che invita a mettere la testa sotto la sabbia. Più in là nello spettro degli argomenti che giustificano l’inazione ci sono i fautori del “è troppo tardi per evitare la castrofe”. Qui si cercano solo conferme che nulla si può fare e della scienza si raccolgono le proiezioni più improbabili. Così è facile chiudersi in un narcisismo esasperato da fine del mondo. Per i sensibili, invece, non resta che rassegnarsi all’ansia ecologica. Opportunismo o nichilismo. Ma, ovviamente, dichiarare che non c’è nulla da fare è una profezia che realizza se stessa.
Esiste un sentimento popolare che accanitamente rifiuta la resa dei conti con la realtà. Tale atteggiamento è certo il risultato di una strategia di disinformazione concertata da chi ha tutto da perdere da una trasformazione radicale, ma è soprattutto accentuato dall’intrattabilità della questione climatica entro gli assetti di economia politica e attraverso gli schemi mentali ereditati dalla modernità capitalista. Nelle cause come nelle soluzioni, la crisi climatica evoca responsabilità passate e ne intima la presa in carico; sovverte rappresentazioni collettive su un modello di sviluppo che sembra a molti l’unico possibile; costringe a contemplare l’eventualità di perdite irreparabili: di futuro, di privilegi, di benessere, e di certezze. Lascia alla mercé di domande irrisolte: chi deve cambiare e come? E soprattutto, chi deve pagare?
Per tamponare il rischio che queste domande destabilizzanti facciano venire strane idee a quella parte di società in cui negazionismo e fatalismo non attecchiscono, si è formalizzato l’interventismo di stati e aziende che hanno abbracciato la difesa del clima e dell’ambiente per scopi di propaganda e di sopravvivenza. Loro vogliono cambiare. Cambiare tutto per non cambiare niente. Gli effetti dell’internalizzazione della gestione della crisi climatica in politica continentale e di stato, e in nuova frontiera di mercificazione e marketing, sono ancora la dilazione, il sabotaggio, il dirottamento delle soluzioni, ma stavolta sotto il segno di una dichiarata presa di responsabilità.
Strumenti mercantili come la crescita verde, le compensazioni e i crediti di carbonio, la spinta verso consumi definiti ecologici, mirano a dissipare timori e a perimetrare il campo del possibile entro interventi compatibili con gli assetti economici e di potere dominanti. Se poi tutto va in malora, si potrà geo-ingegnerizzare l’atmosfera. Parte di questa strategia è l’individualizzazione della responsabilità ecologica, attraverso la riduzione delle soluzioni alla scala del singolo o più crudamente con tassazioni indiscriminate ai consumi, che rendono immediatamente impopolari le politiche climatiche in generale. E fanno gridare al complotto. Soprattutto, queste politiche non intaccano la composizione dei gas in atmosfera, non preparano le società ad affrontare gli sconvolgimenti che vengono, non raddrizzano le responsabilità storiche e le croniche ineguaglianze alla base delle vulnerabilità climatiche. Bensì preparano il terreno a qualcosa di molto peggio. Non è arduo paventare la disgregazione del liberalismo democratico sotto la spinta del sommarsi di crisi esasperate dal deterioramento della biosfera. Nella sua totale adesione ai dogmi del capitalismo, il liberalismo mina se stesso, e non può resistere all’epoca di catastrofi che si appresta. Le avvisaglie già si avvertono, nella forma di un’emergente destra eco-fascista. Per i suoi proponenti, la crisi climatica c’è e sarà una brutta storia, ma solo per gli “altri”, perchè “noi” avremo uno stato identitario forte e senza troppi scrupoli. Il caos climatico, inevitabile nella traiettoria attuale, diventa una crisi di sicurezza per le città, per gli stati, per l’ordine globale, cui rispondere con la militarizzazione degli spazi e dei confini, e con la svalutazone delle vite che non rientrano nella cittadinanza disciplinata. Negli Stati Uniti le organizzazioni di estrema destra hanno iniziato a battere le strade di luoghi devastati da eventi estremi per reclutare nuove leve. In Francia, in Germania, in Inghilterra, partiti al potere o prossimi a conquistarlo già articolano esplicitamente la comunione di politiche climatiche, autoritarismo e difesa dei confini.
Racchiuso in queste contraddizioni vi è un paradosso che dovrebbe far riflettere i militanti. È come se le spinte anti-sistemiche inerenti alla rapidità e radicalità degli interventi richiesti dagli attivisti climatici siano mutate in determinati contesti e settori sociali – anche attraverso la mediazione di narrazioni tossiche – in derive populiste e razziste. La retorica dell’emergenza è stata acquisita nel discorso pubblico, ma sta producendo il contrario di ciò che aspirava a suscitare, generando rifiuto della realtà, riassorbimento della crisi entro gli apparati dominanti, il pervertimento delle soluzioni e l’autoritarismo delle risposte. Occorre riconoscere che tali ritorsioni sono in parte il risultato del fallimento degli scioperi e dei blocchi in nome del clima.
Schiacciato sul dato scientifico e ossessionato dalle molecole di CO2, il movimento che è esploso nel mainstream a partire dal 2018 ha giustamente posto l’accento sui ritardi, sull’incoerenza e sui tradimenti nell’affrontare l’emergenza climatica, ma ha mancato di elaborare un progetto politico che non fosse solo la fuga caotica da un disastro in corso. Ponendo come referenti delle richieste dal basso i ceti dirigenti, ha fornito involontariamente una sponda alla cooptazione della questione climatica entro il processo di reboot del capitalismo globale e ha lasciato il campo libero a organizzazioni di destra con aspirazioni sociali definite, ancorchè terribili, di come dev’essere la società del futuro.
Le azioni di disobbedienza civile aumentano in Europa. Nei numeri e nella radicalità, con occupazioni continue o permanenti, violazioni della proprietà privata, blocchi alle infrastrutture, da parte di un’avanguardia il cui scopo dichiarato è disturbare la normalità e richiedere una concertazione generale per la fine dell’energia fossile e la protezione e rigenerazione degli ecosistemi. In risposta, aumenta a dismisura la repressione degli attivisti, assimilati a terroristi. Nonostante ciò, frotte di giovani sono pronti a farsi arrestare. La logica del sacrificio muove i movimenti per il clima. Extinction Rebellion ha puntato sulla risposta emotiva (panico, empatia) per ammantare la militanza di un valore etico e di servizio oltre ogni calcolo utilitaristico. Fare la cosa giusta e accettarne le conseguenze. L’obiettivo di causare una reazione “difensiva” da parte dello stato era uno degli elementi centrali nella strategia iniziale di Extinction Rebellion. Ma anche XR sta cambiando registro. Dal racconto che suscita emozioni negative per provocare una conversione, ora si passa al racconto che stimola indignazione. Non più panico, ma rabbia; non più l’imperativo etico individuale, ma la necessità di giustizia sociale.
È in corso un riallineamento dei movimenti climatici, evidente anche nei Fridays For Future, verso quelle forze antagoniste da sempre critiche con lo status quo, che lottano per sovvertirlo e che prefigurano società più giuste. Abbandonando l’illusione di portare un messaggio che trascende le dicotomie politiche, si mettono al centro le questioni della classe, della razza e del genere; i principi e i fini della giustizia climatica.
Le cause strutturali da affrontare richiedono alleanze. La parola d’ordine che sull’onda della campagna dei lavoratori dell’ex-Gkn di Firenze si è imposta a Bologna e Napoli alla fine del 2022, è convergenza. Tra movimenti sociali e climatici, sindacati di base, comitati territoriali e associazioni. Bisogna espanderla e rinforzarla. Sulle questioni inerenti la casa, il reddito, la guerra, il carcere, le migrazioni, le produzioni, e oltre, il movimento climatico è un pezzo cruciale e ha a sua volta bisogno di integrarsi pienamente in queste lotte. Ormai è chiaro: dentro la giustizia climatica ci dev’essere un progetto collettivo di emancipazione. Occorre il supporto di un’alternativa, di un modello di produzione e convivenza verso cui aspirare. Il clima va liberato dalla settorialità, perché il clima come l’ecologia sono sempre state innanzitutto questioni politiche e sociali. Lo sciopero di cui abbiamo bisogno è generale, non solo climatico.
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