I
L’11 maggio del 2017 ero al compleanno di un amico su un terrazzo di via Luigia Sanfelice. Niente di più stereotipato di una festa a Napoli vista mare, in una casa bohémien dove fanno scalo intellettuali cosmopoliti e nel cui frigorifero puoi trovare una selezione di formaggi francesi. All’epoca avevo abbandonato Torino, dove studiavo, ed ero tornato a vivere con mia madre in un’abitazione di settanta metri quadri al corso Vittorio Emanuele. Mi stavo abituando alla mia nuova, temuta, dimensione – il corrispondente da Napoli.
Sul terrazzo da cui era possibile scorgere Capri – e in cui mi trovavo bambino l’11 settembre del 2001, stupito dalle coreografie disegnate dagli aerei di difesa della Nato – gli invitati erano tutti – me compreso – precocemente abbronzati. Cercavo di spiegare a Costanza – un’amica romana che si trovava a Napoli per delle ricerche sul lavoro di cura offerto da donne extracomunitarie – la compattezza e l’omogeneità sociale dello scenario in cui ci trovavamo. Usavo in continuazione l’espressione “falsa coscienza”. Ricordo che parlammo a lungo con un tizio che aveva affittato un orto a Posillipo e appena finito di leggere I Fratelli Tanner di Walser. Verso la fine della serata Costanza disse che a Roma ormai non si parlava che di Napoli per via di un cantante che nella scena ascoltavano tutti: Liberato. Accolsi l’informazione con sufficienza e mi versai da bere.
Quando tornai a casa trovai su Whatsapp il messaggio del caporedattore della rivista per cui scrivevo. Era il link del video di 9 maggio. Lo guardai più volte e gli risposi con un muro di testo. Ero giovane, e per giustificare il fatto che fossi incuriosito da un prodotto commerciale dovevo citare la Teoria esteticadi Adorno e fare lunghi giri di parole. Quel messaggio finì pubblicato la mattina dopo in un articolo che si concentrava più che altro sul “video perfetto” di Francesco Lettieri.
A sette anni di distanza mi risulta più facile parlare degli inizi di Liberato e delle ragioni del suo successo. Il ricorso all’autotune e a vari tipi di distorsioni ed effetti portò alcune delle persone con cui ero solito parlare a inquadrare questo oggetto non-identificato, alieno, come trap – per noi quasi trentenni una musica che potevamo permetterci di non capire. In realtà, della trap Liberato ha molto poco. Si richiama agli scenari working class tipici del genere ma li estetizza e li ripulisce dai contenuti più eversivi e crudi: la criminalità, la povertà, la ricchezza, la periferia, l’odio di classe. Siamo più che altro nel terreno del degrado-chic di certo Garrone (docufilm su Oreste Pipolo eReality), ma anche qui, privato del suo elemento disturbante – manca qualsiasi vibrazione di Unheimlich.
Nel video di Tu t’e scurdat’ ‘e me assistiamo a una scena archetipica: un ragazzino di piazza Mercato, con l’SH blu metallizzato, le tute acetate e i chimiconi, ha una storia con una ragazza della Napoli bene (la casa di lei, dove i due fanno sesso, potrebbe essere quella del mio amico) – ma la relazione è scevra di qualsiasi elemento conflittuale (anche i video successivi, quelli del 2019, che raccontano il resto della storia da due punti di vista diversi – quello altoborghese di lei e quello proletario di lui – non cambiano la sostanza: le loro differenze sono di facciata). Molti dei luoghi ripresi dal video (il Lungomare, Marechiaro), sono del resto quelli di maggior commistione sociale a Napoli: allo Scoglione si ritrovano insieme i ragazzi rimasti incastrati da decenni in un ascensore sociale guasto e i figli di professionisti di Chiaia, i maestri elementari della periferia e i ricercatori universitari di antropologia culturale. Le parole della canzone, una canzone di malamore, rivolta (come quasi ogni pezzo di Liberato) a un tu assente e lontano – quello della domina medioevale –, sono del resto ripetibili da qualsiasi segmento socioculturale: il pacchettino d’erba, il mare, una persona amata – qualsiasi ragazza o ragazzo napoletano tra i quattordici e i trentacinque anni è invitato a identificarsi. Liberato si richiama quindi a un’esperienza collettiva, che in effetti prima di lui era stata raramente raccontata. Tuttavia, la semplificazione e la banalizzazione richiesta da questo tipo di operazione, nonché la sua riproducibilità e la sua viralità, e, in ultima istanza, l’immagine di Napoli che contribuisce a diffondere fuori Napoli (una Napoli priva di conflitti, senza camorra, aperta, disponibile, proteiforme ma accogliente, appunto l’ultimo villaggio pasoliniano ma pure glam), fanno sembrare pertinente la definizione di Liberato che ha mi ha dato un amico in chat: “de Magistris sound”.
Torniamo alla notte tra l’11 e il 12 maggio 2017. Il mio messaggio serotino si concentrava su un punto: prima di Liberato, a Napoli è mancata per molto tempo qualsiasi rappresentazione della vita comune. È questa la definizione che Auerbach dà del realismo: rappresentazione seria del quotidiano. Il racconto recente di Napoli è invece sempre stato un racconto o comico o votato all’estremo (delinquenza, sottoproletario, slum porn). Nessuna traccia di una dimensione media (con le dovute eccezioni: in letteratura, Via Gemito di Starnone; al cinema, e post-Liberato, La mano di Dio di Sorrentino). La borghesia napoletana non è mai stata capace di autorappresentarsi, per anni la sua unica narrazione di riferimento è stata Un posto al sole – che non è la rappresentazione seria di un bel niente. Se si sfoglia la mole spaventosa di romanzi su Napoli, colpisce il proliferare solforoso degli stessi tre o quattro stereotipi ripetuti all’infinito e combinati in vario modo: il femminiello, lo scugnizzo, la bella giornata (ah, il vitalismo mediterraneo, niente di più austriaco), il bon sauvage. La Capria, emigrato a Roma come ogni intellettuale napoletano che si rispetti – vero modello del Jep Gambardella sorrentiniano –, dopo Ferito a morte non è riuscito a scrivere una sola riga che valesse la pena leggere. Giuseppe Montesano, autore di un’interessante trilogia gobrowicziana e che in Di questa vita menzognera aveva anticipato per molti aspetti la Napoli neo-liberista e iper-turistificata dei giorni d’oggi, si è riciclato come (marginale) divulgatore di letteratura. Del resto, il segmento più istruito della popolazione napoletana è da sempre – a mia memoria – legato a una figura particolarmente tipica della città: l’erudito. Questa incapacità di trasformare la cultura in nutrimento, in qualcosa di vivo e non in manutenzione del già detto, di ciò che è trascorso, è intrinsecamente napoletana. Liberato rappresenta in modo palmare un punto di rottura con la tradizione passatista e retrograda della città, rimasta ferma alla trimurti Pino Daniele, Massimo Troisi, Maradona. Liberato è un prodotto commerciale borghese per un pubblico di borghesi. E questo è insieme il limite e la forza dell’intera operazione. Il giovane ceto medio, seppur superficialmente, si sente finalmente raccontato: ha dei pronomi (il tu e l’io dall’alta vestibilità delle canzoni) in cui poter entrare e uscire. Gli stereotipi vengono usati con enorme consapevolezza e rivitalizzati. La tematica amorosa neomelodica è resa universale, non più rivalutata in chiave ironica o percepita come allotria, appartenente a un’altra classe sociale. La street cred di Liberato è di plastica, odora del cellophane in cui è impacchettata, non ha niente a che vedere con la violenza coatta di un disco aspro come El Dorado delle Scimmie (2016). E proprio per questo, per questa sua levigatezza soffice, può essere quella di tutti. Il particolare fa spazio al collettivo. L’elettro-pop dalle movenze dub di Liberato è la colonna sonora di una generazione di napoletani che era rimasta esclusa dai codici mimetici vigenti.
II
Ma qual è la Napoli che fa da sfondo e contenuto ai testi di Liberato? È una Napoli che esiste? Non lo so, non sono la persona giusta a cui chiederlo. Quello che è certo è che è una Napoli così generica e così ricca di coolness, così patinata – che è facilmente esportabile. Come emerge in maniera chiara dall’ultimo album del cantante, è una Napoli mitica, che si estende in uno spazio potenziale tra passato e futuro. Utilizzo una locuzione dal sapore benjaminiano a cui faccio riferimento spesso: arcaismo ultramoderno. Che sia la fontana del Sebeto, l’insegna mobile del Mena Pub, i palazzi popolari di piazza Mercato o una villa nobiliare, tutti i luoghi caratteristici del panorama urbano napoletano vengono come risemantizzati e rivestiti di una particolare allure, adattati a un’estetica agitata, mossa, post-industriale, come reperti fossili illuminati dalla luce al neon di una cella frigorifera.
In questo risiede il reale punto di contatto con Elena Ferrante, che non è l’anonimato ma l’appetibilità. Esattamente come i libri della quadrilogia sono scritti in una prosa paratattica e in un italiano piegato ai regionalismi ma perfettamente comprensibile, in uno stile – come dire – pensato per la traduzione in inglese, le canzoni e i video di Liberato sono intrinsecamente milanesizzabili, fatti per richiamare su di sé un occhio estraneo al suo luogo di produzione e apparentemente escluso da questo. Il meccanismo virale per eccellenza è ben noto: l’esotismo, ma un esotismo 2.0, autocosciente e glitterato, instagrammabile, che mescola vita lenta e cultura urbana, il dialetto e l’inglese. Napoli si fa glocal.
III
Dopo essermi parcheggiato da mia madre per alcuni mesi, in attesa di laurearmi e di vincere un dottorato di ricerca, mi sono trasferito in una città del Nord. Frequentavo poche persone, tutte del mio stesso dipartimento, e mi sentivo intrappolato in un brutto film di Virzì. Quando andavo a qualche festa – evento piuttosto raro – feste date non più in terrazzi eleganti, ma in striminziti appartamenti polverosi e squallidi, il cui costo d’affitto tra l’altro era di poco inferiore alla mia borsa di studio – a queste tipiche feste di universitari trentenni, con bottiglie di vino rosso da quattro euro e la pasta al forno fatta in casa, in cui non ci si drogava né si limonava ma si parlava di transfemminismo, Mark Fisher e Rosi Braidotti –, Liberato era molto ascoltato. Le persone mi si avvicinavano e chiedevano se la pronuncia di questa o quella linea era giusta, se bisognava chiudere di più un dittongo. Facevano commenti entusiasti su Napoli, era la città in cui avrebbero voluto tutti vivere e mi domandavano come mai io mi fossi spostato e avessi studiato fuori. In gran parte provenivano dalla pianura padana o dalla Puglia, qualcuno dal Piemonte, altri dall’estero ma vivevano in Italia da molti anni. Liberato non raccontava la loro vita, questo è chiaro, quella lingua non era la loro lingua – ma in qualche modo era come se avessero voluto che lo fosse. Bastava un piccolo lavoro di fantasia, qualche ricerca su Google, un week-end lungo e anche la loro esperienza finiva per entrare in quelle canzoni. Niente lo vietava, ed è anche giusto fosse così: quello che trovavano riflesso in Liberato era il loro stesso sguardo.
IV
Il passaggio dalla strada, dai casermoni di piazza Mercato a palazzo Reale e Doria d’Angri ha perciò qualcosa di consequenziale. L’estetica ultras, per come è stata trasmessa fin dall’inizio, non poteva che finire in un museo. In Liberato II, uscito il 9 maggio 2022, l’immaginario di Lettieri si confronta con i Borbone, e lo fa richiamandosi a Lanthimos, a Curzio Malaparte e Liliana Cavani, e – immancabilmente – a Garrone, al Racconto dei racconti. La solita situazione di partenza dei testi di Liberato (un amore infelice tra due ragazzi, con la figura maschile in una costante situazione di debolezza e deprivazione) si sposta dallo scenario urbano alla favola. E quando ritorna in una dimensione realistica, come in Nunneover (il dialetto viene anglicizzato anche nella grafia – come già nel bilingue Intostreet) e soprattutto in quello che a detta di chi scrive è il miglior pezzo dell’album, ossia Anna, si scopre improvvisamente adulta. Non ci sono più vicoli, motorini e tuffi al mare ma matrimoni e aeroporti (nell’atlante demagistrisiano di Liberato non poteva mancare Capodichino e il cosmopolitismo; nella mia testa la donna che la voce narrante va a trovare in California sta facendo un post-doc in storia dell’arte sull’opera di Rudolf Arnheimm, legge Bachmann e cura l’alimentazione con un’app), misti a considerazioni morali dal sapore epigrammatico. Un mio amico poeta, altra persona a cui mi sono rivolto per scrivere quest’articolo, mi ha fatto notare che Liberato nell’ultimo album tende a esprimersi per settenari raddoppiati, che nel ripetersi danno un’impressione di stanchezza (“stufano”), il che rende Liberato II una sorta di Barry Lindon napoletano.
V
Poco più di un mese fa a piazza Plebiscito è stato montato un enorme palco per ospitare quattro giorni di messa laica di Liberato. Non sono andato al concerto ma ci sono passato poche ore prima che cominciasse, ho visto la folla che si accalcava, ragazzi e ragazze più giovani e più vecchi di me, lo schieramento della sicurezza, venditori ambulanti che cercavano di piazzare qualche rosa – uno dei simboli ricorrenti nel merch del cantante. In quei giorni ho ospitato diverse persone venute da tutta Italia per assistere al concerto, di cui ho recuperato qualche spezzone su TikTok (soprattutto le lunghe litanie di trash talk). Il caporedattore della rivista per cui tutt’ora collaboro è stato invitato nell’area vip. Doveva essere intervistato per un documentario sull’evento. Mi ha mandato una foto di James Franco che guarda il palco con addosso il berretto James Dean Death Cult.
Tra la Napoli del 2017 e quella del 2023 sembrano passati il doppio degli anni: se si incontrassero non saprebbero di cosa parlare. Eppure i processi che hanno reso la città quella che è oggi erano in atto da diverso tempo. Dal secondo mandato di de Magistris alla pizza gourmet e all’overtourism la vita e le abitudini dei cittadini sono radicalmente cambiate – in peggio, in molti casi; in meglio, in pochi altri. La storia che c’è in mezzo deve essere ancora raccontata. Liberato ne è una delle propaggini simboliche più intense. (fabrizio maria spinelli)
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