Vincenzo, Giacomo, Giovanni, Fabio, Antonio, Enzo, Francesco, Filippo, Giuseppe, Vito… Sono gli operai di ieri, sono gli operai di oggi. Nomi, vite, percorsi, sogni, speranze. Chi erano e chi sono gli uomini del siderurgico di Taranto? «Per l’azienda siamo dei numeretti, sei forza lavoro e basta, non hai dignità, non hai famiglia, non hai un passato, per loro sei solo quel numero che deve fare quella cosa lì da quell’ora a quell’ora», racconta Vincenzo, un giovane operaio della provincia jonica. Come tanti della sua generazione l’Ilva non l’ha scelta, all’Ilva ci si «è ritrovato» dopo il fallimento di altre esperienze lavorative precarie, dopo aver tentato senza successo di emigrare, dopo aver sperimentato l’impossibilità di progettare un futuro in un qualunque modo che non comprendesse il lavoro nella città dell’acciaio, il nome con il quale è spesso definito il siderurgico di Taranto. L’Ilva si estende attualmente in uno spazio che è più grande della città stessa: copre una superficie di quindici kmq, con duecento km di binari ferroviari, cinquanta di strade e centonovanta di nastri trasportatori. È difficile coglierne l’ampiezza solo guardandola, è impossibile da immaginare per chi non la vive, per chi non ci lavora.
L’Ilva fa paura solo a pensarla, fa male a ricordarla. Giuseppe ha ottantaquattro anni, è in pensione da oltre trenta ma la sua memoria dell’ingresso in fabbrica è viva: «Più di cinque minuti nei forni a spinta non potevi resistere, se no là rimanevi, e allora usciva una squadra ed entrava l’altra; insomma, un giorno quasi venivo meno e dicevo: “Io sono venuto qua a morire?”, e allora i colleghi mi davano coraggio e mi dicevano: “Non è sempre cosi, non ti preoccupare, ci siamo passati pure noi”… Vedevo tutti questi reparti ma quando andavo alla cokeria il pane mi sapeva amaro! Perché lì la polveriera… hai presente il borotalco? Così volava, fino fino!»; e quella polvere se la portavano addosso, si attaccava alle tute, alle labbra, agli occhi e penetrava nella pelle, si diffondeva in tutto il corpo e alle volte non andava via neanche con l’acqua al rientro a casa.
Dei suoi primi giorni di lavoro Francesco, operaio dal 2000, mi dice: «Come primo impatto sono rimasto agghiacciato, mi sono chiesto: “Ma dove mi trovo?”, e sinceramente nel primo periodo non sapevo se continuare ad andare a lavoro… Il secondo giorno ho avuto un incubo vero e proprio: mi ritrovo alzato che sbattevo dei pugni contro una serranda, poi viene mia madre: “Che è successo, che non è successo?”, e io sognavo di essere lì dentro e che non trovavo più la via d’uscita e che mi stava accadendo un incidente…».
Paura, pericolo, morte dentro e fuori la fabbrica, ricorrono in ognuna delle storie che ho ascoltato. Non molto è cambiato negli anni. All’Ilva si moriva e si muore per incidente sul lavoro, come nel recente caso di Giacomo Campo, venticinquenne di Roccaforzata (Ta), operaio di una ditta dell’appalto che il 17 settembre scorso ha perso la vita schiacciato da un rullo nell’altoforno 4mentre faceva manutenzione a un nastro trasportatore; o Ciro Moccia, che nel 2013, a quarantadue anni, è morto per il crollo delle passerelle di sicurezza nelle cokerie, solo per citare alcuni degli oltre trenta casi di decessi in Ilva dal ’95 a oggi, e degli innumerevoli decessi di quando l’Ilva era ancora Italsider. Della morte di Ciro, il delegato sindacale lì presente ricorda il dolore straziante dei familiari increduli e attaccati a un’ultima speranza e il peso di non poter fuggire da quel momento come gli altri e chiudere il ricordo fuori dalla porta di casa: «Penso a Ciro, il ragazzo che è caduto dalle batterie; la moglie, tra l’altro, lavorava dentro, nella mensa. Quando arrivano tutti i parenti da fuori, tu sei su in direzione e vedi queste dinamiche, gli altri sanno che c’è il morto ma non lo vedono… per me è una cosa diversa… quando ho visto queste scene della moglie, dei parenti, dei figli che chiedevano: “Ma mio padre?”, perché hanno sempre la speranza che arrivano lì in direzione e…; e poi le grida, le urla, ti lasciano quella cosa che tu non te lo puoi dimenticare per tutta la vita!».
All’Ilva e per l’Ilva si muore per l’inquinamento dell’aria, della terra, dell’acqua, si muore in tutta la città, ma si muore specialmente ai Tamburi, il quartiere “avvelenato” a ridosso dello stabilimento, simbolo dell’eterno dilemma lavoro/salute, o meglio lavoro/vita che dilania la città. Prima, negli anni Cinquanta, la gente ci andava per svagarsi nella natura, per passeggiare e respirare l’aria pulita vicino ai resti dell’acquedotto romano; oggi ai Tamburi ci nasci o ci risiedi, ma non ci vieni. La prima volta ci sono stata con Enzo, un giovane operaio che ci è nato, che lì ha costruito la sua famiglia e che da lì vorrebbe andarsene ma non può. Enzo ha acquistato la sua casa a circa centomila euro una decina d’anni fa e potrebbe rivenderla ora, dopo l’emersione della situazione di disastro ambientale nel 2012, a meno della metà; e con due figli piccoli da mantenere e solo un reddito nella sua famiglia spostarsi diventa davvero impossibile.
Mentre ascolto la sua storia ci fermiamo davanti a una fila di casette di diverse sfumature di rosso, come i colori della “terra del siderurgico”, così sua nonna chiamava la polvere di minerale che si deposita ovunque nel quartiere, e mi racconta: «Avanti ieri sono stato contattato da un prete in zona che mi ha chiesto di fare un’intervista, mentre aspettavo c’era il funerale di un’altra signora del rione, di cinquantaquattro anni, morta di tumore al colon tra la rassegnazione di tutti, perché non si va mai oltre la malattia, l’ultima fase è la morte! Qui – indica un’abitazione – abita mio nipote: sfaldamento del tessuto osseo dell’omero sinistro, dieci anni aveva e ora ne ha venti e per fortuna sta meglio; qui – casa accanto – abitava Ciro, mio coetaneo e cugino di mio nipote: tumore al cervello, morto dopo otto anni di atroci sofferenze; poco più avanti c’è un ex dipendente Ilva che è morto a trentotto anni per un tumore causato da un deposito abusivo di materiale radioattivo sotto il reparto in cui lavorava; il papà invece è morto di tumore, mesotelioma pleurico, che è il tumore classico di chi è stato a stretto contatto con l’amianto… e tutto questo in cinquanta metri!».
All’Ilva si muore anche per l’inquinamento delle menti. Si produce acciaio e si produce morte, morte che viene da fuori e morte da dentro, morte per suicidio. Giuseppe, operaio di Taranto ha le lacrime agli occhi quando mi racconta del suo amico: «Una mattina dovevo andarlo a prendere e lui mi disse: “Non passare che io domani mattina non ci sono”, e lui la mattina alle cinque e un quarto è uscito di casa come se dovesse andare a lavorare, si è vestito, è entrato nel garage, si è messo un cappio al collo e si è impiccato… Quella mattina dovevo andarlo a prendere, ma lui aveva già deciso, aveva lasciato una lettera e la mattina poi ci chiamarono sul reparto e ci dissero: “Guardate che Vincenzo è morto”, e io non ho capito più niente e sono andato via, sono andato a casa sua e la moglie appena mi ha visto ha detto: “Perché non sei venuto a prenderlo?”».
Vincent, poeta operaio, ha iniziato la sua ribellione pubblica attraverso la scrittura proprio dopo il suicidio in fabbrica di un collega: «Questo ragazzo nel 2009, quando è iniziata la crisi mondiale dell’acciaio, è stato sottoposto a mobbing. Come tanti altri, e anche io, eravamo tra l’incudine e il martello, perché l’azienda diceva: “Se vuoi lavorare devi lavorare a queste condizioni, dove ti dico io, nel modo che ti dico io, se no te ne vai a casa, te ne vai in cassa integrazione, tanto c’è tanta altra gente che vuole lavorare”. Lui aveva tre figli piccoli e ha scelto di rimanere a lavoro, ed è stato spostato in un reparto in cui era completamente solo, perché ci sono reparti dove tu lavori in squadre da otto-dieci persone e altri impianti dove sei completamente solo. Noi lavoriamo sui tre turni, e se sei di primo o sei di notte e il collega non viene devi fare dodici ore, e se anche l’altro collega non viene devi fare sedici ore, non puoi lasciare il posto scoperto, e lui si trovava a lavorare anche dodici o sedici ore al giorno da solo; con i problemi che aveva a casa, perché si stava lasciando con la moglie, era entrato in depressione… Aveva chiesto all’azienda di essere spostato perché il conforto, la chiacchiera tra colleghi fa sempre bene. Andò prima dal suo caporeparto, che tra l’altro era anche il nostro, e chiese di essere spostato, ma quello rifiutò, allora lui fece passare tutte le feste di Natale e il 18 gennaio del 2009 arrivò a lavoro di notte, alle undici di sera, venne nello spogliatoio e si cambiò, però fece una cosa strana: gli abiti che aveva addosso non li mise nell’armadietto, li buttò. C’era gente, infatti, che chiese: “Perché li stai buttando?”, e lui: “No, non li voglio più, ho gli altri”; nel pullman non disse una parola, poi quando arrivò nel suo reparto scrisse le consegne, uscì dalla cabina dove lavorava e fece quattro rampe di scale industriali, quelle esterne, quelle d’acciaio, prese la rincorsa e si buttò giù, di fronte a tutti, compresi noi. Quella è stata veramente la goccia che ha fatto traboccare il vaso, almeno per me, nel farmi esporre veramente, senza la paura di metterci la faccia, e non tanto quello, quanto il dopo… Praticamente di notte i capireparto non lavorano, lavorano solo gli operai. Quando è successo il fatto è stato richiamato il caporeparto ed è arrivato con il corpo di Silvano ancora a terra; ebbe il coraggio di dire a quelli che stavano là, compreso me, senza chiamarlo neanche per nome: “Quando tolgono il corpo continuate a fare quello che stavate facendo perché l’impianto deve essere in esercizio per domani mattina alle sette”. Quello è stato veramente il punto fermo da cui io ho incominciato».
Di passiva accettazione del drammatico dilemma vita/lavoro ce n’è tanta nella città dell’acciaio, ma ci sono anche tante, forse più invisibili, forme di lotta, di resistenza e di speranza quotidiana… Vincent non è solo, lui lo fa con la scrittura di ribellione e di denuncia; Enzo combatte la rassegnazione dilagante nella città incanalando la sua rabbia e la sua forza nelle attività di lotta e di sensibilizzazione continua alle questioni ambientali, sanitarie e di sicurezza sul lavoro portate avanti dai comitati cittadini di protesta; Francesco e Fabio s’impegnano nella politica per “pensare di meno all’attività che fanno” e proporre un futuro diverso per Taranto; Giacomo, Giuseppe, Antonio fuggono appena possono dallo stabilimento per andare all’aria aperta a coltivare la terra; Vito ha tentato in tutti i modi di lasciare la fabbrica per aprire un negozio in centro città; Filippo ha rinunciato al maggior guadagno del lavoro su turni per dedicarsi alla pittura e continuare a sentirsi un artista; Giovanni dopo il lavoro frequenta la scuola serale per avere una possibilità in più ed emigrare in cerca di un’occupazione migliore… Ieri come oggi operai nell’anima forse non lo sono stati mai, ma nemmeno numeri. (giovanna rossi)
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