A partire dalla fine degli anni Novanta sono giunte alla ribalta in Argentina numerose organizzazioni politiche e movimenti “di base” che fondano il proprio intervento su iniziativa diretta, autonomia organizzativa, processi decisionali assembleari. Il più rilevante tra questi è sicuramente il movimento dei piqueteros (coloro che fanno i picchetti stradali), nato in risposta a una delle più grosse crisi economiche del paese, e che con gli anni è riuscito a unire in maniera efficace le lotte di lavoratori occupati e disoccupati.
Il 25 di settembre Edoardo Belliboni e Gabriela Victoria De La Rosa sono stati a Napoli per un confronto con il movimento dei disoccupati organizzati 7Novembre. Abbiamo intervistato Edoardo per farci raccontare la storia e le prospettive del movimento piquetero, di cui fa parte come delegato del Polo Obrero.
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«Il movimento nasce tra la fine degli anni Novanta e il Duemila. Siamo in una fase di crisi estrema per l’Argentina, con un tasso di disoccupazione al venti per cento, e con tanti lavoratori in lotta per recuperare i posti di lavoro, molti dei quali erano andati perduti in conseguenza alle politiche di privatizzazione e liberalizzazione nel settore dell’energia, del trasporto pubblico, e tanti altri ancora. Erano gli anni di Menem e di governi liberali che avevano precarizzato una parte consistente del lavoro. È in fondo in reazione a quel processo che nasce il movimento dei piqueteros.
Lottare in quella fase storica, con poco lavoro o in assenza di lavoro, voleva dire però anche organizzare dei luoghi di supporto e condivisione, e così cominciarono a nascere le prime mense popolari, in cui ognuno metteva a disposizione quello che aveva in casa per poter organizzare un pasto comune. In poco tempo il movimento si trovò a riunire in tutto il paese centomila persone.
Fin dalla sua nascita il movimento piquetero si è caratterizzato per una grande eterogeneità, e questo ha permesso la sua diffusione su tutto il territorio. Va tenuto conto che la campagna in Argentina sta diventando sempre più industrializzata, e infatti non rimane molta manodopera nei campi. Ci sono aziende che grazie ai macchinari moderni considerano superfluo il lavoro umano persino nel processo di inseminazione dei campi. Parliamo di quantità enormi di ettari di terra e di lavoratori stagionali o occasionali che vengono assunti solo per il raccolto. Molti dei piccoli contadini, e tantissimi braccianti, sono dovuti andare in città senza avere un lavoro.
Il movimento fa un grande sforzo in termini di connessione e unione, questo non è facile in un paese ampio come l’Argentina. Il 27 di settembre ci sarà una mobilitazione che metterà insieme tutte le organizzazioni del movimento. Si tratta di oltre quaranta organizzazioni che hanno un’ideologia politica differente tra loro, ma che sono tutte unite nella battaglia sul lavoro. Periodicamente ci riuniamo in congressi o plenarie dove i delegati di tutto il paese arrivano nella capitale, e discutono sui piani politici di azione dei mesi successivi. All’ultimo congresso abbiamo contato circa tremila delegati.
Un’organizzazione che mette insieme tante persone deve per forza essere riconosciuta dallo Stato, dai governi che si sono susseguiti in questi vent’anni. Ma le nostre posizioni sono molto rigide, il rapporto con i governi è conflittuale, sappiamo bene che quella è la nostra controparte e veniamo ricevuti soltanto perché scendiamo in massa in piazza, non perché ci sono percorsi programmati e volontà di confronto.
Il movimento è fortemente legato al territorio e alle realtà locali. Ci si organizza tramite assemblee nei quartieri, che eleggono i delegati. Anche le forme di lotta sono decise a livello territoriale, come il blocco stradale, e tutte le altre azioni, l’unico modo che conosciamo per farci sentire e mantenere certi rapporti di forza.
L’approccio del movimento richiama al socialismo, ma non tutte le organizzazioni, e non tutti i membri delle organizzazioni, sono socialisti. Il terreno comune è invece quello della conflittualità, della radicalità nelle misure e nelle lotte. Se nei primi anni del Duemila ci battevamo per tornare ai nostri posti di lavoro, con lo slogan “mai più disoccupati per strada”, oggi è tutto più complesso. Il lavoro è cambiato, politica e impresa tendono a una parcellizzazione totale, che si traduce in precarietà e ricattabilità. Nei giorni scorsi ero in un cantiere, in momenti diversi della giornata ho visto lo stesso operaio manovrare la gru, impiantare un cartello e fare lavoro di documentazione fotografica. Questi compiti tempo fa venivano suddivisi in tre persone, mentre l’unione delle figure professionali fa automaticamente diminuire il lavoro. Non scopriamo niente di nuovo, è il capitalismo che ha bisogno di disoccupati per abbassare il costo del lavoro e aumentare la ricattabilità. Molti dei miei amici, miei coetanei (Edoardo avrà all’incirca sessant’anni, ndr), fanno dei lavori occasionali e temporanei, come vendere alle fiere, e cose del genere. Il lavoro come lo ha conosciuto la mia generazione in gioventù è un lontano ricordo, per tanti.
Noi cerchiamo di tenere all’interno di una lettura complessiva le rivendicazioni legate alla sussistenza: il cibo ai lavoratori, le mense popolari, i programmi sociali per dare un’assicurazione ai disoccupati. Il movimento sostiene tutte le forme di lotta e tutte le rivendicazioni popolari. Per esempio la riappropriazione delle terre, che non è così comune in luoghi come Buenos Aires perché ci sono delle leggi molto rigide, mentre è più diffusa in altri territori. Lavoriamo con i migranti, nel nostro paese siamo ancora nella fase in cui lo straniero è considerato quello che ti ruba il lavoro; lavoriamo contro la violenza di genere e la differenza sessista in termini di salario della donna rispetto a quello dell’uomo.
La forza del movimento la misuri quando il governo è costretto a mettere in atto dei “piani sociali”, che sono molto limitati, ma il dato è che sono costretti ad attivarsi nel tentativo di contenere un movimento così radicale da aver avuto la forza di ribaltare gli esecutivi, come nel 2001. Quello è stato un momento interessante, che culminò in una violenta ribellione e soprattutto vide l’unione della classe media con i lavoratori e con i disoccupati. È molto efficace lo slogan di quegli anni: “Piquete y cacerola, la lucha es una sola”, cioè che la lotta in quella fase era la stessa per i proletari e la classe media. Poi, col tempo, ci hanno odiato da morire, perché il loro è un ragionamento legato al benessere individuale, all’individuo e ai suoi mezzi; per noi invece è fondamentale l’assemblea, il collettivo, il lavoratore che si sente forte perché è parte di una comunità dove gli altri hanno i suoi stessi problemi. Invece i momenti in cui ci troviamo a lottare insieme alla classe media sono quelli in cui vengono attaccati i diritti o i beni del singolo. Quando gli tagliano la luce perché non possono pagare le bollette tutti diventano piqueteros. Il quarantacinque per cento della popolazione argentina è povera, se parliamo di giovani fino ai trent’anni saliamo a sei ragazzi su dieci, più del sessanta per cento della popolazione ha difficoltà a mangiare per tutto il mese. È logico che anche nella classe media ci sia una paura e anche una contraddizione: vuoi la pace sociale ma sai che puoi finire dentro facilmente a questa situazione. A quel punto sai che l’unica soluzione è lottare. Il processo politico è quello di riflessione e comprensione, per mettere alla luce il fatto che bisogna lottare per tutti, e non solo per se stessi». (intervista di riccardo rosa / traduzione di elisabetta candido)
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