Oltre la metà del calendario è ormai occupata da “giornate mondiali”, “europee”, “nazionali”, dedicate alle più svariate tematiche. Solo l’Onu, nel suo calendario delle Giornate Internazionali, ne celebra centoquaranta. Una ipertrofia consumistico/commemorativa che, svuotata di partecipazione sociale e riflessione collettiva, sembra aver perso ogni caratteristica propositiva per istituzionalizzarsi in dichiarazioni, messaggi, convegni e parate, da un lato, e, dall’altro, consumarsi nella produzione di hashtag, post e stories per i social network. Poi, conclusa la giornata, la maggior parte dei contenuti proposti evapora nella bolla della successiva commemorazione.
La salute mentale non fa eccezione. Il 10 ottobre l’Organizzazione mondiale della sanità celebra il World Mental Health Day, quest’anno accompagnato dall’enfatico slogan “La salute mentale è un diritto umano universale”. Già la titolazione sembra tradire un’aspirazione più pubblicistica che teorico/pratica della giornata, laddove, oggi, ci dovremmo forse interrogare sulla reale valenza universalistica e soprattutto sul senso giuridico di quelli che continuiamo a definire diritti umani. Di certo, rivendicare la salute mentale come diritto umano universale mentre guerre, devastazioni ambientali, sindemie, migrazioni, impoverimento di fasce sempre più ampie della popolazione, nuovi e profondi fenomeni di esclusione sociale ed economica, interessano gran parte del mondo abitato, già sembra mettere in scacco la pretesa del titolo. A meno che, contraddicendo lo stesso modello bio-psico-sociale che pure la stessa Oms afferma di adottare, non si voglia estirpare la salute mentale dalle sue determinanti sociali, dal contesto, dai vissuti, dalle relazioni dei singoli con gli altri viventi e con le collettività cui partecipano, dalle questioni di classe, di genere, generazionali, per farne invece una monade bio-chimica da preservare per soggettività isolate, volte prevalentemente alla produzione e al consumo.
Si potrebbe obiettare che quella di diritto universale sia una rivendicazione tesa a definire un orizzonte di senso, ma, pure accettando tale prospettiva, verrebbe da chiedersi quali siano (e chi li avrebbe decisi) i canoni universali (quindi validi ovunque e per chiunque) della salute mentale, se gli stessi perseguano un obiettivo di benessere o di normalizzazione, se non corrano cioè il rischio di produrre essi stessi nuovi processi di etichettamento, patologizzazione, esclusione; quali rapporti abbiano con i più complessivi sistemi sociali in cui sono immersi, quali possano essere le azioni tese ad attualizzare un tale diritto universale.
Nello specifico italiano, mentre ci prepariamo a un’altra ricorrenza, il centenario della nascita di Franco Basaglia (11 marzo 1924), la Giornata Mondiale della Salute Mentale cade, tra proclami e convegni, nel periodo storico in cui si sta concretizzando, nelle politiche e nelle prassi, lo svuotamento del più complessivo diritto alla salute sancito dalla Costituzione e, in particolare della salute mentale, l’affossamento di quella riforma psichiatrica (determinata dalla legge 180 del 1978) che per prima e con maggiore profondità intendeva agire perché il sofferente psichico fosse restituito ai suoi diritti di cittadinanza. Una riforma che ha permesso la chiusura dei manicomi, ancora aperti, invece, in gran parte del mondo, ma che, al contempo, non si è mai completata in modo omogeneo nel paese attraverso la strutturazione di capillari servizi di salute mentale territoriali, aperti sulle ventiquattro ore e capaci di accettare la “sfida del sociale”. Servizi, oggi, per la gran parte, ridotti ad appartati centri per il silenziamento dei sintomi attraverso la prescrizione (spesso incongrua e abusata) di farmaci, con orari da ufficio, in cui è difficile e faticoso lavorare (certamente per la carenza di personale e risorse, ma anche e soprattutto per una cultura aziendalistica che si manifesta innanzitutto nei modelli organizzativi adottati) e ancora più complesso è trovare la presa in carico della propria condizione di sofferenza, l’ascolto e la cura del proprio dolore.
Centri che, sovvertendo l’ordine delle previsioni normative, gravitano intorno ai reparti ospedalieri di diagnosi e cura (Spdc), mai realmente integrati nella più complessiva organizzazione ospedaliera, restando luoghi chiusi, spesso isolati e negletti. Nel tempo, sono diventati anche una sorta di discarica sociale d’emergenza per tutte quelle forme di disagio (innanzitutto giovanile e delle fasce più deboli e povere) che lo smantellamento del welfare e il più complessivo modello sociale non permettono di intercettare nella loro genesi, e anzi moltiplicano e amplificano, sicché, nelle fasi di acuzie, si trasformano in questioni di ordine pubblico, con l’intervento delle forze di polizia e il coinvolgimento (non sempre congruo) dei servizi psichiatrici ospedalieri. E negli Spdc si continuano a contenere persone che ancora muoiono con le braccia e le gambe legate a un letto di un corridoio, come accaduto a Wissem Ben Abdel Latif al San Camillo di Roma il 28 novembre 2021 dopo quasi cento ore di contenzione, o la cui morte sembra essere determinata da lesioni celebrali compatibili con le percosse subite all’interno dell’ospedale, come accaduto a Bruno Modenese il 19 settembre 2023 in un reparto di psichiatria a Venezia.
Anche le esperienze territoriali più virtuose vivono momenti di profonda difficoltà, le azioni di smantellamento prodotte dalle politiche regionali e nazionali si innestano, spesso, su una preesistente situazione di crisi determinata non solo dalle più complessive congiunture storico-sociali, ma pure, a volte, dall’incapacità narcisistica di comprendere i cambiamenti in atto e costruire il futuro. Nel frattempo l’ordine degli psicologi modifica a maggioranza il proprio codice deontologico per introdurre, in contrasto a ogni previsione di legge, alla stessa pratica psicoterapeutica e perfino al buon senso, un trattamento psicologico imposto attraverso l’autorità giudiziaria, uno strumento che si vorrebbe indirizzare soprattutto (ma non solo) ai più giovani quando manchi il consenso delle famiglie (e ci pare un intervento non estraneo ai processi di medicalizzazione che stanno portando la scuola a svolgere il ruolo di un’istituzione diagnostica).
Istituti che pure si pensavano innovativi, come l’amministratore di sostegno, si stanno dimostrando nuovi e pericolosi strumenti di incapacitazione sociale ed economica, con un numero sempre maggiore di persone cui viene negata ogni autonomia decisionale e di vita. Ancora, si susseguono forme di internamento illegittimo, e, se al momento della chiusura dei manicomi erano circa novantamila i ricoverati negli ospedali psichiatrici, oggi, tenendo insieme Rsa per anziani, istituti per persone con disabilità (fisica e psichica), istituti di riabilitazione di varia denominazione, comunità, ecc., sono oltre 350 mila le persone il cui ricovero si risolve in un internamento di fatto. Un nuovo “grande internamento” privo di base giuridica, motivato dalle retoriche che, mescolando cura e custodia, le logiche securitarie e le formulazioni “per il suo bene”, riproducono nelle logiche, nelle prassi e nei dispositivi il manicomio. Così come si riproduce l’istituto asilare in tutti quei luoghi di gabbie e filo spinato destinati ai migranti, nei quali, tra l’altro, si assiste a uno straordinario abuso dell’utilizzo di psicofarmaci.
Una giornata mondiale che lasci inalterato e silenziato questo intreccio di esclusione, sofferenza e guerra che, come ci ha insegnato Sergio Piro, si costruisce nelle quotidianità dei singoli e delle collettività, resta un vacuo esercizio declamatorio, utile, forse, solo a corporazioni professionali in cerca di occasioni per nuove rivendicazioni di potere e di sempre più ampie sfere di intervento. (antonio esposito)
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