Le monde diplomatique, settembre 2023
da: Le monde diplomatique, del settembre 2023
C’è sempre stato un “eccesso di discrezione”, da parte della saggistica italiana, nel narrare le mobilitazioni sociali e politiche sviluppatesi a Napoli e in Campania nel decennio della protesta, a partire dalla metà degli anni Sessanta. Pare quasi che un contesto caratterizzato da una conflittualità diffusa, strutturale, viscerale, non meriti un surplus di analisi, nel momento in cui la dimensione polemologica è stata coscientemente canalizzata “in un orizzonte condiviso di partecipazione politica e trasformazione esistenziale” (p. 9). Insomma, verrebbe da dire: laddove c’è sempre casino, che differenza può fare quando c’era casino in tutta Italia? Approccio miope, nel caso, che fortunatamente trova una non banale sanatoria nell’importante saggio di Luca Rossomando, il quale – nell’annunciare la descrizione dei militanti politici e delle classi popolari a Napoli nei tre lustri dal 1962 al 1976 – fa opera di ingiustificata modestia, dal momento che il lavoro abbraccia un arco temporale ben più ampio e, soprattutto, propone considerazioni che mal si prestano ai confini dei periodi storici.
Le fragili alleanze è a tutti gli effetti un trattato di antropologia storica della città di Napoli e delle sue classi sociali, nell’affidare alle vicende politiche dell’Italia post II Guerra Mondiale la chiave interpretativa dell’enigma continuo di una città prismatica, incombente e insieme sfuggente. Una città monarchica, in primo luogo, che trovava nell’ampio sottoproletariato la massa di manovra delle istanze più reazionarie, in virtù dell’approccio prepolitico per cui ‘il re era buono e ci aiutava, la Repubblica ci toglie il sussidio e ci fa faticare’. Siamo sempre lì, è come se la nobiltà illuminata del circuito della Fonseca Pimentel fosse ogni volta riportata in vita, per essere poi di nuovo uccisa. Da questa evidenza, che produsse nelle due elezioni cardini svoltesi nel 1946 rispettivamente l’85% dei voti cittadini in favore del re e il Pci incapace di superare l’otto per cento, derivano una serie di conseguenze che, anche in questo caso, non possono definirsi come prerogative esclusive della storia di Napoli, ma che qui hanno trovato effettivamente la loro plastica configurazione. Stiamo parlando della sostanziale diffidenza del Pci verso il “proletario precario” – come veniva denominato al tempo – e del continuo tentativo, di contro, da parte della sinistra extraparlamentare, di cercare chiavi di dialogo con quel popolo che viveva di lavori intermittenti o di espedienti, in un precario equilibrio che ogni giorno chiedeva nuovi presupposti. Alla proclamazione della vittoria della repubblica sulla monarchia, la più grande sezione comunista di Napoli, non lo dimentichiamo, fu cinta da assedio da popolani e gente del vicolo, aizzati dai caporioni fascisti, durante ore di scontri che lasciarono sull’asfalto nove morti civili, tutti tra gli assalitori (e nessuno di loro – sia chiaro – merita la nostra compassione), e due militari. Sarebbe servito un altro episodio – idealmente speculare – per trovare un primo dialogo tra comunisti e masse sottoproletarie, allorquando il Pci e l’associazionismo cattolico organizzarono un massiccio trasferimento temporaneo, a più ondate, di ben dodicimila bambini napoletani, provenienti dai ceti popolari e di fatto sottonutriti, presso accoglienti famiglie del centro-nord Italia, per un periodo di rafforzamento della salute. E anche lì, peraltro, solo la testimonianza diretta di una “Masaniello al femminile” (la “Pachiochia”), dall’ampia popolarità, funse da lasciapassare e permise di superare l’iniziale boicottaggio dell’iniziativa, praticato al grido “i comunisti metteranno il veleno nel latte delle nostre creature”.
A Napoli, evidentemente, niente sta dove dovrebbe stare, ma tutto miracolosamente si trova: quel Partito Comunista così chiuso e “introverso” contava nell’ottobre 1944 quarantamila iscritti nel solo capoluogo, con più di cento sezioni aperte, e si poteva “permettere” la scissione di un’intera federazione, quella – famosa – di Montesanto, e addirittura due circoli del cinema alternativi a quello ufficiale, che pure contava cinquecento tesserati. Perché, quando si fa politica, la si fa sempre in maniera totalizzante.
Una tale complessità apre gli anni Sessanta della città e dei suoi dintorni, trovando nel volume di Luca Rossomando – coordinatore delle attività editoriali di Napoli Monitor – un cantore insieme lucido e appassionato, capace di far dialogare tutte le tante variabili in gioco. Si pensi al sindacato, in bilico tra partecipazione al percorso di sviluppo collettivo e coinvolgimento nella produzione di conflitto anti-padronale. Si pensi al carcere, “inevitabile”, “fantastico” e terribile laboratorio di politica, laddove il riformismo è giocoforza bandito, nella continua tensione tra forza e debolezza. Si pensi, ovvio, alla strada, al vicolo, ai baraccati… fossimo in Francia, sarebbero sansculottes, vezzeggiati dagli storiografi, qui erano “teppisti urbani”, che oggi frenano e domani accelerano il progresso verso i diritti, l’emancipazione, la qualità dell’esistenza: si trattava, effettivamente, di una delle tante contraddizioni nella contraddizione di Napoli, una città sempre politicamente “commissariata”, che cerca nel sociale il suo autonomo percorso verso la modernità. Per non essere più una “colonia interna”. Dentro tale cammino, c’è anche questo saggio, costruito intorno a storie sospese tra abisso e riscatto. (luca alteri)