Lo scorso 28 giugno a piazza Unità, nel centro di Trieste, si è svolta una cena particolare. Organizzata da una gioielleria locale, era riservata a possessori di un orologio Rolex e ha comportato la costruzione di una struttura temporanea che ha occupato per alcuni giorni una parte della piazza. L’evento è stato organizzato in seguito all’arresto di alcune persone che nelle settimane precedenti avrebbero commesso a Trieste alcuni furti di orologi di lusso. Mentre si svolgevano gli ultimi preparativi per la cena nella stessa piazza era in corso anche il concentramento della manifestazione che il gruppo locale di Non una di meno aveva indetto per protestare contro la paventata chiusura di due dei quattro consultori presenti in città. Solo poche ore prima la questura di Trieste aveva inviato delle prescrizioni per evitare che i due eventi coincidessero, stabilendo lo spostamento della manifestazione dopo le 19 in una piazza vicina, ma alla fine le persone arrivate in piazza hanno deciso di rimanere nel luogo stabilito in partenza dove nel frattempo erano stati allestiti dei banchetti per spiegare cosa fa un consultorio, portando anche delle idee per ampliare il servizio. Conclusasi portando in piazza lo striscione “Meno Rolex, più sanità”, la manifestazione è stata una tappa di un percorso più ampio tutt’ora in corso.
I consultori sono nati nei primi anni Settanta come spazi autogestiti dal movimento femminista in cui fare informazione, visite, praticare interruzioni di gravidanza (legalizzata solo nel 1978 con la legge 194), ma anche riflettere sul proprio corpo e su come la medicina se ne sia occupata fino a quel momento. La legge 405 del 1975 li ha istituzionalizzati a livello nazionale e nel 1978 la Regione Friuli Venezia Giulia ha recepito le indicazioni con un suo provvedimento. Negli anni seguenti sono state create le nuove strutture comunali. Oggi i quattro consultori di Trieste sono collocati nei quartieri Roiano, Valmaura, San Giacomo e San Giovanni. L’Azienda sanitaria universitaria giuliano-isontina (Asugi), titolare dell’assistenza sanitaria nelle ex province di Trieste e Gorizia, vorrebbe intervenire su questi ultimi due, anche se i termini non sono ancora chiari. L’ultimo atto aziendale (maggio 2022), il documento che indirizza le linee di gestione dell’azienda, non nomina mai i consultori e dedica solo un breve cenno alle loro funzioni.
In un comunicato stampa dello scorso 12 luglio, pubblicato subito dopo un incontro tra il direttore generale dell’Asugi Antonio Poggiana e il Comitato di partecipazione per i consultori famigliari di Trieste, l’Azienda ha dichiarato che “nell’ambito della ristrutturazione aziendale dei consultori, si è ipotizzata l’esistenza di due sedi cittadine (hub), una a Valmaura e l’altra a Roiano, mantenendo e rinforzando le esistenti tre sedi periferiche (spoke) sull’Altipiano [del Carso, NdR]. A queste va aggiunta la sede spoke di San Giovanni che sarà mantenuta e dove rimarrà collocato il Nucleo Funzionale Territoriale per il maltrattamento e abuso ai danni di minori. È ancora in fase di valutazione l’ipotesi di aprire o mantenere delle sedi spoke in alcune aree particolarmente popolose della città a seconda delle necessità. Non ci sarà comunque alcuna riduzione di personale e non saranno smembrate le equipe multiprofessionali”.
Non è facile capire a prima vista che cosa si intenda per hub e spoke, termini dati però per scontati da chi ha scritto il comunicato. Mutuati dal campo ciclistico (hub significa mozzo, mentre spoke vuol dire raggio) questi termini sono stati usati per indicare un modo di gestire il traffico aereo civile tra i diversi aeroporti e in un secondo momento sono stati usati anche nel settore sanitario.
Grazie a un opuscolo preparato dal gruppo triestino di Non una di meno recuperiamo alcuni riferimenti utili a inquadrare il tema. Nella legge regionale del Friuli Venezia Giulia n. 27 del 2018 si capisce che i due tipi di presidi dovrebbero svolgere un’attività integrata e coordinata e che i primi dovrebbero fare da punto di riferimento per i secondi. Un anno dopo, la legge regionale 22 del 2019 conferma il riferimento a questo modello organizzativo e si afferma che “il modello ‘hub and spoke’ favorisce la progressiva specializzazione delle attività nelle sedi dei presidi ospedalieri”. Viene da chiedersi se un’organizzazione dei servizi di questo tipo vada bene per ogni settore dell’assistenza sanitaria. Uno dei pregi dei consultori è la completezza dei servizi ad accesso diretto e gratuito (per esempio: visite specialistiche, informazioni sui metodi contraccettivi, sulla gravidanza, sulle malattie sessualmente trasmissibili e sulla sessualità) che forniscono alla comunità che vive intorno.
La non obbligatorietà del modello proposto dall’Asugi per i consultori sembra emergere anche da un decreto del ministero della salute (n. 70 del 2015) contenente il regolamento per definire gli standard relativi all’assistenza ospedaliera: nel testo il modello “hub and spoke” è evocato in diversi punti e si fa presente che questo è già previsto per “le reti per le quali risulta più appropriato”. Si lascia però la possibilità di scegliere anche altre forme di coordinamento e integrazione su base non gerarchica, suggerendo che un modello del genere non vada bene in ogni ambito sanitario. L’Asugi però sostiene che con due sedi centrali sarebbe più facile ampliare l’orario di apertura, rendendo così più facile l’accesso. Inoltre, l’Azienda sostiene che qualunque modifica rispetterebbe i Lea (Livelli essenziali di assistenza), previsti da un Dpcm del 12 gennaio 2017. Si tratta di indicazioni sulle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale deve fornire, gratuitamente o a fronte del pagamento di un ticket, e dovrebbero essere riviste ogni anno da una commissione.
Sono quasi due anni che l’Asugi lavora per modificare la sua struttura interna: il cambiamento più radicale è stato il dimezzamento dei distretti sanitari di Trieste (da quattro a due) che sembra implicare (anche se non c’è nessuna relazione necessaria) il dimezzamento anche di altri servizi costruiti a Trieste su “base quattro”, come i centri di salute mentale e, appunto, i consultori.
Non una di meno non accetta questa spiegazione e il 13 luglio, tramite un comunicato stampa, accusa l’Azienda di aver cercato di chiudere i consultori “quasi di nascosto” e che solo le mobilitazioni delle ultime settimane avrebbero fatto fallire il piano. Si fa anche notare che, a fronte delle affermazioni dell’Azienda secondo cui non ci sarebbero state riduzioni del personale impiegato, al momento le professioniste (ginecologhe, ostetriche, pediatri, assistenti sociali, ecc.) che vanno in pensione non verrebbero sostituite, limitando così il servizio. In ogni caso, le attiviste ricordano che secondo le indicazioni nazionali (da ultimo il decreto ministeriale n. 77 del 2022) bisognerebbe istituire un consultorio ogni ventimila abitanti (o ogni diecimila nella aree rurali), mentre anche con i quattro attuali si arriva a Trieste a uno ogni circa cinquantamila abitanti. Si chiede poi, tra le altre cose, di avere a disposizione servizi pensati secondo una logica non binaria, di poter ricorrere in libertà all’interruzione volontaria di gravidanza, di avere uno spazio in cui si possa riflettere sulla genitorialità non biologica (con adozioni e affidi) e in cui si presti una maggiore attenzione alla prevenzione degli abusi e delle violenze.
La legge del 1975 ha comportato per il movimento femminista la necessità di confrontarsi con l’ambito istituzionale nella gestione dei consultori: si perdeva la possibilità di gestire in autonomia gli spazi che erano stati creati, ma la legge poteva essere vista come il riconoscimento di alcune istanze portate avanti negli anni precedenti. A distanza di quasi cinquant’anni sembra significativo il bisogno di non limitarsi a difendere i consultori come sono, cercando di portare nuovi contenuti al loro interno. (alessandro stoppoloni)
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