Dal n. 57 di Napoli Monitor
La fuga è un’arte, una necessità oppure un assalto a qualcosa che opprime. Si fugge da contenzioni fisiche o mentali e dopo, in ogni caso, nessun rimorso.
I transfughi scappano dalle rigidità delle definizioni di genere, dalle categorie di identificazione sessuale gerarchiche dettate da una grammatica del sesso omologata. Oggi i transessuali vivono condizioni sociali diverse, non sempre costrette ai margini della società. È una deriva durata decenni (se non secoli), che si prova a raccontare attraverso le parole di transfughi che hanno ormai superato la soglia dei cinquant’anni e continuano a vivere come possono tra il rione Traiano di Napoli e i vicoli della Croce Bianca nel centro storico di Genova. Due luoghi che sono porti di mare prima di essere città.
«Quella bomba che hai dentro, può esplodere da un momento all’altro… a meno che, tu, non sei soltanto omosessuale e allora fai i porci comodi tuoi e nessuno sa niente! Sei fidanzato? Sei sposato? Hai figli? Come la gente che viene con noi a letto… ed è pure una cosa “normale” perché se uno si vuole vivere così la propria omosessualità, e ha moglie e figli… problemi suoi! Io, questo problema, nun ‘o vulev’ tené…». (Michela)
«Arrivavo da Viareggio a Genova vestito da maschietto, poi mi truccavo, mi mettevo una parrucca in testa e facevo il travestito; non ero ancora un transessuale, mi travestivo… Inizialmente lo facevo soltanto per andare con i ragazzi… Poi i ragazzi sono diventati clienti e iniziarono a dire: “Ma non hai seno?”. E allora mi venne l’ambizione di avere il seno, di mantenere i capelli miei in testa e non indossare una parrucca e iniziai a prendere gli ormoni che sviluppavano il seno. E in più, questi ormoni ci rendevano le pelle più liscia, ammorbidivano i capelli, modificavano un po’ la voce… Insomma: ci rendevano più femminili. Era un fai-da-te che andava in direzione di un transessualismo…». (Fabrizio)
«Erano iniezioni di ormoni femminili, che poi ci facevano anche un po’ male a noi, e infatti io poi ho smesso perché mi facevano perdere la voglia sessuale, non mi stimolavo più». (Rina)
«Allora era una cosa nuova, la gente era completamente impreparata a questo tipo di fenomeno. Non esisteva neanche la differenza tra travestito, transessuale… Pian piano si sono delineate le posizioni: c’è l’omosessuale, c’è il travestito, c’è il transessuale, c’è il transessuale operato che è un ulteriore passaggio perché ha documenti da donna, che è il passo definitivo al quale io non ho mai tenuto perché altrimenti ci sarei arrivata… Io mi sento realizzata così e non ho bisogno di andare oltre. Non tutti se la sentono di fare questo passo perché se tu ti fai il seno devi anche far sparire la barba e devi fare tutto un altro tipo di vita. Io vivo sempre così, da quarant’anni. Sui documenti ho le foto da donna ma non mi sono cambiata il nome». (Fabrizio)
«Io l’ho nascosto fino a venti anni. Poi l’esperienza di partire per fare il militare è stata quella che mi ha cambiato la vita. È stato l’unico modo per evadere dalla mia famiglia, che era abbastanza all’antica e certe cose non le capiva. Quando è finito il militare è cominciato il travaglio della mia vita. Da gay ho iniziato a sentirmi donna, a sentirmi quello che ero. Era il boom degli anni Ottanta, dell’eroina e io sono caduta nella droga. Ho fatto vita in strada per diversi anni, altri anni li ho passati in carcere, quasi nove, perché per via che mi drogavo facevo rapine, furti…». (Michela)
I vicoli sono cunicoli urbani scavati tra manufatti umani. Possono opprimere o proteggere, puzzare o odorare, accogliere o respingere. Chi fugge prova ad approdare su isole immaginarie o reali, in spazi marginali che diventano pulsanti. I transfughi non si allontanano mai troppo dal mare.
«Io sono andata via da Napoli che avevo sedici anni perché avevo capito di essere diversa e mi sono ritrovata a Genova. Qui, soprattutto, mi sono piaciuti i vicoli perché mi sono sentita protetta. Quella nostra era come una comunità, lo è ancora per carità. Ma ora è più piccola. Oggi ci sono i trans giovani che sono tutta un’altra storia». (Sara)
«Appena arrivata a Genova ho conosciuto la Morena che era la matrona della zona, la più famosa. Ma ce n’erano tante: la Mara che sembrava la sosia di Mina; poi c’era Stefania la mulatta, molto bella con la pelle olivastra; poi c’era la Romana, la Elena… Erano una più bella di un’altra… Di genovesi ce n’erano poche: chi veniva dalla Puglia, chi dalla Sicilia, chi dalla Campania e chi dalla Toscana… Chi veniva qui, però, arrivava non perché fosse un luogo di ritrovo, seguiva un percorso personale che ci ha fatto giungere tutte, irrimediabilmente, a Genova». (Mary)
«Tu arrivavi in questi vicoli e facevi quello che volevi. Certo, fino a un certo punto… Qui ti sopportavano e ti sopportano». (Rina)
«Anticamente i nostri bassi erano depositi dei marittimi e dei portuali, questo quando c’erano i bordelli. Poi sono entrate le donne e in seguito tutte noi transessuali ce li siamo comprati o affittati, ma la zona è comunque abitata da gente comunissima, persone normali. A noi ci hanno sempre accettato perché non creiamo scandalo, anzi… controlliamo bene la zona perché siamo come delle vedette». (Sara)
«Il basso dove vivo adesso lo comprai da una donna che ci stava dai tempi della guerra. Qui c’erano le donne uscite dai bordelli chiusi dalla Merlin, poi si sono ritirate e siamo subentrate noi. La zona pian piano è diventata nostra e tutte le donne si sono spostate altrove…». (Mary)
«Dicono che qui si chiama il Ghetto Ebraico ma non è più così. Si chiama la Croce Bianca, e siamo proprio al centro tra la Commenda, la Maddalena e via Prè. Ai tempi era proprio stupendo andare in via Pré. La lingua ufficiale era il napoletano, si vendevano le sigarette di contrabbando… Era una corte dei miracoli. Io venivo da una famiglia bene, e non sapevo che quando entri nei vicoli devi dare da mangiare un po’ a tutti: c’era la signora che vendeva la biancheria a diecimila lire al mese, chi prendeva in pegno l’oro, chi vendeva gli alimentari a credito… Era un tu-aiuta-me-che-io-aiuto-a-te ma sempre in maniera legale, sempre bene… Mai cattivi». (Fabrizio)
«Nessuno ci chiedeva cose sporche, fuori mano. Genova è stata sempre un po’ così, forse perché è una città di porto (anche Salerno da dove vengo lo è), ci passava di tutto; certo, anche un po’ di delinquenza, di depravazione ma, in fin dei conti è comprensibile perché quelli che girano sulle navi girano tutto il mondo e sono come dei carcerati del mare e quando scendono a terra qualcosa devono pur farlo… E quindi se tu una cosa non la facevi te la proponevano loro e magari ti offrivano qualcosa di soldi in più e tu finivi con l’imparare un sacco di cose nuove». (Rina)
I fuggiaschi vengono rincorsi, braccati e una volta ripresi rinchiusi nelle gabbie. Attraversare le identità sessuali è costato dolore, umiliazione e tristezza. Travestirsi non è stato mai un pranzo di gala per quelli che nel loro intimo hanno realizzato una rivoluzione. Sentirsi altro da sé, per lungo tempo, è stata pratica illegale, almeno per coloro autorizzati a stabilire i parametri della legalità.
«Io sono Michela e non Maurizio. E sono Michela perché stiamo negli anni Duemila. Tanti anni fa queste cose non ci stavano. Già le persone molto più adulte di me, all’epoca, hanno fatto un bel cammino, un bel travaglio… A quei tempi ci stava quella che si chiamava “buoncostume” che mo non ci sta più. Facevano le retate, ti pigliavano, ti sbattevano in questura e ti facevano uscire la mattina dopo. Mo, a parte me e tante altre come me che sono molto femminili, acqua e sapone, rifatte, eccetera… immagina tante altre con le parrucche in testa, con la barba in faccia ricresciuta: poveri cristi quando uscivano la mattina! Era una cosa proprio negativa uscire la mattina da dentro una questura: ognuno che ti guarda, che ride, che ti insulta: “Ma chi è quello? Da che pianeta viene?”». (Michela)
«Abbiamo preso tante e tante di quelle manganellate. Una volta ci hanno inseguito in via del Campo e sono scappata in via Prè con non so quanti poliziotti in borghese che avevo dietro. Mi sono infilata in un vicolo cieco, mi hanno preso e mi hanno dato tante di quelle botte che sono svenuta. Allora si sono spaventati e quella sera mi hanno lasciato perdere perché hanno avuto paura di quello che avevano fatto… Altrimenti mi avrebbero portato in guardina, sequestrato la parrucca e tutto il resto. La mattina dopo ti facevano uscire conciato come un clown e dovevi prendere l’autobus. Non ti facevano neanche chiamare un taxi, dicevano: “Arrangiati! Vai fuori…”. Era una polizia molto fascista. Poi è cambiato. Adesso la polizia passa e chiede: “Come va? Come non va? C’è lavoro? Non c’è?”». (Susanna)
Ogni momento arrivavano da noi, ci prendevano e ci portavano. Poi ci dovevano condannare ma per che cosa? Per i capelli lunghi? Per il seno? Alla fine si sono stancati e anche la legge è cambiata, nel ’71 o ’72 hanno eliminato quei reati del codice Rocco, il codice fascista… La prima volta mi fecero la diffida dal rimanere a Genova. Poi mi hanno ripreso che stavo in albergo a via Pré e mi stavo buttando dalla finestra per scappare ma non ce l’ho fatta. Ero con altre due amiche e ci siamo fatte due mesi di galera per una diffida… In carcere mi trattavano bene, non c’erano ancora le sezioni speciali dove i trans li mettono insieme ai pedofili e agli stupratori. Mi ricordo una volta a Marassi, il carcere di Genova, sono andata in infermeria perchè avevo mal di gola. Mi fecero passare per tutti i corridoi… Perché al tempo ci mettevano al “transito”, dove c’erano poche celle, e per andare in infermeria dovevo passare davanti a tutte le celle dei carcerati: le sigarette che ho avuto! Io che non fumavo mi sono guadagnata più di cento sigarette. Dicevano: “Brigadiere voglio vedere soltanto le zizze della guagliottola… Per piacere”, e allora io mi alzavo la maglia e quelli mi tiravano le sigarette. Pacchetti interi. Quel giorno non so quante sigarette mi sono guadagnata…». (Rina)
Durante la fuga si stringono amicizie, si fondano amori, si viene abbandonati e si usa il proprio corpo per sbarcare il lunario. I transfughi sono stati obbligati a essere oggetto di desiderio sessuale, oggetto di frustrazione, di curiosità morbosa priva di rispetto. Eppure, in qualche modo, la dignità ha prevalso, è stata un pilastro su cui si è edificato un equilibrio individuale che ha permesso un riposizionamento radicale del terzo genere.
«L’uomo che viene da noi sembra quasi, come si può dire? A volte gli stessi che prevaricano le donne vengono da noi per essere prevaricati. Cioè da noi vengono molti che hanno un rapporto maso più che sado». (Fabrizio)
«Chi viene con noi non è maschio puro, per come la vedo io. Il ragazzo che gli piace stare con noi ti bacia, ti tocca, ti fa… ma non è un vero maschio. Il vero maschio non viene con i trans, che poi io ci credo poco al fatto che esiste il vero maschio. Di maschi veri non ce ne sono. Ancora di più oggi che agli uomini piace andare con tutto: la donna, il trans…». (Rina)
«Negli anni Sessanta il cliente era un po’ più curioso. C’era quello che veniva per ignoranza e curiosità, per fare qualcosa che magari una donna non glielo faceva. Invece oggi la tipologia è cambiata, il cliente che viene con noi vuole il transessuale o il travestito. E lo vuole efficiente dal punto di vista sessuale… Quelli che vengono e non ti conoscono ti chiedono: “Sei anche attivo?”. Perché la maggior parte vuole provare sensazioni che con una donna non può ottenere…». (Susanna)
«Molta della mia clientela è di lungo corso, come i comandanti delle navi. Ritornano perché si ricordano di quando eri carina, bella, fresca, e così si ricordano anche di quando erano giovani loro, quando avevano trenta, quaranta anni e mo li vedo a sessanta, settanta anni… Io, per la verità, preferisco andare con i vecchi e non con i giovani, perché a un vecchio posso spillarci i soldi un po’ come voglio io, lo posso accontentare e comando io. I giovani, invece, hanno delle pretese e non li sopporto… sono fast food». (Rina)
«Negli anni Sessanta o Settanta i clienti che venivano da te non sapevi mai se li facevi da uomo o li facevi da donna… Mi sono capitati clienti, magari stranieri, che mi sono schizzati su dal letto quando hanno capito che non ero donna… Una volta un giapponese quando ha capito ha preso il televisore e lo ha scaraventato nel muro!». (Fabrizio)
La pelle cede, gli innesti artificiali traballano, i peli ricrescono nel deserto della depilazione, il sex appeal diventa inorganico. La solitudine scompare in una quotidianità abbarbicata a poche certezze: si diventa matrona, zia, non più scherzo di natura o oggetto sessuale. I fuggiaschi terminano la fuga, sono liberi di essere quel che vogliono, le finestre dei bassi restano aperte, le luci accese, la vergogna (se mai c’è stata) scompare.
Il terzo genere vive la senilità sviluppando un orgoglio sereno di aver vinto la guerra dopo troppe battaglie. La fuga è finita. Si resta dove si è arrivati. La Croce Bianca genovese è sempre un groviglio di carrugi illuminati dalle luci rosse dei bassi, al Rione Traiano di Napoli Michela ospita, nel giardino di una costruzione fatiscente, una piccionaia popolata da cento colombi metropolitani. Mary se n’è andata abbandonando tutti al proprio destino. I transfughi che hanno appena iniziato la propria fuga hanno rotte segnate sulle mappe. Percorsi puntellati da narrazioni che si è provato a salvare dall’oblio. (-ma)
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