Sebbene non ancora concluso, quest’anno segna per il mondo penitenziario il dato più alto da tredici anni a questa parte di detenuti che si sono tolti la vita: ben settantasette suicidi, tra cui cinque donne. Secondo i dati dell’associazione Antigone, il tasso di suicidi è, per le persone ristrette, venti volte più alto che per la popolazione libera.
Un carcere sovraffollato, in cui la pena si sconta per venti ore su ventiquattro in cella con altre persone (a volte in camere con dodici presenze), in cui le attività terminano alle 18.00, nel quale le figure sociali (educatori, psicologi, volontari, insegnanti) sono in numeri risibili in proporzione alla popolazione detenuta, è un contesto che mortifica ogni senso di umanità, indipendentemente dallo sforzo e dall’impegno dei singoli.
Quanto più aumenta la popolazione detenuta, tanto più peggiorano le condizioni di detenzione e aumenta la possibilità di quelli che in linguaggio tecnico si chiamano “eventi critici”. Secondo i dati del rapporto di Antigone 2022 “negli ultimi cinque anni osserviamo un costante crescita dell’autolesionismo che nel 2020 arriva a contare 11.315 episodi”. È il segno di una crisi che, pur tenendo conto delle biografie e delle storie dei singoli, ognuna delle quali ha la sua unicità, dovrebbe portare a interrogarci e analizzare il contesto complessivo in cui queste morti sono avvenute. Torna dunque molto utile il lavoro di Luca Sterchele, Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario (Meltemi, 2021) che, con una ricerca sul campo in tre istituti di pena e interviste a operatori e reclusi, offre un’analisi interessante di come il sapere medico-psichiatrico operi all’interno del campo di forze del sistema penitenziario.
Nell’articolato e denso lavoro di Sterchele centrale è l’analisi della “questione psichiatrica” che l’autore scompone in tre “blocchi” di indagine. Il primo interrogativo è se, come affermato da molti operatori, la riforma, che ha portato alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e alla apertura di REMS e articolazioni psichiatriche negli istituti di pena, abbia “costretto” il carcere a divenire “un nuovo manicomio”. Questa tesi, scrive Sterchele, sembra “non reggere molto di fronte ai dati disponibili: il sistema complessivo delle misure di sicurezza pare avere in carico un numero di soggetti piuttosto elevato, che sommando i ricoverati in Rems (circa seicento) con quelli in lista d’attesa per entrarvi (circa trecento) raggiunge cifre molto simili a quelle delle presenze in Opg negli ultimi anni della sua esistenza. Considerando inoltre la cospicua quota di soggetti presi in carico a livello territoriale […] l’ipotesi di un fallimento totale della legge 81, che avrebbe scaricato sul carcere i “pazienti” degli Opg, sembra nel complesso poco sostenibile”.
Il secondo blocco di indagine si concentra “sulle dimensioni di salute che interessano le soggettività recluse all’interno dell’istituzione penitenziaria” e può essere a sua volta scomposto in due considerazioni. La prima è che entrano in carcere persone già dallo stato di salute compromesso, in particolare per l’impossibilità ad accedere al servizio sanitario territoriale. Il secondo punto, suggerisce Sterchele, è che è la condizione detentiva stessa, per come funziona il sistema penitenziario, a creare uno stato di malessere che si aggiunge alla condizione iniziale di vulnerabilità. La detenzione, lungi da consentire una presa in carico del paziente, aggiunge sofferenza a sofferenza, di fatto replicando quei meccanismi manicomiali che la riforma degli Opg si proponeva di superare.
Il terzo blocco di indagine riguarda la costruzione della “etichetta di psichiatrico” che appare “il frutto della riconfigurazione, in termini medici, di una categoria il cui carattere è perlopiù disciplinare, che non apre all’indagine degli stati di salute, ma che orienta la messa in atto di strategie di intervento appositamente calibrate su delle dimensioni di intemperanza comportamentale, alle quali risulta difficile attribuire un senso sulla base degli schemi culturali consolidati tra gli operatori che lavorano all’interno dell’istituzione”.
Questo interrogarsi sulla categoria di “psichiatrico” nel mondo penitenziario, e il sottolinearne la sua ambiguità, non nega certo la sofferenza psichica di chi si ritrova ristretto, ma mostra come l’insieme dei detenuti individuati come “psichiatrici” si venga a determinare “in maniera parzialmente autonoma rispetto a quello dei soggetti che vivono ed eventualmente manifestano condizioni di disagio o malessere”. In altre parole, prosegue l’autore, le definizioni di “psichiatrico” e “sofferente” rispondono a una esigenza che mira a “delineare ed elaborare strategie di gestione e governo di un fenomeno che vede una profonda ibridazione tra gli elementi disciplinari che regolano la vita quotidiana dell’istituzione e le istanze di nominazione e normazione che – pur richiamandosi ad un linguaggio medico-psichiatrico – si configurano come diretta emanazione delle finalità di ordine e sicurezza proprie del penitenziario”.
In altri termini, potremmo dire che l’utilizzo della categoria psichiatrica è il modo in cui un complesso universo di sofferenze, che viene prodotto da più cause nonché dal carcere stesso, viene ricondotto a un unico problema, la cui soluzione è quasi esclusivamente farmacologica. Questo consente all’istituzione e ai suoi operatori di evitare di interrogarsi sulle cause profonde di queste dinamiche.
La psichiatria penitenziaria, dunque, sarebbe riconducibile più alla vecchia psichiatria manicomiale, chiamata a garantire ordine e sicurezza, che ai servizi territoriali di salute mentale chiamati alla cura e alla inclusione. Una riflessione, questa sulla “questione psichiatrica” che è, nel lavoro di Sterchele, strettamente connessa a ciò che l’autore definisce “gli usi sociali del farmaco in carcere”, ovvero la complessa triangolazione e gioco di forze tra medici, detenuti e personale penitenziario che fa si che la somministrazione dei farmaci (benzodiazepine, calmanti, tranquillanti) sia regolata in un equilibrio continuo di negoziazioni. Se da un lato, infatti, i farmaci sono indispensabili per superare le ore di vuoto e angoscia che genera la reclusione, dall’altro i medici devono contenere i rischi dati dalla dipendenza dai farmaci, dai loro effetti tossici e che si crei un mercato “sommerso” in cui pillole e valium diventino merce di scambio.
Le conclusioni cui l’autore arriva sono “radicali”. Emerge con chiarezza la centralità della contro-idea abolizionista: “Messi di fronte alla persistente inadeguatezza e inefficacia del carcere, oltre che agli effetti disabilizzanti che questo continuamente produce sulla popolazione che rinchiude, ci si trova di fronte alla possibilità di forzare quel realismo carcerario che rappresenta il penitenziario come unica soluzione al problema della criminalità e del conflitto normativo”. Liberarsi dunque dalla necessità del carcere, “pur consapevoli dell’esistenza di criticità che rendono forse immatura una praxis abolizionista radicale”, ma al tempo stesso considerando spinte che arrivano “dai femminismi, dai movimenti anti-razzisti, dai disability rights movements, che mantengono viva l’immaginazione verso un orizzonte abolizionista il quale, se certamente non è ancora prossimo, potrebbe un giorno diventare quantomeno futuribile, evolvendosi in un costante dialogo tra pratiche garantiste e visioni abolizioniste”.
Finisce qui un libro che dimostra come l’osservazione partecipata e la ricerca sul campo forniscano indispensabili elementi di analisi e di riflessione politica (si veda anche l‘ottimo lavoro di Valeria Verdolini), la cui chiarezza d’orizzonte però non ci solleva dagli interrogativi dell’agire presente. Che fare dunque, per mutare questa sofferenza qui e ora, sapendo che il carcere è un luogo capace di vanificare gli effetti della pur migliore riforma? Le risposte possibili sono molte, a noi piace ricordare questa che diede Sergio Piro rispondendo agli studenti che gli chiedevano del futuro sulla riforma dei servizi di salute mentale: “Considerazioni tristi e pessimismo grave. Eppure, quel movimento non è mai morto, come non sono mai morti gli ideali di eguaglianza, giustizia e libertà. Bisogna attivamente sopravvivere alla restaurazione andando avanti nel processo trasformazionale e nel lavoro intellettuale che vi è connesso. Senza fine”. (dario stefano dell’aquila)
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