Sarà presentato domenica 30 ottobre alle ore 18:00 al Cap – Centro Autogestito Piperno (viale Adriano, 60) Le fragili alleanze. Militanti politici e classi popolari a Napoli (1962-1976), di Luca Rossomando.
Il libro racconta la stagione di alleanze, solidarietà e conflitti sviluppatasi a Napoli tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, sulla spinta dei mutamenti e delle mobilitazioni che investono nello stesso periodo l’Italia e il mondo; un percorso capace di incrinare le barriere sociali allora esistenti, avviato da studenti e intellettuali per poi espandersi verso strati sociali fino a quel momento estranei a esperienze autonome di organizzazione sindacale e politica.
A Soccavo parleremo in particolare dell’evolversi delle lotte per il lavoro a Napoli a partire dai primi anni Settanta. Parteciperanno all’incontro gli esponenti del Movimento Disoccupati 7 Novembre.
Pubblichiamo a seguire un estratto del libro, dal capitolo dedicato alla nascita del movimento dei disoccupati a Napoli nei mesi successivi all’epidemia di colera.
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Le avvisaglie dei disoccupati organizzati, secondo Pietro Basso [1], si possono rintracciare in una serie di eventi che si verificano nei primi anni Settanta nell’area metropolitana di Napoli. Il primo è la rivolta di Castellammare di Stabia del 3 novembre ’71, quando decine di disoccupati, che si riuniscono da giorni davanti al municipio per reclamare il pagamento integrale dei cantieri-scuola, vengono brutalmente caricati dalla polizia. Comincia così una guerriglia che andrà avanti per ore, con scontri per le strade che coinvolgono, oltre ai disoccupati, anche militanti dei gruppi di sinistra, mentre operai dell’Avis e dei cantieri navali sopraggiungono a fine turno, nonostante il parere contrario dei dirigenti del Pci locale. La rivolta si esaurisce in serata con il bilancio di alcuni fermi e decine di denunce [2].
Un altro episodio si verifica ad Acerra nel maggio ’74, quando alcune decine di disoccupati legati al gruppo marxista-leninista Fronte Unito occupano lo stabilimento Montedison in costruzione, aprendo una vertenza con il Comune e con l’Ufficio del lavoro. Due mesi dopo i disoccupati in piazza sono diventati centinaia. La Cgil li sostiene, ma quando il sindacato firma l’accordo per l’assunzione secondo l’ordine stabilito dal collocamento, i disoccupati prendono le distanze. L’avviamento al lavoro, sostengono, lo faranno basandosi su una lista di circa trecento persone stilata da loro stessi, secondo criteri che tengono conto del bisogno e che privilegiano chi ha partecipato alla lotta fin dal principio. Nella lista ci sono operai licenziati da piccole fabbriche, braccianti, edili, studenti, ma anche persone senza mestiere o che esercitano attività illegali. Questa strana miscela di “analfabeti, semi-scolarizzati e forza-lavoro intellettuale” – secondo Basso – anticipa la composizione sociale dei disoccupati organizzati facendo emergere il dualismo tra “lista di lotta” e lista del collocamento. Di fronte al rifiuto delle loro richieste opposto dalla controparte, i disoccupati acerrani passano alle vie di fatto: assaltano il municipio, l’ufficio postale, il collocamento e arrivano ad assediare il commissariato locale per liberare quattro manifestanti, riuscendo infine a ottenere dalla direzione dell’azienda il riconoscimento della lista compilata da loro stessi.
Gli eventi decisivi si verificano però nei mesi che seguono l’epidemia di colera a Napoli, quando le proteste per la mancanza di lavoro e le richieste di un risanamento igienico della città acquistano forme più consapevoli e organizzate, combinandosi con le lotte contro il carovita, lo sciopero dei fitti e soprattutto con la campagna per l’autoriduzione delle tariffe elettriche, che tra il settembre ’74 e il febbraio ’75, sulla spinta dei sindacati torinesi, si diffonde in tutta Italia e solo a Napoli coinvolge circa sessantamila persone (e diecimila in provincia), grazie all’impegno di alcuni consigli di fabbrica e dei militanti di base nei quartieri popolari. L’obiettivo non è solo raccogliere il maggior numero di bollette da ridurre della metà (o da pagare otto lire al kilowatt), ma costruire un programma di rivendicazioni a medio termine che coinvolga oltre ai consigli di fabbrica e di zona anche comitati di abitanti, scuole popolari, centri sanitari autogestiti e altri organismi di quartiere [3].
Al gran numero di napoletani senza lavoro o con un impiego precario e non dichiarato (nel ’73 sono circa centoventimila gli iscritti al collocamento di Napoli e provincia, un quarto della popolazione attiva), se ne aggiungono di nuovi in seguito alle decisioni prese dalle amministrazioni locali per fronteggiare l’epidemia di colera, che colpiscono in particolare gli ambulanti e gli allevatori di mitili. Nel giro di poche settimane si aggiungono a questi gli espulsi dai settori più colpiti dall’emergenza, a cominciare da quello turistico-alberghiero.
Le imputazioni rivolte ai presunti untori si ritorcono però rapidamente verso chi muove le accuse. Si moltiplicano infatti le proteste di piazza, gli scontri con la polizia, i blocchi stradali capeggiati da donne e giovani disoccupati, mentre nelle assemblee di quartiere vengono formulate le prime richieste collettive, tra cui quella di un sussidio immediato per tutti i soggetti colpiti dal divieto di esercitare attività commerciali.
Le proteste inducono l’amministrazione regionale a varare, nell’ottobre ’73, duecentoquaranta cantieri straordinari con l’obiettivo di ripulire la rete fognaria della città. In questo modo si fornisce un impiego provvisorio a circa cinquemila persone, una sorta di sussidio mascherato che non basterà però a far calare la tensione. I cantieri, infatti, durano appena sei mesi. Allo scopo di sollecitarne il rinnovo, i “cantieristi” si riuniscono a manifestare davanti alle sedi delle autorità competenti. Hanno eletto un delegato per ogni cantiere e un direttivo di nove persone con la possibilità di revoca immediata da parte dell’assemblea. Nell’aprile ’74 viene concessa la proroga dei cantieri. Sui volantini compare per la prima volta lo slogan: “No all’assistenza, sì a un lavoro stabile e sicuro [4]”. I disoccupati chiedono alle autorità di andare oltre i cantieri e di essere impiegati stabilmente in opere socialmente utili. Alla fine del ’74, scaduta la proroga ed essendo la maggior parte dei cantieristi di nuovo “a spasso”, si organizzano in comitati per ottenere che il lavoro continui.
Nell’autunno del ’74 il governo centrale e quello regionale istituiscono corsi di formazione professionale per circa 1.200 disoccupati napoletani e per altri 1.800 nella regione. I disoccupati frequentano corsi di qualificazione (se hanno la licenza elementare) e di perfezionamento (se hanno la licenza media) e ricevono una paga di tremila lire al giorno con l’obbligo di frequenza. I corsi durano sei mesi. Anche in questo caso si elegge un delegato per corso e cominciano le agitazioni con la richiesta di un impiego stabile e sicuro. Nell’aprile ’75 i “corsisti” occupano la sede della Cisl, poi per alcuni giorni si insediano nell’Ufficio provinciale del lavoro. In entrambi i casi vengono sgomberati con la forza, ci sono contusi e fermi di polizia. In vista delle elezioni amministrative di giugno, i corsi vengono prorogati per altri sei mesi.
Negli ultimi mesi del ’74, in un comitato di quartiere del centro storico, in vico Cinquesanti, sorto per iniziativa di alcuni militanti del PCd’I-Nuova Unità, cominciano a organizzarsi coloro che daranno vita al primo nucleo dei disoccupati organizzati. La lista stilata dal comitato comprende i senza lavoro del quartiere San Lorenzo, cui si aggiungono molti dei disoccupati che ogni mattina stazionano poco distante da lì, sotto gli uffici del collocamento in via Duomo. La lista si allunga fino a comprendere settecento persone, le stesse che tra marzo e aprile del ’75, a pochi mesi dalle elezioni, manifesteranno quasi ogni giorno per le vie del centro cittadino. Quel che chiedono è riassunto in una piattaforma in quattro punti: un posto di lavoro stabile e sicuro; corsi di formazione finalizzati al lavoro; l’assistenza sanitaria gratuita estesa a tutto il nucleo familiare; e, in mancanza del lavoro, un sussidio pari all’80% del salario operaio. Quest’ultima rivendicazione resterà a lungo in secondo piano, incontrando la netta avversione dei sindacati, e poi del Pci, che temono si possa andare oltre la semplice critica alla gestione del collocamento.
Fin dall’inizio, infatti, le proteste dei disoccupati mettono in discussione la regolarità delle procedure di collocamento, e in ultima analisi il collocamento stesso, la sua funzione reale, quella di censire la forza-lavoro piuttosto che di avviare le persone al lavoro. La riforma varata con la legge 300 del ’70 aveva istituito, al posto del collocatore unico, una commissione composta da sindacati e organizzazioni datoriali, senza intaccare però la sostanziale discrezionalità di scelta in capo a imprenditori e politici. I disoccupati chiedono di abolire le chiamate nominali con le quali vengono eluse le graduatorie ufficiali ed esprimono la volontà di gestire autonomamente i posti di lavoro di volta in volta disponibili. Il passo successivo – o almeno il tentativo operato dal movimento nella sua fase matura – sarà quello di “creare” i posti di lavoro, cioè di indurre, attraverso la lotta, aziende private e istituzioni pubbliche a metterne a disposizione di nuovi.
Nonostante un programma che mette in primo piano il rifiuto della precarietà e dell’insicurezza economica, e quindi il raggiungimento di una condizione che accomuni i disoccupati a tutti gli altri salariati, il movimento finirà per spingersi al di là delle sue prime rivendicazioni. Il rifiuto della ricerca solitaria del posto di lavoro, in una città governata dal sistema clientelare democristiano e investita in pieno dalla crisi economica, assumerà ben presto sfumature “eversive” agli occhi delle istituzioni. La battaglia sindacale si farà lotta politica e il movimento, organizzandosi a sua volta come istituzione, agirà di fatto come un potere alternativo.
È importante sottolineare che il movimento – scrivono i disoccupati [5] – non è nato spontaneamente ma per volontà di un gruppo di persone che hanno fatto un’analisi della situazione e hanno iniziato il lavoro con delle idee chiare in testa. È importante capire questo perché c’è stato qualcuno che si è entusiasmato per la “spontaneità del movimento”. Questi non hanno capito niente, perché senza una testa il movimento dei disoccupati organizzati non sarebbe nato e, poi, non sarebbe cresciuto tanto. Anzi, proprio questa volta c’è stata una direzione politica chiara e precisa rispetto alle lotte che si erano fatte in passato a Napoli.
Il 16 maggio ’75, un mese prima delle elezioni, i disoccupati di vico Cinquesanti (l’unico comitato esistente in quel momento) hanno in programma un incontro con il presidente democristiano della Regione, che però disdice l’appuntamento. Si recano allora a occupare la torre biologica del vecchio Policlinico e ne discendono solo quando gli si fa credere che il presidente ha deciso di incontrarli. Scoperto l’inganno, si dirigono – in circa duecento – verso gli uffici dell’Anagrafe in piazza Dante, dove sono depositate le schede elettorali. La polizia si introduce nei locali passando per una chiesa adiacente e sgombera i disoccupati con violente cariche. In strada sfrecciano le jeep della polizia che conducono i fermati in questura. Una di queste, di cui l’autista ha perso il controllo, travolge un pensionato dei vigili del fuoco, Gennaro Costantino, all’altezza dello Spirito Santo. Costantino morirà poco dopo all’ospedale Pellegrini.
Il giorno successivo, circa duemila tra studenti e disoccupati, si dirigono in corteo alla Camera del lavoro, spingendo il sindacato a proclamare uno sciopero provinciale di tre ore per il 20 maggio. Quel giorno scendono in piazza circa trentamila persone, e per la prima volta i disoccupati – compresi corsisti e cantieristi – con gli operai delle piccole e grandi fabbriche del napoletano. Da quel momento i disoccupati saranno presenti a tutte le più importanti iniziative sindacali, indicando esplicitamente negli operai dell’industria i loro principali alleati. In un’assemblea di fabbrica, qualche giorno dopo, un disoccupato si esprime così: “Noi disoccupati organizzati siamo decisi a continuare la nostra lotta con gli operai, con i sindacati, con i partiti democratici disposti ad appoggiarci. Noi non siamo disposti a essere usati come arma di ricatto per voi operai. Sappiamo che voi lottate contro gli straordinari, i doppi turni, contro la mobilità. Dall’interno della fabbrica ci vengono notizie di posti di lavoro disponibili, altri ci vogliono far credere che non ci sono. Noi gireremo ancora per le strade di Napoli con un programma ben preciso: andare dagli operai occupati per propagandare la nostra lotta [6]”.
Le elezioni amministrative del 15 giugno ’75 danno alla sinistra una stretta maggioranza in consiglio comunale. I democristiani perdono quattro punti rispetto alle politiche del ’72 e si attestano al 28%, mentre il Pci raggiunge il 32% e diventa il primo partito della città. A settembre, dopo il fallito tentativo di formare una giunta da parte del repubblicano Galasso, il consiglio comunale elegge il comunista Valenzi sindaco di Napoli, alla guida di una giunta minoritaria con Psi e Pdup, che si sostiene con il voto favorevole al bilancio di quattordici consiglieri democristiani. Gli altri undici consiglieri Dc, che fanno riferimento alla famiglia Gava, non daranno il loro appoggio alla giunta.
Poco dopo le elezioni, a fine giugno, si tiene a Roma un incontro tra governo e sindacati per discutere della “vertenza Campania”, un piano di sostegno all’economia regionale di cui si parla da anni ma che stenta a trovare sbocchi. Duemila persone arrivano in pullman da Napoli: insieme a cantieristi e corsisti, ci sono i lavoratori delle multinazionali Angus, General Instruments e Merrell che rischiano il licenziamento per la delocalizzazione degli impianti. La sera, dopo il corteo per le vie della capitale, i pullman ripartono vuoti: disoccupati e operai si accampano davanti alla sede del ministero per il Mezzogiorno, finché il ministro Andreotti non annuncia lo stanziamento di 257 miliardi per interventi straordinari, 125 per l’ordinario e 20 miliardi di una legge speciale per Napoli. Il governo si impegna a sbloccare entro sei mesi un insieme di lavori pubblici che dovrebbero dare occupazione a circa diecimila persone. Già in autunno, però, i sindacati denunceranno il mancato rispetto degli accordi.
Le promesse del governo, invece di smorzare la carica dei disoccupati napoletani ne moltiplicano il numero e l’intraprendenza. Nel corso dell’estate nuove liste si sommano a quella di vico Cinquesanti e vengono consegnate in prefettura. A metà luglio, l’incontro istituzionale per dare seguito agli accordi di Roma viene supportato in piazza del Plebiscito da migliaia di disoccupati che scandiscono canti e slogan fino a sera.
Nuovi comitati sorgono in tutti i quartieri, e in provincia a Portici, Ercolano, Pomigliano, Castellammare, Torre Annunziata. A Secondigliano la lista 01 conta circa millecinquecento persone. Partendo dai settecento di vico Cinquesanti, il movimento coinvolge in pochi mesi più di diecimila disoccupati. Si formano però anche liste di dubbia natura, che non sono l’esito di un percorso di lotta ma una semplice compilazione di nomi, che si affidano alla mediazione di esponenti politici per risolvere le proprie tribolazioni lavorative. Alcune di queste liste sono organizzate da esponenti del Pri e della Dc, e nasce anche una lista – la 19 – capeggiata da elementi missini. Per evitare divisioni, a fine agosto il comitato Cinquesanti convoca riunioni tra tutte le liste. Uno dei requisiti per partecipare è l’espulsione dalle proprie fila degli iscritti al Msi. Nell’affrontare i casi più ambigui, anche in seguito, i disoccupati organizzati sceglieranno di dialogare direttamente con la base, proponendo la collaborazione su questioni concrete in modo da tagliare fuori esponenti di partiti e sindacati. Nasce così un coordinamento di una dozzina di liste in cui ogni comitato è rappresentato da un delegato eletto dagli iscritti.
A settembre il movimento torna in strada e tutti gli enti interessati dall’accordo sottoscritto a Roma diventano meta dei cortei. A fine mese i settecento di vico Cinquesanti vengono avviati al lavoro in ventisei cantieri per il restauro dei monumenti. La durata dei contratti, finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno, oscilla tra i dodici e i quindici mesi. A conti fatti sarà questa l’unica applicazione concreta dell’accordo-quadro siglato nel giugno precedente con il governo.
[1] Basso P., Disoccupati e Stato. Il movimento dei disoccupati organizzati di Napoli (1975-1981), FrancoAngeli, Milano, 1981, pp. 14-15.
[2] “Castellammare di Stabia: analisi di una rivolta”, Inchiesta n. 5, anno II, inverno 1972, pp. 21-25.
[3] Aa. Vv., Autoriduzione. Cronache e riflessioni di una lotta operaia e popolare, settembre/dicembre 1974, Sapere edizioni, Milano-Roma, 1975.
[4] Massa S., Raffa M., Napoli: il movimento dei disoccupati organizzati, Centro di documentazione di Napoli, 15 novembre 1975, p. 4.
[5] Comitato Disoccupati Organizzati, ‘O lavoro. L’esperienza e la lotta dei Disoccupati Organizzati di Napoli, Edizioni Cultura Operaia, Napoli, 1976, p. 18.
[6] Quotidiano dei lavoratori, 24/5/1975, citato in Massa S., Raffa M., cit., 1975, pp. 10-11.
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