Dal numero 8 (maggio 2022) de Lo stato delle città
I binari terminali della metropolitana linea 1 sono uno spartiacque: Piscinola da una parte, Scampia dall’altra. Periferia nord di Napoli. È un primo pomeriggio di inizio primavera, nella piazza di Piscinola – il “fosso” che ha dato il nome al gruppo rap dei Fuossera – si aggirano pochi passanti, qualcuno stanzia fuori all’unico bar aperto, il silenzio cede terreno di tanto in tanto alla marmitta grave di un mezzo trecento. Incontro O’Iank nel suo magazzino, una rivendita di abbigliamento sportivo con insegna fluorescente. La sua musica è una concreta testimonianza che il rap può essere ancora strumento di racconto, dal potenziale tanto più esplosivo se sintonizzato all’unisono sia con le voci di dentro che con quelle di fuori. Evitando da un lato la deriva ombelicale del rap più oltranzista e dall’altro il compiacimento superficiale di quello più commerciale, O’Iank fa in modo che i suoi pezzi arrivino all’ascoltatore potenti e diretti, senza girare intorno alle cose eppure mai semplificando. Ci racconta quello che vede e quello che sente, gestendo senza fatica apparente l’eterno conflitto tra senso e suono. Nei suoi brani è custodita una lingua sempre a rischio di evaporazione, un gergo che spesso dura il tempo di una generazione. L’aderenza alle cose – figlia della sua continua presenza in un quartiere-mondo e del sapere bene cosa è il lavoro – non esclude uno sguardo capace di salpare verso nuovi orizzonti: certe immagini puzzano di zolfo, fanno venire – alla lettera – un colpo al cuore. Dopo aver sostituito insieme un led rotto, chiudiamo la porta e senza troppi convenevoli Gianni comincia a raccontarsi.
«Sono nato nel rione Sanità, mia mamma era del vico Fonseca. Era il 1981, poi dopo due anni ci trasferimmo qui a Piscinola, perché la casa dove abitavamo era stata parecchio danneggiata dal terremoto dell’ottanta. Le case del centro antico avevano ancora le putrelle di legno, le chiancarelle avevano ceduto, mia mamma non ce la fece più, la casa era enorme, almeno da come me la raccontano i miei fratelli, io non ho nessun ricordo di quella casa, nemmeno un’immagine, ricordo solo il palazzo. I miei nonni restarono lì, mio nonno Giovanni – da cui prendo il nome e la testa pelata – morì nel ’95, rimase mia zia (l’unica sorella di mia madre), ogni anno almeno un natale o una pasqua la passavamo lì. Quindi in qualche modo il quartiere l’ho vissuto durante l’infanzia, ma il posto dove sono cresciuto è questo. Siamo sbarcati qui perché mio padre era proprio di Piscinola, lui abitava in quello che chiamano ‘o capo ‘e coppe, in una corte, pensa che non avevano il bagno in casa, era una di quelle vecchie masserie della Napoli rurale.
«Noi abitavamo fore ‘a via nova, a trecento metri da qui. Nel negozio qui affianco c’è mio padre col suo biliardo, adesso è poco più di un circoletto per anziani, però prima era enorme, prendeva il locale dove siamo adesso, quello suo più quello affianco: era pieno di videogiochi, biliardini, videopoker. Nel soppalco qui sopra giocavano a carte “pesante”, si sono giocati pure le case, ho visto chiavi delle macchine posate sui tavoli, cose da brividi. Mi davano pure le mazzette quando gli andavo a prendere il caffè, cinquemila lire alla volta. Alla fine sono cresciuto qua in mezzo. Il biliardo lo teneva già il nonno, il padre di mio padre. Lo chiamavano Vicienzo ‘o guardiano, perché faceva il custode sui cantieri, il soprannome poi l’ha ereditato anche mio padre. Invece il nonno di mio padre era considerato proprio il guappo del paese – all’epoca qui non era ancora un vero e proprio quartiere –, lui accendeva le luci pubbliche con la fiamma, chi faceva questo mestiere conosceva i fatti di tutti, perché andava girando. Si dice che sbrogliava le questioni con la mazza! Morì nell’86, di lui ricordo poco e niente, però mi ricordo una cosa, stava nel letto, in punto di morte, chiese a mia mamma se poteva restare un attimo da solo col guaglione. Rimasi da solo con lui, mi ricordo ancora la stanza, il letto. Mi disse: “Nu juorno ‘o bigliardo t’ ‘o piglie tu”. Io non sono mai voluto stare qua dentro, invece mio fratello Enzo, buonanima, l’ho perso l’anno scorso, aveva quarantotto anni, lui è sempre stato qui, dava una mano dietro al bancone, era presente.
«Nel ’92 poi ci siamo spostati a Mugnano, perché mio padre teneva un palazzo che chiamavamo ‘a fraveca, perché non era mai finito. Quando finalmente i lavori furono conclusi ci spostammo, soprattutto perché la casa era più grande, noi eravamo in sei, tre fratelli maschi, mia sorella e loro due. Mio fratello mi portava a scuola in macchina, sarà stato l’ultimo anno delle medie, da Mugnano a Piscinola, quando uscivo passavo al biliardo e ritornavamo a casa. Non mi fermavo che pochi minuti, per questo quando il nonno mi disse quella cosa mi pareva assurda. Non mi piaceva. Sì, ci passavo del tempo perché c’erano anche i miei compagni, ma non riuscivo a immaginarmi come biscazziere, anche perché ho visto mia mamma che ha sofferto per tanti anni, mio padre tornava tardissimo la notte. I primi videopoker che hanno messo in giro stavano in posti come questo. Ci buttavano le lire. Ricordo che ogni fine settimana veniva il distributore, ci chiudevamo dentro e contavamo i soldi che uscivano dalle macchinette – ce n’erano una dozzina – poggiati sul biliardo all’italiana che era molto grande, da regolamento. Io contavo le mille lire perché ero il più piccolo. A fine anni Novanta tenevo quindici-sedici anni, era il periodo del Mumu (un locale del centro storico, ndr), delle prime feste hip hop, io scendevo con le mappate di mille lire addosso. Pagavo l’ingresso e i drink con quelle. Ci dava da mangiare, eppure non ci sono mai voluto stare lì dentro».
‘Sta musica è ‘o spuorco d’ ‘o cemento, ‘a puzza d’ ‘a galera
‘O chianto e chi se sperde e nuota dint’ a’ merda
Mo è guerra aperta e ‘a gente è sorda
E crede solo a ‘sta strunzata ca state tutte chine ‘e sorde.
UN FRATELLO
Nel rione lo chiamavano ‘o Rap. Nell’86 entrò in un negozio di dischi sul corso Secondigliano e disse: voglio un disco rap! Chi sa da dove gli venne, in quegli anni poi! Il commesso gli disse tengo questo: era Raising hell dei Run Dmc, una pietra miliare. Poi quel vinile non si è più ritrovato in casa. Io quando avevo otto o nove anni adoravo giocare con quel disco, lo mettevo sul piatto, posizionavo la puntina e facevo dei rudimentali scratch. Fratm s’incazzava perché diceva che glielo scippavo. Usciva anche a fare i graffiti (degli sfregi strani!) con un nostro cugino che era amico di Biz – andavano all’Isef insieme nella Mostra d’Oltremare. Biz giocava anche a pallacanestro nel dopolavoro ferroviario di Campi Flegrei, lì cominciavano a vedersi skaters, writers, mc’s, in quella che allora chiamavamo “la mensa”. Erano bei tempi, l’inizio di tutto, c’era una certa purezza. Quindi mio cugino si caricava un po’ di gente appresso e uscivano a fare i pezzi. Mi contagiarono, potevo avere undici anni. Io e un mio amico comprammo le prime bombolette e andammo a fare delle scritte. La prima che facemmo era “LESION”, non so come ci venne in capa, forse volevamo fare qualcosa in inglese, ma non so neanche se poi questa parola significhi qualcosa davvero (ride). Quelli che facevano i graffiti all’epoca erano davvero pochi (Zemi, Polo, Sha1, Biz, Parni). Uno dei pezzi più grandi che vidi all’epoca era a Scampia, lo fece Ultra. Ricordo una volta che si doveva fare una jam all’ippodromo di Agnano, si doveva pittare su dei pannelli, ci doveva essere la musica, ma venne a piovere e non si fece nulla. Ci rifugiammo sotto agli spalti – lì lo conobbi la prima volta –, cacciava dallo zaino questi album grandi come quelli dei matrimoni, ma pieni di bozzetti, foto dei treni… Restammo lì almeno cinque ore, sembrava che non stavi facendo nulla, invece apprendevi, crescevi, si trasmettevano saperi.
«All’inizio non sapevamo un cazzo, facevamo le scritte ma senza capire il contesto, vedevamo questi che si vestivano in una maniera differente, usavano gli skate… Nell’area nord c’erano veramente poche persone così, Tonino e Luca (Co’sang, ndr), Sonic nella 167, Dubbio, la buonanima di Alessandro Rost (‘o Lion), poi piano piano colleghi i pezzi e capisci che c’è pure la musica, la breakdance, il djing… Molti frequentavano piazza Vanvitelli. Eravamo affamati di “posti hip hop”, volevamo confrontarci, parlare con altri che avevano la stessa passione. Questo tiene di bello il movimento, che ci ha sempre aggregato alle persone. All’epoca non c’era internet e se volevi scoprire una cosa dovevi andartela a cercare. C’erano le fanzine, è vero, ma poi cercavi proprio il contatto fisico, volevi parlare, vedere i writer in faccia al muro come facevano una outline, come facevano lo sfondo, le sfumature…
LA MUSICA
Le medie e le superiori le ho fatte a Piscinola, tranne il primo anno che andai a Miano, pensa che la scuola stava in una fabbrica di scarpe abbandonata, la “uccisi” di tag! Lì non c’era nemmeno un writer. Dopo un mese già facevo parte del comitato studentesco perché ero l’unico a saper fare gli striscioni. Era un professionale del commercio, lo occupammo, io tenevo quattordici anni, ero un criaturo. Sarei voluto andare all’istituto d’arte dove stavate voi, mi sembrava naturale quell’indirizzo per uno che fa i graffiti. Mio padre non volle, diceva che era lontano, la metro ancora non era stata aperta. Se ci ripenso… Se avessi fatto una scuola superiore in un ambiente più aperto, con te e tutti gli altri, avrei preso meglio la scuola. Qui invece dovevo fare i conti – che cazzo me ne fotteva? –, l’ho fatta schiattato in corpo, mi sono fatto bocciare due volte. Alla fine mi sono diplomato a venti anni, non so neanche io come. Non mi piaceva proprio, io tenevo la capata dell’hip hop, volevo stare in mezzo all’arte. Però lì ebbi il primo approccio con la musica, perché quando eravamo in terza arrivò un ragazzo nuovo, Marco, era bassista, teneva un gruppo punk-hardcore. Mi convinse ad andare alle prove. A volte loro portavano degli ottimi quattro/quarti. Gli dissi che si sarebbe pure potuto rappare su quel tipo di batteria, ma lo dissi così, non perché volevo farlo io. Avevano già uno che cantava, e ci provò pure a mettere sopra delle rime, però non aveva l’approccio specifico del rap, mentre io lo tenevo ma ancora non lo sapevo (ne ascoltavo moltissimo ovviamente). Mi chiesero di scrivere qualcosa, io all’epoca non sapevo nemmeno contare le misure: era appena una mezza strofa. Lo feci, e da lì nacque questo gruppone, che via via si evolveva. Si chiamava Sko (significava South coast qualcosa… non ricordo bene), menai dentro pure dj Fresella, facemmo una demo con tutti i pezzi. Eravamo tutti ragazzi della periferia nord di Napoli, di Marianella, Mugnano, Giugliano (lì facevamo le prove). Ci fecero registrare una merda, ultimamente ho provato persino a sistemare un po’ l’audio ma non c’era proprio la base, era come voler fare il ragù senza avere la passata di pomodoro. Poi il bassista andò in Germania, sono successe varie cose e nella parte finale io avevo già fondato i Fuossera.
«Con Funny 96 che faceva i graffiti con me insistevo che volevo fare il rap, lui per indole non se la sentiva di salire sopra un palco, perché, ricordiamolo questo, se volevi fare rap in quegli anni dovevi necessariamente affrontare il palco, non come ora che puoi registrare i pezzi a casa e buttarli online. Vuoi fare il rap? Ok, ci sono due strade: o ti butti nel cerchio a fare freestyle con tutti gli altri, o devi salire su un palco. Ciccio (Sir Fernandez) invece subito si convinse perché anche lui amava l’hip hop, dipingeva pure lui. All’inizio il nome era La Fossera, teneva l’articolo, eravamo chiaramente influenzati da La Famiglia. Funny 96 disse: fallo in napoletano, mettici la U, il senso era “l’era del fosso”, cioè la piazza di Piscinola, quindi divenne “l’era d’’o fuoss’”, suonava pure meglio. Poi togliemmo pure l’articolo, ma se vai a vedere le locandine delle prime jam c’era ancora. Peppe già lo conoscevamo, sempre per via dei graffiti, lui abitava nel Don Guanella. Lui all’epoca stava con la Periferia Nord, insieme a Cesare ‘a Tragedia. Quando nel ’98 organizzammo una jam con Polo nel quartiere, fuori al parcheggio della metropolitana, noi ancora non avevamo fatto nulla. Facemmo dei pezzi per l’occasione, perché ci volevamo esibire, era casa nostra cazzo! Nacque tutto dalla voglia di aggregazione, volevamo vedere gente che rappava, dipingeva, ballava. In quel momento gli unici che avevano già fatto un disco erano Speaker Cenzou (Il bambino cattivo), i 13 Bastardi (Troppo, Ep) e il Clan Vesuvio, tutto il resto se volevi ascoltarli dovevi andare alle jam. Facemmo questo live, peccato che nessuno lo ha filmato, ricordo che ci venne a sentire Enzo Avitabile».
Stongo ancora mmiez’ a’ ‘sti mamme
Senza diente mmocca e cu e piedi nire
Reddito ‘e cittadinanza
‘E panne d’ ‘a chiesa e tre fatiche a niro
Je stongo ancora mmiez’ a ‘sti pate
Cu ‘e facce stanche, rutte dint’ e rine.
E nun me chiederе je po’ addo vengo
Si te rispongo, chiovе fango
E nun me chiedere, je mo che tengo
Si te rispongo, ‘o foglio è bianco
E nun me chieder chi se pente
Si te rispongo, ride e chiagne
E nun me dicere ca ‘o rrap è muorto
Si te rispongo, dice: “È risorto”.
«Noi nel quartiere all’inizio eravamo considerati ‘e sciemi, col pantalone largo ti dicevano minimo che ti era scesa la ‘uallera, d’estate che ti si era allagata la casa, perché indossavamo lo short, rigorosamente sotto il ginocchio. Poi piano piano hanno iniziato a capire quello che stavamo facendo, ma c’è n’è voluto di tempo. Quando uscì il primo disco dei Fuossera erano già passati dieci anni, era il 2007. Ci tenevamo a uscire con qualcosa di qualità. Alla fine siamo soddisfatti di quel lavoro, nonostante sia stato registrato in un appartamento di Scampia. Lì montammo per i microfoni una cabina di legno. La casa era di un amico di Luché, pagavamo pochissimo di affitto, tenevamo una stanza noi e una Luca che ci viveva proprio. Anche io per dei periodi non tornavo proprio a casa. Era di fronte al Baku, vedevamo certe scene dal balcone… Facemmo tutto il disco lì e poi trovammo questa etichetta milanese, First Class Music, che già aveva fatto delle cose, producevano Chief e Reverendo (quello dei Pooglia Tribe). Andammo a Milano a firmare il contratto, ma non era altro che una licenza di stampa e distribuzione. A Milano fecero il master, ci pagarono viaggio, vitto e alloggio, siamo stati lì un paio di settimane per promuovere il disco nelle radio, qualche televisione. C’era un minimo di attenzione ma niente di che, non era ancora esploso il rap ai livelli di oggi. Però eravamo contenti. Facemmo un po’ di date: Milano, Bologna, Roma, ovviamente a Napoli suonavamo molto di più. Ci muovevamo con i Co’Sang, avevamo fatto dei pezzi insieme: Penzieri pesanti, Poesia cruda. Stavamo sempre assieme, condividevamo quella casa, era naturale muoversi in paranza. Intendevamo il rap di strada come una presa diretta sul mondo circostante».
‘O cranio e ‘a vocca, ‘o sviluppo è simultaneo
sta ‘int’ all’aria, ‘o pigliamm’ e scattamm’ n’istantanea
calma e smanje, damm’ ‘e mmane, niente è immaginario
te porto a sperdere, ‘o riest è marginale
LA SIGNORA ESPOSITO
Anche mia mamma non c’è più. Gli ultimi sette anni della sua vita, una volta scoperta la malattia, sono stati davvero infami, però in qualche modo ci hanno preparato alla possibilità della perdita. Ho scritto un pezzo inedito su di lei, tengo pure la base, ma non sono mai riuscito a registrarlo, perché ogni volta che ci provo mi viene qualcosa, una sensazione che mi frena. Si chiama La signora Esposito. Era il suo cognome, ma è anche il cognome di tante altre donne qui, per questo ho cercato di scriverlo in modo che vi si possa rispecchiare ogni donna napoletana. Quando ho avuto la notizia della sua morte ero al mio terzo giorno di lavoro da operaio dell’Alenia. Il proprietario della fabbrica era Lettieri, candidato a sindaco di Napoli. Quando andammo a suonare per la chiusura della campagna elettorale del suo avversario, nello stabilimento si venne subito a sapere. Tempo dieci giorni e mi convocano per dirmi che non mi avrebbero rinnovato il contratto. Tramite un amico (anche lui del giro hip hop) riuscii a farmi riassumere da un’altra azienda dell’indotto. Rientrai quindi con un’altra divisa addosso, quando mi videro quelli della vecchia ditta fecero certe facce! Lavorai un altro anno e mezzo. Mi piaceva costruire gli aerei, ma è un lavoro che t’ammazza, turni assurdi, mi dovevo svegliare alle quattro di mattina. Il turno migliore era quello notturno, dalle dieci alle sei di mattina: dopo tre-quattro ore di riposo almeno potevo vivere.
Il disco solista lo stavo facendo già nel 2012, dopo l’uscita di Sotto i riflettori (secondo album dei Fuossera, ndr). In mezzo mille casini, ma in fondo è la storia dei gruppi musicali, sempre un po’ complicata. Alla fine è uscito nel 2021, ma c’è anche un pezzo del 2012, L’altra parte di me, con Alessio Arena. Era un pezzo che nasceva per parlare di Napoli, ma poi è venuto fuori con un taglio più personale, intimo. Lui scrive molto in metafora, resta al confine tra i significati, è il fratellastro di un caro amico, una famiglia di musicisti. Quando ascoltai per la prima volta un suo pezzo dissi: “È proprio forte ‘sta tipa, chi è?” (ride). Restai folgorato, era in spagnolo, con una chitarra meravigliosa. Una sera lo andai a sentire in una vecchia cappella, c’erano trenta persone, cantava senza microfono, uno spettacolo incredibile, ti faceva venire il freddo addosso. Mi chiedo com’è possibile che un talento del genere deve avere un pubblico così ridotto. La risposta un po’ la conosco. Anche a noi, per anni, ci hanno ripetuto che raccontavamo solo problemi, tanto che il dubbio che ci eravamo presi troppo sul serio ce l’hanno messo in testa. Parlavamo di razzismo, di sud, di discriminazione, descriviamo il nostro paesaggio insomma. È evidente che noi napoletani siamo i neri d’Italia, quelli vessati, insultati (siamo un aggettivo, ha scritto Luché in un suo brano). Certo, nel racconto non dobbiamo porci limiti, però ripensandoci era necessario, è la storia della nostra vita».
So’ figlio ‘e nu sistema ca nun m’ha crisciuto
Suffitte, case abbandunate senza luce
Aggio astrignuto mane ca so’ diventate armate
Nun è capodanno, è ‘o compleanno ‘e chi sta carcerato
(intervista di cyop&kaf)
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