da: Carovana Solidale per Lavrio
Nelle prime settimane di dicembre 2021 la Carovana Solidale per Lavrio è arrivata a destinazione: i campi profughi autogestiti di Lavrio. Qui da molti anni richiedenti asilo, rifugiati e rifugiati curdi (e non solo) si sono organizzati secondo i principi del confederalismo democratico, continuando ad accogliere quante e quanti attraversano la frontiera. L’autogestione completa dei campi permette di vivere attivamente la propria permanenza in Grecia, porta a est dell’Unione Europea: spezzando la logica della governance migratoria, del sistema dei campi di confinamento statali e dell’accoglienza, il campo di Lavrio è un’esperienza rivoluzionaria nel suo essere comunità, nel suo essere spazio di lotta politica e di confronto, e non ultimo per la sua capacità di stravolgere il concetto di “accoglienza”.
In queste pagine cercheremo di restituire la nostra esperienza, raccontando quello spazio di autogoverno, speranza e lotta. Da parte nostra non ci può essere una comprensione complessiva di uno spazio che esiste da moltissimi anni, e in cui abbiamo passato poco più di dieci giorni. La nostra intenzione è quindi riflettere, e trasmettere, la nostra esperienza di solidali. Per fare ciò abbiamo deciso di suddividere il nostro racconto in più sezioni, ciascuna curata da diverse compagne. In questo primo pezzo racconteremo il nostro arrivo a Lavrio, cercando di offrire una ricognizione storica e geografica dei campi e del contesto.
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L’autobus si lascia alle spalle le brulle colline dell’Attica mentre si apre di fronte a noi un cielo di dicembre terso, azzurro intenso, e il mare a valle ne riflette la luce. Lentamente e faticosamente la corriera si avvicina al centro di Lavrio e lentamente scorrono sulla collina alla nostra destra le rovine delle industrie minerarie che avevano dominato il paesaggio e la vita dei suoi abitanti.
Oggi Lavrio è una piccola cittadina post-industriale che ha puntato tutto sulla valorizzazione della propria marina e sulla capacità di attrarre visitatori e turisti da Atene, a circa sessanta chilometri e poco più di un’ora di macchina, ma la sua storia è incisa nei secoli. In un passato remoto è stata la più grande miniera d’argento dell’età classica, dove più di ventimila schiavi estraevano il metallo che aveva reso fiorente la città e la democrazia di Atene, mentre fino a pochi decenni fa è stata una delle sedi più importanti della moderna industria mineraria greca, e dove fin dall’Ottocento i capitali stranieri e locali avevano attratto lavoratori immigrati da tutta la Grecia, a estrarre piombo, manganese e cadmio. I loro residui ancora oggi impregnano il suo suolo e le sue coste, le sue scogliere, le sue spiagge nere, oltre cui si elevano a pochi chilometri le ciminiere di un’imponente centrale elettrica.
Nel breve tragitto tra la fermata della corriera e il campo passiamo a fianco al monumento ai minatori, e lì lo incontreremo ogni giorno, a pochi metri dal suo ingresso.
Il campo è lì, giusto dietro alla marina, ai suoi porticcioli, ai suoi bar e locali alla moda, a venti metri dalla strada principale, a pochi passi dal monumento ai minatori e dal municipio. Ed è lì perché è lì da oltre sessant’anni. Ed è lì perché il campo, perché è così che tutti lo chiamano, non è un campo.
Quando attraversiamo il cancello ci ritroviamo in un’ampia corte interna circondata da edifici in muratura. Alla nostra sinistra l’edificio principale, un blocco di cemento razionalista di tre piani, alla nostra destra un edificio più basso, ma non meno tagliente nelle forme. Nella corte c’è poi un altro edificio a un piano e una serie di moduli abitativi container.
Ma, nonostante l’architettura, è un campo: il Campo di soggiorno temporaneo per richiedenti asilo stranieri di Lavrio, il primo campo profughi costruito nel paese, a solo due anni dalla fine della guerra, nel 1947, per ospitare i rifugiati in fuga dal blocco orientale. Gestito per decenni dalla Croce Rossa Ellenica e passando sotto la competenza di quattro diversi ministeri fino al 2016, quando è passato sotto il controllo del Ministero per le politiche migratorie. Sarà quest’ultimo a decretarne la chiusura, nel 2017, tagliando i fondi e portando di conseguenza, il 31 luglio 2017, il personale della Croce Rossa ad abbandonare il campo.
Ma il campo di Lavrio è ancora lì e continua a ospitare chi fugge da est.
Stando a quanto è scritto nei loro documenti, ospita iraniani, siriani, iracheni, turchi, ma sono bandiere rosse, verdi e gialle che vediamo danzare appese dai balconi mentre entriamo nella corte, ed è il volto dipinto di un uomo baffuto che ci saluta da una parete alla fine della corte. E c’è una scritta, in grande, sul muro a fianco al cancello: Biji Kurdistan.
Incontriamo Zerdest fin dai primi minuti passati a Lavrio. Assieme ad altri hevalen è venuto a prenderci alla fermata dell’autobus, e fino a quando non saremo ripartiti continuerà a essere la nostra guida e punto di riferimento. Non parla però una parola di inglese o di greco, e nessuno tra noi parla una parola di curdo o di turco, ma sa usare con una naturalezza che invidieremo per giorni Google Translate. Nel tragitto tra la fermata e il campo, impariamo così a usare, in pochi minuti, la funzione “conversazione”, la cui voce ci accompagnerà dall’alba al tramonto per i giorni successivi.
Attraversata la corte, dove tra bambini incuriositi e adulti che passeggiano il nostro arrivo non passa inosservato, arriviamo nell’edificio principale. In questo edificio all’apparenza solido ma in gravi condizioni strutturali, abita la maggior parte degli abitanti, concentrate nelle stanze collocate tra il primo e il secondo piano, che in passato hanno ospitato fino a trecento persone, in camerate familiari o divise per sesso nel caso dei single, nelle quali sono collocati fino a otto materassi disposti su letti a castello. A fianco a questo complesso un ultimo edificio, costruito nei primi del Novecento, ospita un numero minore di richiedenti asilo e rifugiati, nel luogo dove per molti anni erano ospitate soprattutto persone di origine afghana; in una sezione separata della stessa palazzina risiedono alcuni uffici della polizia locale, dal basso profilo ma dall’evidente funzione di sorveglianza.
Nell’atrio, da un lato un murale enorme ricorda le martiri delle Ypj (Unità di difesa delle donne) e di altre cadute nella resistenza contro Daesh, dall’altro un altro murale celebra la Comune di Parigi. Superato questo entriamo in un’ampia sala: è il caffè del centro. Ci sediamo ai tavolini mentre ci viene offerto il primo çay della giornata. Tra di noi c’è chi si sforza di comunicare, trafficando ancora goffamente sul proprio smartphone, e chi invece rimane soverchiata da ciò che ci circonda. Il bar è completamente decorato dai simboli e dalle bandiere del PKK, dalle foto dei suoi martiri, dalle foto dei suoi fondatori, e del suo leader, Abdullah Öcalan, ma anche di differenti icone dei movimenti comunisti e socialisti di tutto il mondo. Ci mettiamo un po’ ad abituarci. C’è chi è più rapida e chi meno, eppure presto dobbiamo fare i conti con la realtà che un posto del genere possa esistere, qui e ora, nel 2021, in Europa.
Il caffè, sempre molto frequentato, vende çay, caffè e alcuni semplici beni di prima necessità, e ovviamente non offre neanche una goccia di alcool. C’è chi gioca a backgammon, chi legge il giornale, chi chiacchiera con gli altri hevalen fumando una sigaretta. E qui incontreremo molte delle persone a cui non saremo direttamente introdotte dalla nostra guida, Zerdest. Ma non è questo campo la nostra destinazione. Visiteremo in un altro momento le stanze e le altre strutture, la scuola, la biblioteca, la sala riunioni, la sala dedicata ai martiri. Per il momento dobbiamo riprendere i nostri bagagli e ricominciare a camminare, in direzione del campo superiore.
Dal 2015 il campo di Lavrio comprende una “succursale” nell’area di Neraki, a circa un chilometro dalla città di Lavrio. Dopo essere stato preparato nel 2010 per ospitare i residenti del campo principale durante dei lavori di messa in sicurezza rimase vuoto per anni. I richiedenti asilo ritenevano infatti di non avere garanzie adeguate di poter rientrare al campo principale entro un termine ragionevole e si sono quindi rifiutati di trasferirsi, considerando il nuovo campo sciatto e inappropriato per ospitare le famiglie. Tuttavia nel 2015, quando il campo principale ha superato di gran lunga il suo potenziale, con quasi ottocento persone stipate in un luogo con una capacità nominale di trecento, il nuovo campo è entrato in funzione.
Lungo la strada che ci porta da Lavrio al campo incontriamo qualche cane randagio, poche automobili, qualche abitazione. La strada sale lentamente in un’ampia vallata, in larga misura occupata da boscaglia, campi e case sparse, e costeggia il cimitero cittadino, dove piccole candele sempre accese testimoniano della cura di questa piccola comunità per i propri defunti. A un certo punto lasciamo la strada principale e seguiamo una strada sterrata, che dopo meno di un centinaio di metri ci porta all’ingresso del campo.
La nostra attenzione viene subito catturata dalle bandiere del PKK, dalla bandiera con il volto di Öcalan e, con nostra sorpresa, la bandiera nazionale della Grecia, issate su di un palo a fianco al cancello. Ma presto la nostra attenzione viene catturata dai tre cani del campo, che ci terranno compagnia per le prossime settimane senza mai farci mancare le loro attenzioni.
Il campo superiore è un campo vero e proprio: moduli abitativi container disposti in ordine geometrico occupano buona parte della superficie calpestabile, mentre una bassa recinzione costruita in autonomia dai residenti separa il suo spazio dai campi, dalle boscaglie circostanti. A fianco al cancello principale, infine, c’è una cabina di legno riscaldata in cui è costantemente presente almeno una persona di guardia.
A dirla tutta, poche decine di metri oltre la rete, un’enorme tettoia ripara una discarica di rifiuti ingombranti, materassi, vecchi mobili e tappeti, che, per dimostrare la propria simpatia, le autorità non hanno mai pensato di chiudere. Se questa presenza rimane in larga misura ininfluente sulla vita del campo e sui suoi spazi non sono rare le occasioni in cui i materiali in essa depositati sono recuperati per essere riutilizzati dagli abitanti stessi.
Gli abitanti passano infatti la maggior parte del tempo tra le cabine o nel piazzale centrale, in cemento, dove quasi sempre troveremo i cani a prendere il sole e un gruppo di bambini intenti a escogitare qualche altro gioco.
Una volta entrati è il momento per un secondo round di çay. Zerdest ci fa accomodare su una lunga tavolata fuori da uno dei tanti container a cui è stata aggiunta una veranda. Lì faremo colazioni e cene, e spesso passeremo molte ore a chiacchierare. Incontriamo così molti altri hevalen prima di sistemarci nei nostri container. Per chi tra noi aveva già avuto modo di passare del tempo in altri campi profughi è impossibile non sottolineare come tutto, in questo spazio, sembri negare l’appartenenza a quella categoria.
Non è un campo statale, dove richiedenti asilo e rifugiati vivono in migliaia, sottoposti a una continua sorveglianza di polizia, funzionari governativi e organizzazioni internazionali, o dalla più umanitaria ma non meno invadente presenza di volontari di associazioni e ONG. Non ci sono file per la distribuzione di squallide razioni di cibo, né di fronte agli uffici dell’amministrazione o delle istituzioni che regolano il diritto di asilo. Non è uno spazio negoziato, dove alla presenza delle autorità si accompagna un’economia informale vivace, fatta di minimarket, servizi e perfino caffè e chioschi, e gli abitanti hanno ritagliato spazi di socialità e autogestione. Ma non è nemmeno un accampamento informale o un’occupazione abitativa come possono essere gli insediamenti dei lavoratori agricoli del foggiano o come era l’Ex-Moi di Torino, dove l’autogestione si dà in forme diverse, complesse e stratificate, impossibili da comprendere se non attraverso un lungo percorso di apprendimento.
Questo è uno spazio autogestito secondo il modello del confederalismo democratico, in cui la presenza di formazioni politiche organizzate si accompagna a una forte coesione, culturale e ideologica. La compresenza di questi fattori lo definisce e lo modella profondamente, nella sua quotidianità quanto nella sua dimensione spaziale. Biji Kurdistan! (le prossime puntate del reportage saranno pubblicate sulla pagina facebook della carovana solidale)
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