INTRODUZIONE
1. Questa ricerca prende le mosse dalla frattura, che si manifesta fin dai primi anni Sessanta, tra il sistema istituzionale e quei giovani inquieti che anche a Napoli cominciano a mobilitarsi sulla spinta dei mutamenti che investono il paese – e in misura parziale la loro città –, dando vita a organizzazioni di varia natura, da un lato per contestare gli ordinamenti politici, educativi, religiosi, produttivi in cui sono inseriti, dall’altro per costruire modelli di azione e di pensiero che prefigurino società nuove, in sintonia con le esperienze più avanzate delle nuove generazioni in Italia e nel mondo.
Si ricostruisce qui la traiettoria di alcuni gruppi, attivi a Napoli negli anni Sessanta e Settanta. Diversi per i tempi e le circostanze in cui sorgono, le modalità del loro impegno, i riferimenti teorici e pratici, i collegamenti con organizzazioni omologhe sul piano nazionale e internazionale, il loro raggio d’azione è in molti casi limitato all’ambito cittadino, ma l’aspirazione è quella di legarsi a correnti politiche e di pensiero più ampie, talvolta di influenzare e indirizzare movimenti di massa. Questa, naturalmente, non è la storia di quelle masse o di quelle scuole di pensiero – che restano sullo sfondo, così come il contesto politico-sociale italiano e internazionale –, ma il tentativo di delineare – attraverso un ben delimitato punto di vista – un processo complessivo che, per quanto composito e stratificato, può essere letto come lo sforzo più rilevante operato a partire dal secondo dopoguerra, nell’arco di una dozzina d’anni, per mobilitare gli strati ai margini della società napoletana in un orizzonte condiviso di partecipazione politica e trasformazione esistenziale.
[…]
3. Nell’analizzare queste forze, emergenti già a metà degli anni Sessanta, si distinguono in particolare due matrici, che appaiono in connessione molto più spesso di quanto restino separate. Da un lato le nuove minoranze (accanto a quelle “storiche”) che sorgono alla sinistra di Pci e Psi, in circostanze diverse ma sempre caratterizzate dal riferimento privilegiato alla classe operaia e dall’aspirazione a costruire un organo stabile di direzione politica, un partito. Dall’altro, l’intervento educativo e assistenziale, in particolare rivolto all’infanzia, messo in opera da piccoli gruppi non gerarchici, anche sulla scorta di esperienze maturate nel passato in ambito cattolico, socialista o anarchico. Gli interlocutori in questo caso sono i poveri della città, la cui emancipazione si dovrebbe realizzare non tanto attraverso ampie visioni strategiche ma con la “presa di coscienza” individuale e la partecipazione collettiva alla battaglia politica.
Tale dicotomia ha indirizzato questa ricerca da un lato verso le vicende della classe operaia locale, dall’altro in direzione di una popolazione instabile e frammentata (ma non meno numerosa di quella operaia), che secondo i periodi storici e i punti di vista è stata definita in più modi da studiosi e attori politici: dal nobile appellativo di “popolo” ai dispregiativi “popolino” o “plebe”, dal generico “sottoproletariato” al più sfaccettato “proletariato precario”.
Qui lo sguardo è rivolto in entrambi i sensi, ma sempre attraverso il filtro esercitato dai gruppi anti-istituzionali. Un punto di vista, quindi, il più delle volte esterno, però rivelatore dei criteri con cui le minoranze attive hanno osservato e interpretato i comportamenti di questi strati sociali, sviluppando allo stesso tempo strategie di avvicinamento e dialogo. Una proiezione verso “l’altro” – caratteristica fondante di questi gruppi – che cede talvolta il passo a un protagonismo esplicito, come nel triennio ’67-69, quando gli studenti, a Napoli come ovunque nel mondo, si faranno movimento di massa mettendo in discussione le autorità educative, le forme della trasmissione e le finalità del sapere, reclamando direttamente per sé un maggior potere all’interno delle scuole e delle università e poi nell’intera società.
Dai gruppi di giovani che frequentano le baracche negli anni Sessanta fino alle lotte per la casa nelle nuove periferie; dai comitati di quartiere alle scuole popolari, passando per i primi contatti tra studenti e operai nel ’68 e alle battaglie per la salute in fabbrica e nei rioni popolari che coinvolgono medici e altre figure professionali nei primi anni Settanta: è un cammino tortuoso, accidentato, eppure capace di incrinare le barriere sociali ancora solide nella Napoli di quel periodo, confutando con la pratica e l’esempio la vulgata “separatista” diffusa negli ambienti della sinistra istituzionale: da una parte la “fabbrica” con i suoi quadri produttivi, affidabili e disciplinati, dall’altra il “vicolo” con il suo marasma incontrollabile di pulsioni e desideri.
Più d’uno, tra gli intervistati per questa ricerca, l’ha definita la “meglio gioventù napoletana”, con lo sguardo rivolto soprattutto al ’68. In realtà, se l’attivismo degli anni Sessanta riguarda cerchie ristrette, contraddistinte dall’agiatezza economica e dal retaggio culturale delle famiglie d’origine, la mobilitazione giovanile cresce di numero e di ambizione già alla vigilia di quell’anno cruciale, per poi espandersi verso ambiti anagrafici, sociali, territoriali sempre più ampi, sebbene caratterizzata da una forte frammentazione e, di conseguenza, da una costante difficoltà a influire sulle scelte che riguardano le trasformazioni di fondo della città.
Le iniziative di contestazione delle autorità e di attiva solidarietà con i diseredati, che si diffondono a metà degli anni Sessanta nelle facoltà e nei quartieri, procedono spesso nell’indifferenza se non nell’ignoranza reciproca. Dopo il ’68 aumenta la comunicazione, ma cresce anche la diffidenza tra i gruppi, le sottili barriere ideologiche che contribuiscono a separarli. D’altra parte, il senso d’estraneità verso un sistema politico incapace di offrire una qualsiasi mediazione all’altezza delle loro richieste, caratterizza ognuna di queste formazioni. È una distanza, un’ostilità dichiarata, che comprende tutti i partiti e non risparmia certo il Pci. Il partito di Giorgio Amendola, che il dilemma del rapporto con gli strati popolari se l’era dovuto porre fin dall’immediato dopoguerra, ha ormai fatto le sue scelte. Ai generosi tentativi di apertura, testimoniati in particolare dal Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli, subentrerà un progressivo distacco, insieme con l’enfasi sempre maggiore posta sui compiti e sul ruolo guida degli operai di fabbrica. Di fronte alla nuova irrequietezza di gruppi e movimenti, così come all’emergere di un sempre più esplicito protagonismo popolare, la dirigenza del Pci locale – egemonizzata dall’ala “destra” guidata da Amendola – agirà apertamente per limitarne gli spazi, dirottando ogni fermento, ogni potenziale conflitto nell’alveo delle istituzioni riconosciute, anche quando non direttamente controllate dal partito. Viceversa gruppi e comitati, a loro agio nel vivo della lotta, pronti a valorizzare le spinte più radicali per mettere a nudo le contraddizioni istituzionali, mostreranno limiti insormontabili nella direzione politica, ma anche impalcature troppo esili per sostenere organismi di proposta e di autogoverno, rivelandosi agli occhi dell’elettorato progressista un’alternativa poco affidabile rispetto al gradualismo rassicurante dei partiti storici della sinistra. D’altra parte, i tentativi più estremi per forzare un ordine sociale e politico percepito come irriformabile, incarnati nei primi anni Settanta dalla scelta armata dei Nap, non troveranno il radicamento sperato nei settori sociali più marginali, finendo schiacciati nel giro di un paio d’anni dall’azione congiunta delle forze dell’ordine e della magistratura.
[…]
5. Dopo la rivolta studentesca e l’autunno caldo degli operai, si attenua quella fusione tra vita quotidiana e impegno politico segnata dal protagonismo delle assemblee e dell’azione diretta che aveva contraddistinto il triennio ’67-69. L’azione collettiva si incanala verso nuove organizzazioni che basano la propria legittimità sull’elaborazione di discorsi ideologici e su una crescente centralizzazione. I primi anni Settanta vedono anche l’insorgere di nuovi movimenti di massa, la cui complessità e ricchezza partiti e sindacati della sinistra sembrano incapaci di contenere, e ancor meno di rappresentare, ma che spesso travalicano le stesse possibilità di intervento e direzione dei gruppi anti-istituzionali. A Napoli, in realtà, fin dagli anni Sessanta, i soggetti sociali che questi gruppi si propongono di mobilitare – al fine di ottenere maggiori diritti, migliori condizioni di lavoro o di vita, l’emancipazione o la “liberazione” – hanno spesso già preso da sé l’iniziativa, senza attendere l’arrivo delle avanguardie: i baraccati che bloccano le strade bruciando i copertoni delle auto a metà degli anni Sessanta, le famiglie che occupano novecento appartamenti in periferia nei primi mesi del ’69, gli operai che fermano “a macchia di leopardo” la catena di montaggio dell’Alfasud, i disoccupati in tumulto davanti agli uffici del collocamento, sono solo alcuni esempi. Si tratta spesso di azioni “spontanee”, messe in atto per reclamare, in maniera non sempre inefficace, il soddisfacimento immediato di esigenze vitali, in molti casi sopravanzando l’iniziativa, le analisi, i piani dei gruppi organizzati. Eppure, in queste come in altre circostanze, i membri dei gruppi avranno un ruolo, una parte da giocare: per attirare su quelle rivendicazioni l’attenzione delle istituzioni o dell’opinione pubblica; per dare loro un respiro più ampio collegandole con esperienze simili in altri luoghi e paesi; per contribuire a risolvere (o semplicemente a porre) le questioni della rappresentanza e dell’autogoverno. Acquisire elementi per “pesare” questo ruolo, per delinearne caratteri e influenza, è uno degli obiettivi di questa ricerca.
Per farlo è necessario innanzitutto interrogarsi sugli individui che di questi gruppi hanno fatto parte, ripercorrerne le traiettorie esistenziali, i legami sociali, la genealogia delle idee e la capacità di metterle in pratica in un contesto mutevole e spesso ostile. In questo senso, l’utilizzo delle fonti orali, accanto a quelle documentali, mira innanzitutto a tracciare dei percorsi biografici, evidenziando le origini sociali e le radici culturali che si tradurranno poi in una varietà di azioni e posizioni politiche. Sulle tracce di quella inafferrabile “sostanza”, che il linguaggio dei documenti fatica a trasmettere e che riguarda piuttosto la sfera delle relazioni e della soggettività, le interviste forniscono dettagli utili all’interno di una ricognizione più ampia, suggerendo come ogni evento che qui si è cercato di ricondurre in una cornice coerente e delimitata, contenga in sé molteplici diramazioni e punti di vista, in buona parte ancora suscettibili di approfondimenti.
[…]
La ricerca si arresta nel momento in cui il Pci – dopo i successi elettorali del ’75-76 e la scelta di appoggiare il governo Andreotti e le politiche di “austerità” – comincia a consolidarsi, a Napoli e in altre grandi città, come partito di governo (proponendosi allo stesso tempo, e su un piano più ampio, come forza in grado di governare l’intero paese). Questo determina – accanto alla ritirata degli operai più combattivi nelle fabbriche, sotto i colpi della ristrutturazione capitalista – un rallentamento dell’iniziativa autonoma nei quartieri e il tentativo di stabilizzare, ovvero di “istituzionalizzare”, le pratiche partecipative sperimentate negli anni precedenti. Sarà un tentativo di corto respiro, che finirà per infrangersi sulla mancanza di risorse e di volontà politica. Ma intanto, sul finire del ’76, rifluisce in città anche la prima ondata del movimento dei disoccupati, mentre i gruppi alla sinistra del Pci, battuti alle elezioni e divisi tra loro, si dissolvono lasciando spazio alla frastagliata “area dell’autonomia” e, negli anni successivi, a una miriade di gruppi armati.
“Napoli è cambiata in questo decennio più che nei trenta anni precedenti – ha scritto Pietro Basso degli anni Settanta [1] –, e tra tutti gli strati sociali quello che è cambiato di più è stato senza dubbio il proletariato precario. È tramontata definitivamente l’economia del vicolo. Sono state scagliate sul mercato forze che erano rimaste congelate per secoli in una situazione di quasi immobilità produttiva e culturale. […] I valori patriarcali che erano sopravvissuti sin oltre la metà del XX secolo nei rapporti familiari, sono andati in frantumi. Nuove forme di socializzazione sono sorte sin dentro il “ventre di Napoli”. All’apice di queste bisogna porre i comitati dei disoccupati organizzati. E due per tutti: vico Cinquesanti e vico Banchi nuovi. […] Infine, e forse per primo in ordine di importanza, il proletariato di Napoli si è sintonizzato definitivamente con il ciclo delle lotte proletarie europee. Non è certo la prima volta nella sua storia, ma diciamo che non succedeva da tempo”.
L’arco temporale considerato (1962-1976) è quindi caratterizzato dal crescente protagonismo degli strati sociali ai margini della città: dalle rivendicazioni dei baraccati a metà degli anni Sessanta fino alle lotte per la casa, l’istruzione e i servizi sociali che sul finire di quel decennio si diffondono nei quartieri popolari e trovano il loro sviluppo più compiuto – durante il biennio ’75-76 – nel movimento dei disoccupati organizzati. Il tentativo operato da questi ultimi, di riunire le forze del precariato urbano con quelle degli operai di fabbrica, che partiti e sindacati avevano sempre cercato di scongiurare, e che i gruppi anti-istituzionali non avevano mai avuto la forza di realizzare, conoscerà momenti alti ma anche un rapido declino, chiudendo la fase ascendente di una stagione di conflitti e solidarietà che proseguirà con altri caratteri, e in contesti progressivamente mutati, ma senza più raggiungere la stessa portata e incisività.
Ha detto Fabrizia Ramondino a proposito del suo libro sui disoccupati organizzati [2]:
“Letteratura è […] qualsiasi testimonianza scritta in ogni epoca storica; ad esempio gli atti di affrancatura dei servi. Naturalmente in generale mancano le testimonianze dirette degli oppressi, di loro si hanno notizie tramite quello che ne dicono i loro oppressori, più raramente i loro amici o alleati momentanei. In questo senso era molto importante raccogliere le testimonianze dirette del movimento dei disoccupati, e non scrivere sui disoccupati; certo c’è stato un intervento mio, ma in questo modo è stato molto ridotto”.
In estrema sintesi, questa ricerca – concentrando l’attenzione su Napoli – intende ricostruire le vicende politico-sociali degli “oppressi” nel periodo in cui questi operano lo sforzo maggiore per riconoscersi come tali, compattarsi e rivendicare un ruolo da protagonisti nella vita della città. Per farlo, si serve in modo privilegiato di ciò che di essi hanno scritto e pensato i “loro amici o alleati momentanei”. Un contributo – allora come oggi – limitato a rare e spesso isolate figure, ma che costituisce a sua volta il fondamento per una storia “altra” degli intellettuali a Napoli, ancora tutta da scrivere. (luca rossomando)
[1] Basso P., “L’immagine di Napoli dopo il movimento dei disoccupati organizzati”, L’Alfabeto urbano, Napoli, marzo 1982.
[2] “Credevano che fossimo analfabeti, intervista a Fabrizia Ramondino”, Lotta culturale, giornale murale di Nuova cultura, n. 2, 1978, in Piccolo archivio, quaderno saltuario della biblioteca Ramondino-Neiwiller, 1 luglio 2011, p. 11.
Leave a Reply