dal numero 7 de Lo stato delle città
Il presidente del Partito socialista catalano ed ex ministro della sanità spagnolo, Salvador Illa, affermava a settembre in un’intervista che gli ultimi dieci anni in Catalogna sono stati i peggiori degli ultimi tre secoli. Cioè almeno tre guerre, due dittature, rivolte e repressioni sono, agli occhi del leader dell’opposizione anti-indipendentista in Catalogna, bazzecole di fronte all’inaudita sciagura che in questi anni ha rappresentato l’insistente richiesta – scevra di qualsiasi forma di violenza – di una buona metà della popolazione catalana di un referendum d’autodeterminazione.
Da solo l’aneddoto servirebbe a spiegare quali sono le priorità e le preoccupazioni della politica spagnola, con un’eterna gara tra destre e “sinistre” per cavalcare il coltivato e diffuso sentimento “catalano-fobico” nel regno di Spagna. Vediamo però che cosa ha rappresentato il subentro dei governi Sanchez a quello di Rajoy (presidente del Partito popolare, che, nel caso catalano come in quello basco e praticamente in tutti i temi di stato davvero rilevanti, ha sempre goduto del sostegno granitico dei socialisti).
Nel giugno 2018 si insediava il primo governo Sanchez, nel novembre 2019 entrava come socio di coalizione Podemos, con le varie “confluenze” regionali. All’epoca, la stampa di sinistra italiana fece suonare le campane a stormo e la Spagna veniva presentata come un paese all’avanguardia delle politiche di sinistra in Europa. La realtà, fin da subito, apparve molto più modesta: il patto tra socialisti (Psoe) e Podemos, al di là della consueta retorica populista, era in massima parte una proposta di modernizzazione del sistema. Un sistema la cui natura era stata messa a nudo dalla crisi del 2007 e poi dal conflitto catalano.
Il patto seguiva per filo e per segno lo schema che dal 1978 riproducono Psoe e Pp, come in un gioco delle parti pirandelliano. E così, lungo le cinquanta pagine del programma, si sprecano i “faremo” e “ci impegniamo” su tutta una serie di temi, dalla “rigenerazione democratica e la trasparenza”, al rinnovo di organi costituzionali e organismi indipendenti, a un piano nazionale contro la corruzione, al recupero dei beni immatricolati irregolarmente dalla chiesa sotto il governo Aznar (Pp), all’aprire ponti di dialogo nel conflitto catalano, alla riforma fiscale, fino all’attuazione di un vero e proprio Green New Deal. Oltre ovviamente a nuove leggi favorevoli ai lavoratori, con deroga della riforma approvata dal Pp della famigerata Legge Bavaglio.
Una volta diffuso questo “aroma di sinistra” (molti anni fa l’allora attivista e squatter Ada Colau aveva interrogato degli amici italiani sulla simpatia che a sinistra riscuoteva quello che lei considerava un paladino delle politiche neoliberali e autore di uno dei più grossi regali di denaro pubblico al settore bancario della storia europea, Zapatero: “le sue politiche emanano un aroma di sinistra”, le risposero), la prassi reale del nuovo governo ha imboccato strade ben diverse.
Oggi, dopo due anni di governo, abbiamo un Psoe che si oppone a desegretare i documenti sul colpo di stato dei militari nel 1981 e sul coinvolgimento dell’ex premier socialista Gonzalez nella “guerra sporca” degli squadroni della morte contro l’Eta; incapace di modificare la composizione dei vertici della giudicatura, il cui mandato è scaduto da anni, schierati ideologicamente all’estrema destra (anche se difficilmente si può parlare di settori di sinistra in questo ambito). Un Psoe che promulga una legge che rende quasi impossibile la restituzione da parte della chiesa del maltolto; che tra le prime misure di “rilancio dell’economia” propone, strano Green Deal, miliardari allargamenti degli aeroporti di Barcellona e Madrid (salvo poi “castigare” il governo catalano – colpevole di voler salvare un’area tutelata – ritirando il progetto). Un partito socialista che ha già annunciato la distribuzione a pioggia tra le grandi imprese dei fondi europei per la creazione di altre infrastrutture faraoniche o di parchi per la produzione di energia “verde”.
In questi due anni non hanno trovato il tempo per derogare la legge sul lavoro né la Legge Bavaglio, però non è che questo governo (“il più a sinistra della storia”) non faccia proprio niente. Il Psoe, che non si fa scrupolo a votare con il Pp e l’estrema destra quando Podemos fa le bizze, si è già opposto quindici volte alla creazione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul re “emerito” Juan Carlos I (in esilio, con la security pagata dallo stato spagnolo). Grazie alla giustizia svizzera, in capo all’ex monarca si delinea ormai una vera e propria trama di criminalità organizzata, con traffico d’armi e riciclaggio di denaro sporco, non una semplice questione di “bustarelle” e di traffico d’influenze. Per ragioni meno chiare il Psoe, con il suo blocco alternativo (Pp, Vox e Ciudadanos), si è opposto anche alla creazione di una commissione parlamentare d’indagine sul ruolo dei servizi segreti nell’attentato di Barcellona del 2017 (diciassette morti).
Nei confronti degli oligopoli dell’energia e dell’aumento del prezzo dell’elettricità, la ministra responsabile non ha trovato di meglio che biasimare “la scarsa empatia” delle imprese, precisando che non si pensa nemmeno lontanamente a imporre limiti alle tariffe. Ci mancherebbe altro: i consigli d’amministrazione di questi giganteschi cartelli sono la garanzia di una pensione dorata per decine di ex ministri, presidenti e alte cariche dei due partiti maggiori, secondo il collaudato meccanismo delle “porte girevoli”.
Dal canto suo, e in qualità di ministro degli interni, l’ex giudice dell’Audiencia Nacional – unico caso in Europa di continuità con un Tribunale di ordine pubblico fascista –, Marlaska, condannato sette volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per aver ignorato denunce di torture (l’ultimo caso, quello di avvocate basche che, censurate dalla totalità dei media spagnoli, hanno narrato davanti al tribunale le torture sessuali a cui erano state sottoposte da parte della Guardia Civil), metteva in atto di recente una spettacolare operazione per evacuare alcune centinaia di afgani da Kabul, mentre faceva ributtare a mare dall’esercito migliaia di marocchini e centroafricani – tra cui, contravvenendo a tutti i protocolli firmati in materia, centinaia di minorenni – a Ceuta.
Prosegue, il governo Sanchez, anche l’indefesso lavoro d’impugnazione di qualsiasi legge di una certa importanza varata dal parlamento catalano: dopo i quindici articoli della legge catalana sulla transizione climatica bocciati dalla Corte Costituzionale (che è un club di personaggi scelti dai due grandi partiti), qualche settimana fa è toccato alla legge che regola gli affitti, fortemente voluta dalle organizzazioni di base e approvata da governo e parlamento catalani. In cambio, il governo di Spagna promette che prima o poi ne approverà una.
In politica estera, oltre alla vendita di armi e imbarcazioni da guerra all’Arabia Saudita, che le utilizza per massacrare la popolazione dello Yemen, si mantengono strettissimi rapporti con dittature come la stessa Arabia Saudita, altri paesi del Golfo, il Marocco, la Turchia, o con narco-stati come la Colombia. In America Latina prosegue l’inflessibile sostegno alle multinazionali spagnole e l’ostilità nei confronti di governi progressisti. Continua anche, a pagamento delle complicità della Ue nel sostenere le politiche di repressione degli indipendentismi, il totale asservimento ai dettami europei in tema di emigrazione, politica estera e di bilancio.
Podemos, in tutto questo operare, funge da convitato di pietra, quando va bene. Quando va male, da alibi. Ma qualcosa di buono l’hanno fatta anche loro: per esempio, la legge a tutela delle persone Lgbt o quella per il diritto a una morte dignitosa, che proteggono parzialmente alcuni diritti e non intaccano nessun privilegio; per esempio, i consistenti aumenti salariali a polizia e Guardia Civil; per esempio, la legge sulla prevenzione degli incendi (che, en passant, ricentralizza il controllo sui pompieri catalani, che funzionavano perfettamente anche in autonomia); oppure l’innalzamento del salario minimo, che oggi è sui 950 euro e che a fine legislatura (si spera) arriverà a 1.027 (invece dei 1.200 promessi a suo tempo, ma sempre meglio di niente); o ancora la legge sulla Memoria Democratica, che, nonostante l’ampollosa reiterazione della formula “riconoscimento, riparazione, garanzia di non ripetizione”, non offre nulla di questo alle vittime del franchismo. In compenso, alludendo una cinquantina di volte alla Costituzione del 1978, rinforza la narrazione di una rottura giuridica e politica con il franchismo fatta coincidere con la promulgazione di quel testo (frutto di una composizione, va ricordato, non tra i settori dell’antifascismo – come fu la Costituzione italiana – ma tra settori del franchismo e alcuni, selezionati, della dissidenza).
Insomma, né attacchi alle grandi fortune, né creazione di imprese pubbliche e ancor meno nazionalizzazioni, né esigenze di riforma istituzionale (monarchia, magistratura, esercito, polizia). L’azione di questo governo non mira a intaccare l’assetto istituzionale dello stato spagnolo, né alcuno dei privilegi economici o di classe su cui esso si basa.
In considerazione della natura delle classi dominanti spagnole, in cui prevalgono i settori dell’economia speculativa (banche, latifondisti, palazzinari, oligopoli di servizi, caste di funzionari), questa timidezza dei “governi di sinistra” frustra le speranze non dico di riforme significative, ma anche di modernizzazione dello stato e della società spagnola. Che anzi, dall’operato di questi governi escono legittimati a costo zero.
Valga un esempio per tutti: l’operazione di sdoganamento dell’esercito – con la presenza esagerata sui media e interventi “civili” di dubbia efficacia – nel corso della pandemia, tentativo di far passare per omologabile al contesto democratico una struttura che non ha mai rinnegato il suo ruolo nel colpo di stato franchista e di sostegno alla dittatura e che oggi accoglie chat di generali riservisti che auspicano la fucilazione di mezza Spagna, continui episodi di apologia del fascismo, espulsione e persecuzione di elementi democratici.
In Catalogna, intanto, la “nuova politica” dei Comuns è ormai da sei anni al governo di Barcellona con la sindaca Ada Colau. E anche qui le speranze che la società di sinistra in città aveva riposto in quelli che si presentavano (spesso a ragione) come gente di movimento, si sono scontrate con la realtà.
Tra la grandiloquenza populista e il pragmatismo legalista che non si permette nessuna stonatura rispetto al quadro stabilito, si sono fatte strada politiche tentennanti, come nel caso del diritto alla casa, in cui le misure di acquisto di edifici da destinare ad alloggio popolare o le multe imposte ai grandi proprietari (spesso fondi “avvoltoi”), sono una goccia nel mare dei bisogni e dei palazzi svuotati dalla speculazione. Paradossalmente, il governo che doveva rivoluzionare questo ambito, si è ridotto a misure di striminzito assistenzialismo (cercando alloggi temporanei per famiglie sfrattate), mentre la polizia municipale collabora con i Mossos, la polizia regionale, incalzando a suon di controlli e multe i collettivi di solidarietà che si oppongono a sfratti e sgomberi.
Lo stesso per la municipalizzazione dell’acqua, dove è bastata una stringata sentenza per fare rientrare la decisione di togliere la concessione alla multinazionale Agbar; o per la creazione di un’impresa di pompe funebri di titolarità pubblica, ridimensionata fino alla scomparsa; o per la figura del dentista solidale, misura assistenzialista di modestissima portata; o per il tentativo di ridurre l’inquinamento – tra i più alti d’Europa – limitando il traffico privato, finora con risultati quasi nulli; o per la creazione di un’impresa elettrica comunale (talmente limitata e deficitaria da non rappresentare nessuna concorrenza con gli oligopoli). Politiche che hanno mostrato tutti i loro limiti anche sul piano simbolico: dopo la plateale ritirata dalla sala del consiglio comunale del ritratto del capo dello stato (il re), una recente sentenza ha imposto che la stessa venisse ripristinata in luogo d’onore. La sindaca ha ubbidito, anche se indossando per l’occasione una mascherina con la bandiera repubblicana. Ancor più gravi le battute contro il commercio illegale o la conferenza stampa di denuncia della violenza di manifestanti solidali con Pablo Hasel (con cinque anarchici italiani ancora in carcere).
Perfino nel campo del diritto degli abitanti della città a informare ed essere informati, non si è andati oltre il mantenimento di vecchie strutture: sostegno a radio di quartiere, prove di democrazia digitale, mantenimento di una radio e di una televisione della città gestite in modo del tutto convenzionale (con il conflitto scoppiato in questi giorni dei nove giornalisti licenziati in blocco per ragioni di bilancio da BTV). Di nuovo e anche qui: progetti benintenzionati che non sono riusciti a superare difficoltà e ostacoli (tra cui la scontata e forte resistenza delle lobby cittadine), reindirizzando la proposta di assalto al cielo verso una ricerca di quell’aroma di sinistra, utile comunque per presentarsi come alternativa alle “destre”.
Nonostante la minuziosa elencazione di “tutte le cose buone” fatte (o dette) dal governo comunale in questi sei anni, la realtà è che non sono state intaccate nemmeno in minima parte le dinamiche del modello di relazione sociale capitalista. Restano i grandi eventi e il concetto di città vetrina che si è imposto negli ultimi decenni, resta la ricerca ossessiva del turista, resta immutata l’idea di pubblica sicurezza e di decoro – termine che i curatori spagnoli delle immagini istituzionali hanno sostituito con un più moderno “civismo”. Come pure è rimasta immutata, rispetto ai governi socialisti, la visione della partecipazione della società (intesa come somma d’individui, non come soggetto che ha prodotto in questo paese, più che in qualsiasi altro europeo, forme di auto-organizzazione numerose e complesse), limitata alla consultazione, all’informazione e a un controllo sociale non esente da clientelismo.
Come se non bastasse Podemos e Comuns hanno mantenuto, nel corso di tutto il conflitto catalano, una posizione di grande ambiguità. Favorevoli in principio al diritto di autodeterminazione, ne hanno sempre rimandato l’attuazione alle calende greche, che nel caso della Spagna coincidono con quel “domani” in cui lo stato si convincerà della necessità di rispettare questo diritto di catalani, baschi, galiziani a decidere liberamente, in un processo pacifico e concordato.
Prigionieri di questo approccio di gestione del possibile Podemos e Comuns sono rimasti spiazzati da un movimento che rischiava di far saltare i fragili equilibri che ne avevano permesso l’entrata come attori della politica istituzionale. Hanno assunto quindi un comportamento di “equidistanza” (con eccezioni significative di settori ferocemente unionisti), condannando a parole gli eccessi repressivi, sostenendo a parole il diritto alla protesta e appoggiando nei fatti l’offensiva anti-indipendentista condotta da tutte le istituzioni dello stato, dall’immensa maggioranza del tessuto economico, dalla quasi totalità dei media e da tutto l’arco “costituzionalista” (ricordo che l’estrema destra di Vox del costituzionalismo si considera portabandiera, e a ragione).
Questa posizione si concretizza in un insistente invito ai futuri negoziatori di parte catalana in un improbabile tavolo di dialogo: mantenetevi entro i limiti della Costituzione. Visto che la Costituzione consacra cose come la monarchia e il tetto del deficit, viene da chiedersi cosa di veramente radicale, alternativo, per non dire di classe, resti nel progetto politico che si arrogò la rappresentanza del movimento degli Indignados.
Infine due parole sul secondo soggetto che ha scosso nell’ultimo decennio il panorama politico spagnolo: l’indipendentismo catalano, appunto.
Graziati i politici e leader sociali dal governo Sanchez, che ha evitato così un pronunciamento pesante della Corte europea dei diritti dell’uomo, il governo indipendentista, uscito dalle ultime elezioni con il cinquantadue per cento dei voti, comincia all’insegna della lotta senza quartiere tra i due principali partiti, JxC ed Erc. Con gli anticapitalisti della Cup che cercano di condizionare dall’esterno le scelte del governo in senso progressista.
In una società traumatizzata dalla pandemia, il padronato catalano (sempre massicciamente anti-indipendentista) ha cercato di consolidare un ritorno alle politiche neoliberali più spinte facendo leva sulla parte del governo affine, con progetti come la candidatura pirenaica alle Olimpiadi d’inverno, la creazione di grandi parchi eolici e, soprattutto, l’allargamento dell’aeroporto del Prat. Vicenda quest’ultima assai significativa: proposto dal governo Sanchez e accolto dal padronato e da settori di JxC, la pressione sociale e le tensioni interne al governo hanno spinto però a una correzione del progetto iniziale che prevedeva la distruzione di un’area di alto valore ecologico. A quel punto il governo Sanchez ha ritirato l’offerta di quasi due miliardi di euro, lasciando in piedi solo l’investimento sull’aeroporto di Madrid.
Uno studio dell’Università di Barcellona ha rivelato che i votanti dei partiti indipendentisti e dei Comuns erano in maggioranza contrari all’opera. Favorevoli invece quelli delle destre e dei socialisti. Un dato che spiega bene il potenziale di cambiamento reale del movimento indipendentista, soprattutto nei suoi sempre ignorati aspetti di auto-organizzazione e iniziativa di base, che avrebbe dovuto promuovere un processo costituente inedito in Europa, dove non sarebbero stati una manciata di saggi o di rappresentanti di partiti o d’interessi a definire le regole della nuova repubblica, ma appunto la società organizzata.
Oggi quella base sociale, abbandonata per l’ennesima volta nella sua storia da un’Europa degli stati, del denaro e purtroppo delle sinistre rinchiuse nei loro pregiudizi ed egoismi, sta subendo, molto più dei partiti, gli effetti di una repressione insistente, fatta di criminalizzazione mediatica e giudiziaria. Una repressione che si estende, con identificazioni, multe e arresti, ad altri movimenti (alimentati in gran parte dalle organizzazioni giovanili indipendentiste), come quello per il diritto alla casa o per la libertà di espressione (con le manifestazioni contro l’incarcerazione di Pablo Hasel, rapper colpevole di aver detto quattro verità sulla monarchia e che sta scontando una condanna a tre anni di carcere).
La partita non è chiusa ma per ora il regime del 1978 (quello della monarchia voluta da Franco, dell’impunità dei crimini del franchismo, delle istituzioni impregnate di spirito autoritario, dei tribunali speciali, della tortura, della corruzione e del clientelismo) tira un respiro di sollievo. (rolando d’alessandro)
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