Noi la chiamiamo ancora alternanza scuola-lavoro, ma dalla sua apparizione nel 2015 questo progetto ha cambiato più volte faccia e nome, riscuotendo però sempre meno consensi. La morte del diciassettenne Lorenzo Parelli durante le ore dedicate all’alternanza scuola-lavoro (oggi Pcto, Percorsi per le competenze trasversali e di orientamento) ha risvegliato l’indignazione degli studenti di tutto il paese. A Napoli ogni venerdì pomeriggio decine di studenti si vedono per tenere alta l’attenzione sulla scuola.
«Abbiamo fatto tanto per abolire il lavoro minorile… Come può uno studente morire sul lavoro?», dice Piero, studente al liceo classico. Il malessere si annida nella definizione stessa di quel che è uno studente, ormai sempre più inteso come pre-lavoratore. «Il ministero spende tanti soldi per farci lavorare, ma non abbiamo nessun sostegno per quanto riguarda il benessere psicologico», racconta Nina, studentessa del quarto anno di liceo classico. Gli anni di pandemia e didattica a distanza hanno lasciato il segno, dalla mancata socialità alle difficoltà a seguire il programma ministeriale, fino al generale sentimento di stanchezza e disillusione. «Abbiamo vissuto un periodo difficile – continua Nina –, siamo indietro con il programma, quello vero, quello della scuola che abbiamo scelto, è assurdo che dobbiamo perdere tempo con i Pcto, che poi oltretutto ci vengono imposti».
L’abolizione del Pcto tuttavia non vede tutti gli studenti d’accordo. Per gli istituti professionali e tecnici il momento d’inserzione rappresenta una parte importante del percorso formativo. «La cosa terribile è che abbiamo due opzioni – racconta Dennis, al quarto anno di istituto tecnico informatico –, o lavorare senza essere pagati e magari in condizioni di sicurezza spaventose, oppure annoiarci». L’anno scorso Dennis è stato bocciato perché aveva scelto di non finire le sue ore di Pcto. «Dovevamo guardare per un’ora un video sull’economia e poi rispondere a domande. Io studio informatica, ma che senso aveva? Non ne sono fiero ma era insostenibile».
Una formazione che spesso, causa Covid, si traduce in lunghe ore da passare davanti a uno schermo, anche nei casi di istituti professionali dove la pratica è tutto, come racconta Mario, all’ultimo anno di odontoiatria: «Per me il Pcto è un fallimento. È tutta teoria quando per il nostro indirizzo la pratica è fondamentale. Io sono fortunato perché riesco a farla in qualche laboratorio, ma sono contatti miei. Dalla scuola abbiamo solo teoria».
Il percorso dell’alternanza scuola-lavoro entra a far parte dei progetti del ministero dell’istruzione nel 2005 con un decreto legge. Verrà poi implementata dalla legge 107 del 2015 dalla Buona Scuola renziana, per essere poi rimodellata solo tre anni dopo dalla legge di bilancio nel 2019. L’idea è quella di stimolare l’inserimento lavorativo offrendo agli studenti degli ultimi tre anni dei licei e istituti tecnici e professionali la possibilità di confrontarsi con progetti di formazione professionale. Tutto ciò realizzato negli orari extra curricolari. Queste ore sono spesso tolte allo studio, problema sollevato da molti studenti. «Diventa difficile seguire il programma – dice ancora Nina, che studia al classico –. Non tutti i professori capiscono e spesso tra ore di studio, ore di Pcto e tutti i compiti assegnati se ne va via l’intera giornata. Basta un niente e ci si ritrova indietro».
I progetti, triennali, vengono scelti dall’amministrazione degli istituti scolastici e sono obbligatori. Agli studenti viene notificato con un avviso il tema e l’inizio del progetto. Le aziende che partecipano possono appartenere al settore pubblico, privato e al terzo settore. Tutte queste realtà sono in un database pubblico e sono soggette ai dovuti controlli, almeno sulla carta. «Io ho fatto l’alberghiero sei anni fa. L’alternanza scuola-lavoro era massacrante. Lavoravamo ore e ore senza essere pagati. Se questo non ti fa venire lo schifo della scuola…», racconta Anna che ora gestisce il bar di famiglia.
Il cambiamento più sostanziale avviene nel 2019 quando il monte ore viene dimezzato e diviso sugli ultimi tre anni di studio invece che unicamente sul terzo e sul quarto. Fino al 2018 si parlava di circa quattrocento ore per gli istituti professionali e tecnici e duecento per i licei, da realizzare obbligatoriamente con pena l’esclusione dall’esame di maturità. Con la riforma del 2019 le ore sono passate a novanta per i licei e circa duecento per tecnici e professionali. Un cambiamento percepito come parziale dagli studenti, che sottolineano come il punto non siano le ore, ma le modalità del Pcto. «L’idea di avere altre formazioni parallele al corso di studi non è sbagliata – racconta Laura, all’ultimo anno di liceo scientifico –, ma il problema è che non è così. Noi seguiamo un corso di base di informatica che ci permetterà di ottenere un certificato che tra un anno o due scade. Non ne vale la pena, dovrebbero offrirci altro. Siamo allo scientifico, le cose pratiche da fare non mancano».
Da quasi due mesi gli studenti scendono in piazza per chiedere una riforma che, secondo una gran parte di loro, non passa dall’orientamento professionale ma dal migliorare la condizione delle scuole. Secondo dati Istat 2021 la dispersione scolastica nel Mezzogiorno arriva al diciassette per cento. «In classe mia siamo venticinque – continua Piero – e questo è vero per molte scuole. Sono classi pollaio e spesso le aule non sono a norma, non hanno finestre o sono troppo piccole. In che modo si favorisce l’insegnamento? Molti abbandonano perché la scuola invece di essere un approdo sicuro è una mareggiata ostile. Il ministero pensa a come inserirci nel mondo del lavoro, ma parlasse di scuola che ne abbiamo bisogno». (eva de prosperis)
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