Giovedì 23 dicembre sarà proiettato La versione di Jean, dalle 21 in via Baltea 3, a Torino. Il film racconta gli sgomberi dei campi di baraccati lungo la Stura, mostrando la violenza delle forze dell’ordine e l’ipocrisia delle istituzioni di governo. La proiezione è gratuita e sarà l’occasione per discutere delle politiche abitative in città e delle forme di esclusione operate dalle diverse amministrazioni.
Riproponiamo a seguire l’articolo Sgomberi di baraccati a Torino. Tre esplorazioni lungo la Stura pubblicato nell’aprile 2021 nel numero 6 de Lo stato delle città.
* * *
VIA GERMAGNANO
Manu e Jean camminano tra cumuli di macerie e alberi spogli nel campo di via Germagnano, ormai sgomberato. È un pomeriggio di fine febbraio. L’ultima volta che giunsi qui – era d’estate – decine di baracche erano ancora in piedi, ma s’aprivano i vuoti delle abitazioni sequestrate e abbattute durante la primavera di pandemia. Saluto i miei amici mentre s’avvicina un’auto. I finestrini s’abbassano e due uomini chiedono se va tutto bene. Sono vigili in borghese, organizzano ronde per impedire il ritorno dei vecchi abitanti. Presto s’allontanano. Ricordo che avevo parlato con tre donne qui, seduto sotto l’albero dove ho poggiato la bici. «Qui era il centro del platz – dice Jean –, era il bar!». Il ritrovo del villaggio. «Qui si vedeva l’ingresso, vedevi chi entrava, la polizia… Qua parlavamo della situazione del campo, dei problemi. Venivano a dirci che il campo doveva essere chiuso, che dovevamo trovare altri posti. “Qui è sotto sequestro, dobbiamo liberare”, dicevano. Qui si farà una pista da kart per divertire i torinesi. Hanno detto così. Io farei vedere tutti i kart del campo che vengono messi in pista. Lo vedi?». Jean indica un passeggino abbandonato accanto a un mucchio di resti. «Eravamo lontani dalla civiltà qua». Poco più a sud, oltre un intrico di rovi e natura senza cura, scorre la Stura. A sinistra vedo i piloni che sorreggono un cavalcavia. «Guarda! Non lo so come è arrivata quella lì!». C’è una carcassa di auto tra la sterpaglia accanto al greto. «Non è lì da molto, non è nostra! È arrivata dopo lo sgombero. Quella è già smontata, hanno preso il motore. Minchia, un’altra macchina! Guarda!». Un’auto è abbandonata sotto il cavalcavia: dopo lo sgombero ecco una discarica di carrozzerie. «Sta diventando un rottamatore, come si dice?». Vedo un’altra auto abbandonata e capovolta accanto al fiume. Jean indica in alto il cavalcavia dove sfrecciano le auto: «È la tangenziale che arriva dall’autostrada, dall’uscita di Caselle. Questo è un motivo per il quale loro hanno iniziato a rompere le baracche». Nella voce di Jean il “loro” si riferisce ai governanti ed è una categoria che comprende i rappresentanti delle istituzioni, i funzionari comunali, la polizia. «Dicevano che è possibile che salta una macchina da lì e ammazza la gente qua. Sono arrivati con un progetto dove hanno demolito tutta questa parte». Jean indica la fascia di territorio a ridosso della strada sopraelevata. «È l’unica volta che ho sentito loro preoccuparsi per questa gente qua!». Interviene Manu accanto a me: «Questo è avvenuto quando hanno iniziato a spaccare le baracche, tra il 2018 e il 2019». Così è iniziato lo sgombero di via Germagnano. Il campo, allora, è nato vent’anni fa? «Anche di più», risponde Jean. «Vennero da Venaria e da altri sgomberi – dice Manu –, a fine anni Novanta. Erano già in duecentocinquanta: avevano detto loro di scappare di notte!». Questo campo ha dunque origine nelle scelte istituzionali. Manu continua: «Il comune di Venaria ordinò lo sgombero e il comune di Torino fece dire ai vigili, in via informale, di venire qui». Camminiamo verso il cuore dell’insediamento e Jean rievoca gli ultimi due decenni: «C’era una baracca qua, una là, si è iniziato con due o tre baracche e si è arrivati a duecento baracche. Penso anche di più. Erano quasi settecento persone qui, fino al 2018». Il governo del Movimento Cinque Stelle ha pianificato una lenta dissoluzione del campo: «Trovavano tanti modi per cacciarli via», racconta Jean. «Facevano fogli di via. Appena uno alzava la testa e chiedeva qualcosa, loro dicevano: “Tu qua sei abusivo, non puoi dimostrare un posto di lavoro, non puoi dimostrare che qualcuno ti mantiene, non hai diritto di stare in Italia”. E con questo facevano il foglio di via. Quando gli abitanti alzavano la voce o chiedevano i diritti, loro dicevano: “Ma tu già hai due, tre fogli di via. Ti posso mandare anche tramite aereo”. E così li facevano stare zitti. È una cosa che succedeva a questa gente perché non conosceva la legge, erano dimenticati dal mondo».
A terra vedo uno spazio coperto di piastrelle d’un celeste slavato. Jean: «Qua c’era una baracca sopra». Era un pavimento. «Sì, lo hanno fatto loro. Anche lì, la stessa cosa». Manu: «C’era chi aveva piastrelle, chi aveva linoleum». Jean: «Le trovavano e le mettevano. Gli abitanti si aggiustano in tutti i modi, tanti sono di mestiere perché hanno fatto le case, fanno lavori pesanti». Le forze dell’ordine hanno proseguito l’opera di smantellamento anche durante l’inizio della pandemia: «Non si poteva camminare per strada, non si poteva fare sgomberi, e loro erano qua per sequestrare le baracche di quindici, venti persone», racconta Jean. Il mio amico si chiede perché, anziché sgomberare, le istituzioni non aiutino a organizzare meglio i campi: «Possiamo fare due o tre fontane di acqua, i servizi. Per la luce si può fare un contatore generale e anche noi paghiamo! Perché noi pagavamo ogni sera dieci euro per il generatore di corrente. Avevamo un generatore a benzina per una baracca. Altri prendono un generatore grosso e lo condividono e pagano quindici euro a settimana, ma al mese viene sessanta euro. Una baracca non usa sessanta euro di elettricità, se siamo collegati alla rete elettrica della città». «Non si deve dare alcun aiuto per non creare dei precedenti», commenta Manu.
Ricordo che in questa parte del campo, accanto al cavalcavia, vivevano cittadini rumeni, mentre dall’altra parte della strada c’era un piccolo accampamento di bosniaci. «Lì era un campo autorizzato. Dopo la guerra di Bosnia Herzegovina hanno fatto quel campo, poi hanno sgomberato pure quello, insieme agli abitanti di qui». Manu indica oltre la sterpaglia al limitare del campo: «Da quella parte vivevano famiglie bosniache, serbe, croate e di rom colorati. A una famiglia che abitava là in fondo hanno distrutto la baracca a tradimento, ancora prima che distruggessero qua. Era giugno, e loro stavano lì da quasi dieci anni».
Torno con la memoria a quest’estate, quando partecipai alla presentazione del film di Jean e Manu. I miei amici contestarono in pubblico i termini impiegati dai giornali: non solo “zingari”, ma anche “rom” e “campo”. Chiedo perché queste parole siano superficiali. «Vivevano anche i rumeni, non solo i rom!», risponde Jean. «Io sono rumeno e sono stato per cinque, sei mesi qua». Manu: «Nel campo o nella baraccopoli vive innanzitutto chi non ha una casa, e non è una loro scelta vivere così. Sono le istituzioni che creano i campi». Anche il concetto di “nomadi” è superficiale, secondo Manu: «Non c’è nulla di più stanziale che stare a Torino fin dagli anni Settanta, Ottanta, Novanta!». Jean allarga le braccia: «Io avevo la mia baracca qua, a venti metri. Questo albero era la mia uscita, perché io parcheggiavo la mia macchina qui. Così…». Jean cammina tra una robinia e la costruzione immaginata, sullo sfondo le macerie ammucchiate dalle ruspe. Il segno dei cingoli è inscritto ancora sulla terra. «Qui era l’entrata della mia baracca!», s’alza la voce di Jean. «Ho abitato pure io questo posto perché in quel momento non avevo lavoro, la mia ragazza è rom, io vivo con lei. Non mi dà fastidio aver abitato qui per sei mesi, potevo abitare anche per quattro, cinque anni. È vero che l’immondizia è anche nostra, ma molta è fatta dalle persone che vengono da fuori. Questa non c’era, quella non c’era…». Jean indica un cumulo di taniche vuote di cherosene dalla parte del fiume e un mucchio di copertoni vicino all’albero della sua capanna. «Hanno finito di sgomberare a settembre? In cinque mesi è arrivata questa immondizia. Quelle lamiere non erano nostre». Jean indica resti di lamiere mentre Manu mi avverte: «Quello è amianto». Jean: «Quella è roba pericolosa. E loro dicono che noi facciamo immondizia!». Abbiamo visto la ronda di agenti della municipale controllare che non ritornino gli abitanti, ma qui chiunque può scaricare i rifiuti. «I tubi di ossigeno non c’erano, sono arrivati dopo lo sgombero». Vicino al luogo della chiesa vedo bombole d’ossigeno abbandonate. «Lì c’era la chiesa e quei rifiuti non sono nostri, era tutto pulito». Chiedo a quale rito appartenesse la chiesa. Manu: «Era evangelica pentecostale». Jean: «Era frequentata ogni giorno dei santi, ogni sabato e domenica, erano troppissimi, venivano dagli altri campi. Adesso abbiamo idea di fare la chiesa di là, nell’altro campo». Nel campo di cui non parliamo, di cui non dobbiamo parlare. Manu: «Ci sono vari pastori». Come mai domina l’evangelismo pentecostale? Jean: «Io sono ortodosso. La gran parte di noi in Romania è ortodossa, ma quando siamo usciti in Europa tanti di noi sono pentecostali. Non è cambiata la religione, è più o meno uguale; però loro non hanno i santi pittati, noi ortodossi abbiamo i santi pittati. Loro pregano Gesù, noi preghiamo Dio. Ma è la stessa cosa».
In estate i funzionari offrirono mille euro ad alcune famiglie in cambio dell’impegno di lasciare le baracche. Jean: «Noi ci siamo opposti, abbiamo fatto assemblea. Quei soldi li hanno obbligati a prenderli. Non avevano altra scelta. I funzionari hanno dato un foglio bianco in mano dove era scritto che i mille euro servivano per tornare in Romania, o per pagare la caparra di una casa. Ma prendiamo per il culo questa gente? Con mille euro in Italia puoi prendere una casa? Con mille euro puoi prendere una tenda. La tenda è un posto civile, no?». Manu: «L’incaricato del reparto nomadi aveva detto: “Tanto qui con le buone o con le cattive ve ne andate comunque”, e aveva fatto riferimento alla celere». La polizia municipale ha un reparto speciale, il Rime: “Reparto informativo minoranze etniche”. Manu: «È la polizia dei nomadi, ma in verità è la polizia dei poveri: perseguitano le persone che non hanno casa». Immagino di tessere, in futuro, una storia della polizia speciale per i reietti della città. Il sole è sceso a occidente, dietro agli alberi di una terra guasta; a oriente invece, sopra il tetto della chiesa che non è più, è sorta la luna.
VIA RISS ROMOLI
Entriamo – Jean, Manu e io – attraverso un varco tra le lamiere. Fino alla scorsa estate questo era un bosco di rovi e sterpi, poi alcuni esuli di via Germagnano avevano pulito con un machete e una falce grande ed era nato un nuovo campo di ombre verdi, tra via Reiss Romoli e i territori incolti della Stura. Ora ci sono macerie ammucchiate, resti di capanne distrutte a settembre. «Sì, noi abbiamo pulito», sussurra Jean. «Vedi? La baracca della signora non l’hanno demolita». La signora è una donna rumena che vive qui da anni. Quando visitai il campo ad agosto la trovai all’ingresso, trascinava un carrello e precisò subito: «Io non sono zingara!». Lo sgombero e la distruzione hanno risparmiato la sua capanna quasi nascosta tra gli alberi. Jean: «Hanno fatto fuori solo i rom. Guarda!». Jean riprende la scena con il suo telefono. La signora esce e i due iniziano a parlare in rumeno, litigano. Lei minaccia di chiamare la polizia. «Va bene, chiama la polizia!», urla Jean. Manu e io consigliamo a Jean di andare via. Jean: «Se arriva la polizia, chiediamo perché loro – la signora e un uomo uscito dalla capanna – sono qua». «Io sono la custode, qua!», urla la donna nel suo telefono, forse davvero ha chiamato le forze dell’ordine. «Il Comune vuole portare gli zingari qua», grida. Credo abbia scambiato me e Manu per dei funzionari comunali. «Vaffanculo! Vai via di qua!», urla la donna a Jean. Abbiamo sollevato di nuovo la lamiera e siamo tornati in strada in un brusio di auto che sfrecciano. «Guarda, ha messo il lucchetto», nota Jean. L’ingresso principale è chiuso da un piccolo cancello. «I rom sgomberati e loro rimasti qua. E lei dice che è la custode!». Il mondo accanto all’asfalto di via Reiss Romoli è un impasto di concessionari, cimiteri di rottamazione, rivendite di pneumatici, ma accanto al cancello scende una strada verso la campagna. Oltre una transenna l’asfalto sfuma in sentiero sterrato, a sinistra un cascinale testimonia di un paesaggio in dissoluzione. «Mi ricordo la signora dai tempi di Lungo Stura Lazio: lei viveva lì», dice Manu. Il campo di Lungo Stura Lazio fu smantellato sei anni fa. Jean conferma: «Anche lei è stata sgomberata da lì». Mi sembra una guerra tra ultimi e provo a dirlo a Jean, ma il mio amico insiste: «La polizia lo sa che loro sono qua. Perché non ha demolito la loro baracca?». Questo diverbio dimostra che la razionalità del governo ha le radici nell’arbitrio. Ora intorno a noi c’è la campagna colorata dal grigio dell’inverno. «Sono interrati dei rifiuti tossici qua», mi spiega Manu. «Queste sono le famose Basse di Stura, sono molto ampie. Credo che da questa parte ci fosse produzione di vernici, quindi non si può abitare, non si può coltivare». Una terra desolata alla fine della città. Jean: «Ho fatto un filmato alla donna». Mentre camminiamo, Jean ci mostra il video. Nella concitazione, tra le urla, Manu e io eravamo disorientati, invece Jean, sornione, ha ripreso tutto impassibile.
Passeggiamo nella terra avvelenata, osserviamo il video e ascoltiamo le battute ironiche di Jean, attore dotato di un’arguzia a sangue freddo. Comprendo che le riprese di Jean hanno uno stile peculiare: egli, con le sue battute, riesce a cadenzare il tempo dei dialoghi; più che dar forma a uno sguardo, Jean impone un ritmo al mondo. Quando hai iniziato a riprendere? «Ho iniziato nel 2015, nel campo di Lungo Stura Lazio, quando ho visto che si facevano abusi e la gente guardava e non si avvicinava, perché la polizia li faceva stare zitti e chiamava rinforzi se qualcuno parlava». Manu: «Li intimidivano». Jean: «Ce n’era uno, un vigile, che li picchiava. Quello lì è stato cacciato per corruzione. Pensa te, uno che rappresenta la legge! Ho iniziato a riprendere con il telefono. La polizia me lo voleva prendere, diceva che non potevo filmare. Ho chiesto: “Vuoi picchiare anche me? Picchiami, però io sto filmando”. “Ah, stai filmando?”. “Ho filmato tutto!”». Questo si vede ne La versione di Jean, il film che aggrega alcune scene tratte dall’archivio di Jean. «So molto bene che in Italia si usa la voce mia contro la voce sua e ha sempre ragione lui, lui che lavora per il Comune, per la polizia… E se io non ho una prova, non ho mai ragione. Io volevo far vedere che abbiamo anche noi un po’ di ragione. Tutti i torinesi dicono: “Voi prendete i nostri soldi, abitate e non pagate le tasse”. Io dico: non vi auguro di stare una settimana in un campo. Qui ci sono i deboli e un debole come me non può parlare di un governante, di uno che ha tanti soldi; devi chiudere la bocca. Ma io faccio filmati. Io ero a posto con i documenti, con il lavoro: ero camionista. Diciamo che ero un passo avanti rispetto agli altri abitanti, ero “integrato”, come dicono loro».
La versione di Jean è stato accolto all’ultimo festival del cinema di Torino. «Per gli abitanti ero come un eroe perché filmavo tutto. E durante gli sgomberi fuori dal campo c’erano i giornalisti, ma non entravano. E perché? “Non ci fa entrare la polizia”. E cosa filmate da lì, i cordoni della polizia? Venite a filmare le donne, i bambini sgomberati! Tu come giornalista devi far vedere quello che succede dentro il campo». E quando entravano nel campo che cosa riprendevano di solito? «I topi, l’immondizia… Uno andava in giro a cercare di filmare i topi. In pieno sgombero! E qui in via Reiss Romoli, mentre filmavo, i poliziotti mi passavano a fianco e mi colpivano con la spalla! Volevano farmi incazzare. Ma io non mi incazzo, mi fa piacere vedere che lui si incazza più di me e fa qualcosa mentre io lo posso filmare, capisci?».
Jean ha trovato un modo di esprimersi e al contempo intralciare un poco la repressione. «Io non impedisco di fare il loro lavoro, io mi metto lontano e dico: “Se tu fai il lavoro corretto, giusto, esce un filmato buono e la gente ti può applaudire. Ma se tu fai cose brutte e si vedono, allora ti meriti quello che ti meriti”». «Questo è il cortocircuito», commenta Manu con un sorriso. Jean, raccontami del campo qui, in via Reiss Romoli. «Abbiamo pulito e in quei giorni la polizia non è venuta. Abbiamo costruito quasi venti baracche. La costruzione è durata quattro o cinque giorni. Loro hanno dei materiali riciclati, trovati sulla strada e con i mille euro di via Germagnano hanno comprato altri materiali per le baracche. Ma il campo non è durato un mese». Jean racconta del giorno di sgombero: «C’era più polizia che persone nel campo, c’erano quasi venti mezzi della polizia. Sono venuti i celerini con lo scudo. Per diciassette abitanti che erano nel campo!».
Lo sgombero non era stato annunciato, anzi la polizia in borghese, nei giorni precedenti, aveva detto agli abitanti che potevano restare. Arriviamo al limitare di un boschetto, tra gli alberi si apre una radura dove l’erba stinta copre un cumulo di rifiuti. «Qui possiamo fare un campo, no?», chiede Jean. «Jean, è tutto avvelenato», risponde Manu. Jean insiste: «Qua possiamo sparire dalla loro vista, veramente non ci vedono. Non è male di fare un campo. Ci penso. Quando ci sgomberano da lì…». Jean si riferisce ai luoghi segreti dove gli esiliati hanno costruito nuove abitazioni. Forse l’occhio di Jean è allenato a trovare nascondigli tra i confini slabbrati della città. Egli rievoca ancora lo sgombero in via Reiss Romoli: «E la gente chiedeva: “Cosa facciamo, dove andiamo?”. La risposta: “Non mi interessa, cercate un altro posto, andate via”. La polizia ha detto così. “Basta che andate via di qua”. Perché la gente, se sgomberi qua e là, non è che va via dall’Italia, va via da Torino. Li stai solo separando, li rendi dispersi! A Torino hanno occupato delle case, hanno occupato dei posti privati, e ci sono più campi ma sono divisi».
I baraccati devono essere diluiti e invisibili, così l’amministratore di turno può rivendicare uno sgombero sperando di racimolare qualche voto in più. «Loro lo hanno detto chiaro: “Noi vogliamo che voi diventate invisibili. Se siete troppi in un posto, dobbiamo venire a sgomberarvi. Voi dovete essere pochi, nascosti”. E quello a me dà fastidio perché non è una cosa che si deve risolvere così. Loro ci fanno diventare topi di campo, nascosti sotto l’erba».
Sentiamo provenire una musica dal bosco, m’immagino i canti degli elfi durante le feste del re della foresta. «Secondo me qualcuno vive qui», mormora Jean. Nel bosco s’apre una via libera, sembra che sia stata pulita di recente. Manu: «Questa è la linea del gasdotto. Parte da su, da dove c’era il campo». Mi volto, oltre la campagna vedo lontano il palazzo degli uffici Fedex in corso Giulio Cesare, il logo brilla al calare della sera. La linea del gasdotto prosegue verso il fiume, ci sono cartelli che segnano il tragitto dei tubi interrati. «Una città infinita», sospira Manu. La melodia aumenta di intensità. «Ah, è dall’altra parte del rio! Vedi, ci sono i furgoni», esclama Jean. La via nel bosco s’apre su un ciglio roccioso, sotto il fiume scorre metallico tra pietre lisce e sbiancate. Sull’altra sponda vediamo un insediamento recintato, da lì s’alza il fumo di un falò. Jean: «Ci sono dei giardini. Siamo nel Mar Nero!». Forse per “giardini” intende “orti”. Mi chiedo se non sia un piccolo campo. «No, nei campi non ci sono furgoni. Sono rumeni, hanno occupato o qualcuno gli ha dato questo posto per fare giardini. Non vivono qui, vengono solo alla sera». Il giro armonico evoca l’Europa orientale. Jean: «Non è musica zingara, è musica rumena, musica tradizionale moldava. Sono rumeni, perché gli zingari non sentono questa musica». Un ragazzo lascia l’insediamento con un secchio, raccoglie le pietre sul greto e torna su, verso la musica e il fuoco acceso nella sera.
LUNGO STURA LAZIO
Le lettere blu scuro dell’Iveco appaiono oltre il ponte sulla Stura, tra semafori e nuvole d’inizio marzo. Parcheggiamo davanti alle cancellate della fabbrica e attraversiamo la strada. Jean ci indica un passaggio che porta a un sentiero erboso, la vegetazione nasconde il fiume. Il sentiero piega verso il greto e arriviamo alle ultime propaggini del vecchio insediamento di baracche. «Questo era già campo», dice Jean. «Di qua si passa male, andiamo di là». Il bosco s’infittisce e alcuni tratti sono ormai impervi. «Passiamo di sotto. Qui troppe zanzare!». Per proseguire dobbiamo chinarci e camminare sotto un arco di sterpaglie. Il rombo delle auto è attutito dallo scricchiolio delle foglie sotto i nostri piedi. «Qui erano tutte le baracche, vedi?». Trovo vetri e scarpe tra i rovi. Crescono arbusti secchi e grigi: la natura avanza da cinque anni, dal tempo dello sgombero. «Prima non era così. C’erano duemila e cinquecento persone!». Com’è nato il campo, Jean? «Abbiamo iniziato a fare questo campo qui dal 1998, 1999. C’erano già due o tre famiglie… Poi ognuno si è portato un cugino, un fratello, un amico. E dopo anni dicono: “Siete abusivi”. Hanno detto che la gente non vuole integrarsi, non vuole avere contatto con la vita reale. Siamo andati al comune di Torino per chiedere di fare i documenti. “Dove abiti?”, chiedono. In Lungo Stura Lazio. “Ah no, ah no! Non avete la possibilità di farlo perché siete abusivi”».
Sono rimasti brani di divano, reti di materasso sfondate, il piede calpesta foglie che nascondono frammenti di gomma piuma. «Questi teloni erano sopra il tetto per coprire dalla pioggia», spiega Manu. Come è avvenuto lo sgombero? «È iniziato tra il 2013 e il 2014, lo hanno fatto per piccole porzioni di gente, per piccoli settori. Hanno iniziato a sgomberare quelli con il foglio di via. E poi sigillavano le baracche di chi usciva», racconta Jean. Interviene Manu: «Lo sgombero grosso è avvenuto a febbraio, con le ruspe. Alle cinque di mattina arrivavano. Non so quante volte nel 2015 sono entrati per spaccare, ma le grosse operazioni che abbiamo ripreso erano a febbraio, un’altra a settembre, un’altra a ottobre. Fino a quando, a novembre, gli ultimi sono rimasti accerchiati. Perché la gente non potesse più venire, la ruspa ha scavato un solco. Era pericoloso, potevano caderci dentro i bambini».
La distruzione delle baracche è avvenuta da occidente, dove ci troviamo ora, e ha proseguito verso oriente seguendo la corrente della Stura. Cammino su un bosco di molle da materasso e mi vengono a mente le terre ballerine che visitavo da bambino nella landa dei laghi. «Qui mi sembra che era la chiesa», dice Jean. Resta un basamento di cemento. L’area abitata era dunque davvero ampia, finora ne abbiamo percorso solo la periferia. «Dietro di noi c’era la fossa dei colorati», racconta Manu. Chi sono i colorati? «Sono i rom non assimilati, che non sono stati cambiati da Ceaușescu», spiega la mia amica. I rom meno influenzati dalla cultura rumena. «Tendono a restare per fatti loro. Vivevano più giù». Avevano le case in basso, accanto al greto. «Erano settanta persone, forse cento. C’era dunque un primo blocco, un quartiere di colorati, poi qui, vicino alla chiesa, le famiglie di popolazione varia». Qual è la storia dei colorati? «Jean, spiega perché i colorati stanno per i fatti loro». «Sono come da voi i meridionali con quelli del nord, la stessa cosa!», risponde Jean con una risata. «Hanno un altro tipo di comportamento, per non avere conflitti e litigi hanno deciso di stare separati». Quando parlate con i colorati che lingua usate? «La stessa, la lingua zingara, ma possiamo parlare anche rumeno». Manu: «Loro si sentono i “veri” rom, no?». «Ma loro sono i veri rom!», risponde Jean. «Loro hanno la tradizione di non mischiarsi, ci sono pochi casi di matrimoni con i rumeni. Però tra noi siamo tutti mischiati: rom, italiani, rumeni… Mia moglie è rom!». Li chiamate colorati per i vestiti? «Per i vestiti», conferma Jean. «C’è la tradizione che non permette di andare in giro senza quel vestito che hanno loro». Mi figuro le donne in abiti sgargianti e lunghe gonne, ma gli uomini come sono vestiti? «Deve avere il cappello nero grosso, deve avere i mustacchi, ma adesso hanno perso anche loro un po’ la tradizione». Anche Manu interviene: «Loro, tra gli altri lavori, sono anche calderari, fanno le stufe». Jean: «Lavorano l’argento, il metallo, sono tanti i lavori che fanno. Noi siamo castalò. Significa uno che non è puro rom, uno nato da un rumeno e da un rom, come io con mia moglie». Manu: «Prima che spaccassero tutto uno di loro mi aveva fatto vedere la stufa, fatta in parte con le bombole». Jean: «Se trovano un tubo, già inventano che cosa possono fare. Giustamente questa gente, dimenticata dal mondo reale, deve inventare tutto, deve inventare anche come si cammina sulla strada. Se trova qualcosa, per lui è utile. Trova una cassa di plastica, la monta sulla bici per portare qualcosa, ci porta anche i bambini».
Il bosco sembra composto da dolci, piccole colline. Ogni escrescenza del suolo è un cumulo di macerie ammassato dalle ruspe e integrato ormai in questo bosco di foglie cadute e alberi spogli. Abbiamo sempre il fiume a destra, la strada a sinistra: si sentono i motori mormorare. Il campo non s’estendeva verso l’asfalto per non esporre gli abitanti al rumore e per garantire loro l’invisibilità. «Il villaggio continuava verso il fiume, le capanne stavano anche in un gradino sotto e poi c’erano le latrine», racconta Manu. Camminiamo in fila indiana, attenti a dove mettiamo i piedi: prima Jean, poi io, infine Manu. «Anche se affondi, non puoi andare giù più di un metro, due!». Le istituzioni avevano promesso, dopo lo sgombero, di costruire qui un campo da golf. «Ma poi ci pensi, un campo da golf qua? Faranno la pista di kart in via Germagnano come hanno fatto il campo da golf qua! Loro aspettano che la natura mangia l’immondizia». Vedo un aspirapolvere emergere dal terreno. «Hanno messo i jersey, perché questo è il comune dei jersey», commenta Manu e indica a sinistra. Vedo una fila di blocchi di cemento sopra cui sono state montate grate alte tre metri: la barriera segna il confine tra il bosco di rottami e la striscia d’asfalto. Tutta l’area del campo è stata rinchiusa, dopo lo sgombero, da questa cancellata. «Così hanno impacchettato le macerie del campo distrutto», suggerisce Manu. Una devastazione creata dalle istituzioni. Jean trova una traccia della via sterrata che attraversava il campo: «Era questa la nostra strada, ora è piena di erba, vedi?». Vi crescono arbusti, rovi, sterpaglie, un piccolo albero d’acacia in fiore. «Qui si poteva passare con la macchina». In questo bosco l’immaginazione s’affatica: come figurare le baracche, la strada, la vita d’un villaggio? «La mia baracca era più in là. Ti faccio vedere. Qui ci devono essere i cani di Begu. Sono grossi, eh! Scendiamo di qua». Ci avviciniamo alla cancellata che separa dall’ampia via d’asfalto. «Ho perso l’orientamento», sospira Manu. Jean avverte: «Fate attenzione qua!». Pesto un sottile vetro di finestra coperto dalle foglie, la mia gamba affonda di mezzo metro nei rifiuti. «Attento!». Sembrano sabbie mobili. «Jean, dove hai messo i piedi?». «Dove ho messo i piedi? Sulla porta del frigo!». Jean cerca casa sua: «La mia baracca era l’ultima qua!». Per quanto ci hai vissuto? «Ho avuto la baracca per un anno e mezzo, però ci sono stato cinque, sei mesi. Poi ho preso la casa. Ho lasciato un amico ad abitare qua, però la baracca era mia. Guarda, quelli sono i cani, li senti?». Odo abbaiare lontano. Hanno messo dei cani a guardia delle macerie? «No! Questi sono dei cani che erano nel campo! Sono rimasti da allora. Non penso che ci attaccano. Sono alti così, eh! Come i San Bernardo», spiega Jean. Sono gli ultimi abitanti del campo. «Si nutrono da soli, mangiano topi». Sento una risata tesa e ironica di Jean: «Lì ci sono i cani. Ce n’è uno nero, grosso. Eccolo, quello bianco! Vedi? E poi son grossi!».
Ci allontaniamo, cerchiamo una via più agevole per il ritorno. Mentre cammino penso di ritrovare, qui, il segmento passato di una storia che coinvolge i campi di via Germagnano e via Reiss Romoli. Eppure, rifletto, ora cammino anche nel futuro: vedo in questo bosco il possibile avvenire degli insediamenti smantellati l’ultima estate. Il tempo è reversibile perché le amministrazioni cambiano senza che muti il governo dei marginali. Davanti a noi abbiamo una barriera di rovi, canne e ramaglie; deviamo il cammino verso il fiume. «Vedi queste reti arancioni? – chiede Manu –. Sono le reti che mettevano attorno alle baracche sequestrate delle famiglie che accettavano il patto proposto dal progetto». Il progetto di sgombero? «Il progetto mi pare che è nato nel 2013», dice Jean. La città possibile era il nome. «Ci sono diciassette milioni per tutta l’Italia per i rom, dal ministero dell’interno. Torino aveva più rom, e cinque milioni restano qui. Un milione e ottocentomila solo per Lungo Stura Lazio, gli altri soldi per i rom di altri campi, per l’integrazione». Ad alcune famiglie hanno offerto trecento euro al mese per sei mesi, ma solo a patto che tornassero in Romania. «E volevano essere sicuri che andassero in Romania e quindi davano i soldi là». «C’erano anche piccoli progetti per avviare attività agricole in Romania», spiega Manu. Mi sembra una distribuzione di soldi a pioggia affinché qualcuno accetti e se ne vada, corrodendo così l’unità del campo. «Loro hanno offerto soldi ai più svegli, vaffanculo a quelli che sono più scemi», esclama Jean. E Manu: «Poi davano fogli di via, ogni tanto si portavano qualcuno in questura. Un lavoro di logoramento. Poi in molti – perché si vedeva che ognuno era per sé – sono andati nei campi di corso Tazzoli e via Germagnano, ben prima dell’arrivo delle ruspe». Si preparava lo sgombero con offerte allettanti e minacce repressive. Manu continua a raccontare: «A qualcuno veniva offerto il patto da firmare, ad altri nulla perché non erano meritevoli». Come venivano scelti i meritevoli? «In base alle conoscenze delle cooperative e a un criterio di bontà: i malfattori o presunti tali non ricevevano offerte. Poi non c’era chiarezza. Non hanno spiegato mai una volta, alla gente, questa merda di progetto».
Nel dicembre del 2017 la procura ha chiuso l’indagine sugli affari illeciti che sarebbero avvenuti durante lo sgombero. Sono stati accusati di truffa aggravata i vertici del progetto, i responsabili delle cooperative coinvolte e un consigliere comunale della sinistra socialdemocratica. Mentre cammino spossato nel bosco d’immondizie mi torna alla memoria lo sgombero delle palazzine dell’Ex-Moi, edifici occupati da migranti che venivano dal mare. Anche laggiù, all’estremità opposta della città, il progetto di sgombero si presentava come opera umanitaria, avanzando effimere offerte utili a frammentare la comunità degli abitanti. Cammino in questi territori desolati per comprendere le politiche abitative a Torino, le loro contraddizioni. Qui le ragioni etniche e identitarie mi sembrano schemi di lettura che sviano lo sguardo dal problema principale: il diritto negato a case e servizi dignitosi. «Abbiamo deciso di vivere in queste condizioni perché non abbiamo altra scelta», sostiene Jean. Ecco usciamo dal groviglio. Lo sguardo s’apre sul fiume, nella luce d’arancio del tardo pomeriggio si vedono gli ultimi palazzi della città contro la linea lontana dei monti, i tralicci, il fluire pigro e scarno della Stura d’inverno; siamo su un poggio gravato di teloni e rami secchi. (francesco migliaccio)
2 Comments