I cittadini dicono NO a una nuova discarica sul loro territorio. Su queste semplici e chiare parole d’ordine si era convocata la manifestazione in via di Ponte Galeria per sabato 11 gennaio. Prima di allora non ero mai stato in Valle Galeria se non per prendere parte a manifestazioni di fronte al famigerato Cie, oggi Cpr. In quelle occasioni, devo ammettere, non mi ero mai soffermato su cosa fosse il territorio circostante al carcere per migranti. Così, nel prendere parte alla manifestazione contro la discarica, è come se avessi visto per la prima volta la Valle Galeria. Un luogo caratterizzato da attività che per decenni hanno massacrato un’area a vocazione agricola e dallo spiccato (ormai irrecuperabile?) potenziale naturalistico. Raffinerie di petrolio e cementifici fanno da corollario alla discarica di Malagrotta, duecentoquaranta ettari in cui per quasi quattro decenni sono stati accantonati i rifiuti di Roma.
Ho imparato molte cose il giorno della manifestazione. Se l’intento del comitato Valle Galeria Libera era informare i presenti sul livello di compromissione ambientale della valle e sui rischi per quanti vi abitano (circa trentamila persone), direi che hanno centrato l’obiettivo. Ho appreso, per esempio, che nel 2013 la Regione Lazio propose insieme al ministero per i beni culturali di apporre sulle aree di Magliana e di Malnome un vincolo di tutela ambientale e archeologica. Proposta poi ritirata due anni dopo. Ho scoperto che la nuova potenziale discarica, oltre a situarsi a poche centinaia di metri in linea d’aria da Malagrotta, finirebbe per confinare con la Riserva naturale statale del litorale romano. A quanto pare già nel 2012 era stata proposta quest’area come possibile discarica ma era stata bocciata per motivi di ordine ambientale – oltre a ricevere, allora come oggi, il parere sfavorevole del ministero della difesa. In effetti, non pare un’idea brillante posizionare una discarica in un’area che già vanta il ventotto per cento di incidenza tumorale in più della media cittadina e ha visto chiudere numerose sorgenti per inquinamento delle falde. Eppure l’amministrazione sembra non ammettere ripensamenti: la discarica si deve fare per rispondere all’emergenza rifiuti della Capitale, e si deve fare a Monte Carnevale, nella Valle Galeria; nonostante, è notizia recente, una mozione approvata in consiglio comunale per tornare indietro sul progetto e che ha visto votare molti membri della maggioranza insieme alle opposizioni.
PERCHÈ UN’ALTRA DISCARICA
Il perché di tanta determinazione nel voler impiantare in Valle Galeria una nuova discarica rimane difficile da definire. Forse, come insinuato da molti manifestanti l’11 gennaio, il motivo è da ricercare nel fatto che questo quadrante di Agro Romano sia storicamente stato destinato ad attività che si vogliono nascondere, innominabili, di cui vergognarsi. Ma ancor prima di questo mi domando – erano in molti a farlo l’11 gennaio – perché a Roma si debba ancora una volta pensare di impiantare una nuova discarica. Per risolvere il problema dei rifiuti della città: questa la formula che viene ripetuta in Campidoglio. La prima obiezione che si potrebbe portare è che una direttiva comunitaria che ha ormai più di dieci anni (The End of Waste – direttiva 2008/98/CE) impone di privilegiare altri sistemi – riciclo in testa – relegando la discarica a un ruolo marginale nell’affrontare il tema dello smaltimento.
Il problema è che mettere realmente mano al sistema dei rifiuti significa produrre un cambio di paradigma che metta in discussione posizioni di privilegio consolidate e difficili da scalzare. Uno dei momenti cruciali della campagna elettorale che condusse Virginia Raggi verso la poltrona di sindaca fu il suo penultimo comizio, che tenne a Rocca Cencia, promettendo la chiusura della discarica e l’apertura di un parco (Pnar – Parco nazionale dell’agro romano). Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. Dalla promessa di cambiare radicalmente il sistema di smaltimento dei rifiuti puntando su differenziata e riciclo, arriviamo oggi al progetto di una nuova discarica. Il che vuol dire permettere che l’attuale sistema – non sostenible, economicamente disastroso, inefficace per mantenere la città pulita – rimanga in piedi, si riproduca.
COME FUNZIONA OGGI?
Roma produce circa duecento tonnellate di rifiuti al giorno. Come li smaltisce? Il tutto si svolge sull’asse TMB-inceneritori-discariche. Al TMB (Trattamento Meccanico Biologico) viene portato tutto quanto raccolto – differenziata compresa – per essere separato. Dal TMB escono: materiale CdR (Combustibile da Rifiuto) destinato all’inceneritore; materiale da discarica e FOS (Frazione Organica Stabilizzata). La FOS – che non è compost, bensì terriccio inerte, col quale al massimo si ricoprono le discariche – dovrebbe essere interamente libera dai batteri. Così non accade a Roma, dove i TMB sono obsoleti e inefficienti, e la materia organica – che se fosse trattata tramite processi di compostaggio diverrebbe una risorsa, in termini ambientali se non ancora economici – viene degradata a FOS non stabilizzata, materia organica ancora contaminata da batteri. Non una distesa di terriccio quindi, ma la classica maleodorante e inquinante discarica. E qui torniamo alla necessità di un nuovo sito di stoccaggio: la chiusura dell’impianto di Colleferro il 15 gennaio rende necessaria una nuova area di sversamento per accumulare tutto quanto, in uscita dai TMB, non possa essere bruciato.
Sulle discariche e sui monopoli che a Roma ne hanno caratterizzato la gestione si è detto molto (anche se forse mai abbastanza). Meno sappiamo degli inceneritori, i cosidetti termovalorizzatori. Si tratta di impianti di grandi dimensioni e di difficile gestione, che necessitano di enormi investimenti iniziali, di un costante aggiornamento tecnologico e di ingenti spese di manutenzione (un esempio su tutti lo smaltimento dei filtri per fumi e polveri). Per tutti questi motivi è da smentire la vulgata secondo cui si tratterebbe di un sistema tutto sommato pulito per disfarsi dell’immondizia ricavandone inoltre energia. Malinteso alimentato dallo stato, che impone ai cittadini una tassa fissa nella bolletta della luce relativa al finanziamento delle energie alternative. Ebbene, tra le energie considerate “alternative” vi è esattamente la termovalorizzazione dei rifiuti. Energia alternativa sì, nel senso di alternativa ai combustibili fossili, ma non certo sostenibile e pulita.
COSA È ACCADUTO IN QUESTI ANNI A ROMA?
La notizia probabilmente più rilevante, è che il Comune ha a più riprese forzato l’Ama, l’azienda municipalizzata a capitale interamente pubblico, a non approvare i propri bilanci. Oggetto della contesa sono diciotto milioni di euro di crediti esigibili per servizi cimiteriali svolti e che il Comune non riconosce. Ama si trova oggi a un passo dal fallimento; se infatti non dovesse essere approvato un terzo bilancio sarebbe dichiarata automaticamente fallita, le azioni si svaluterebbero, l’azienda perderebbe enormemente di valore. Lasciamo da parte questo dato, lo riprenderemo più avanti, ma non dimentichiamo che stiamo parlando di un’azienda sostanzialmente sana dal punto di vista finanziario, con oltre cento milioni di capitale tra beni e azioni. Ha però un grande difetto, che le impedisce di ottenere credito dalle banche: essere legata al soggetto pubblico come unico committente con la conseguente dipendenza dalle alternanze politiche e dalle decisioni del Comune in assenza di un regime di libera concorrenza.
Ma il Comune di Roma ha un’altro problema cui far fronte. A metterlo alle strette è la Regione Lazio, che emanando il proprio Nuovo Piano Rifiuti, definisce degli ATO (Ambiti Territoriali Omogenei) all’interno dei quali i vari territori dovrebbero gestire l’intero processo di smaltimento. Se in generale gli ATO corrispondono alle province, nel caso di Roma viene costituito un ATO specifico che coincide con il territorio comunale. Detto in altri termini, i rifiuti prodotti a Roma non si possono trattare (quale che sia il sistema scelto per farlo) fuori dal perimetro comunale. Un bel problema, che si può superare nell’immediato solo andando in deroga. E qual è il metodo più semplice e incontestabile per andare in deroga alle leggi? Lo abbiamo visto con i terremoti e le alluvioni; il miglior sistema per saltare le leggi è l’emergenza. Ed ecco servita l’emergenza rifiuti di Roma, che in un colpo solo accantona tanto la direttiva europea che privilegia il riciclo rispetto all’incenerimento e alla discarica quanto la nuova normativa regionale che impone al Comune di tratttare i rifiuti nel proprio territorio. Sono solo ipotesi, è chiaro, ma sembrano più che verosimili.
COSA PUÒ ACCADERE D’ORA IN AVANTI?
Rimanendo nello stesso campo speculativo torniamo alle mancate approvazioni dei bilanci di Ama e al rischio di fallimento cui l’atttitudine del Comune la espone. E se fosse questo un modo per trovare una soluzione definitiva senza dover cambiare poi molto del sistema di raccolta e smaltimento in vigore ormai da decenni a Roma? Già, perché l’emergenza non è per sempre, può sospendere il problema momentaneamente, ma poi bisogna trovare soluzioni più a lungo termine. Proviamo quindi a capire cosa potrebbe accadere se Ama fallisse. Le azioni si svaluterebbero, lo abbiamo già detto, l’azienda sarebbe esposta a una privatizzazione a tutto vantaggio del potenziale acquirente. Anche questo è stato già detto, come pure abbiamo trovato sui giornali l’ipotesi di Acea come possible compratore. Ma perché Acea? Acea, questa è un’ipotesi affascinante, ha come secondo socio (con il ventitrè per cento delle azioni, mentre il cinquantuno per cento è detenuto dal Comune di Roma) la multinazionale francese Suez, specializzata oltre che nello sfruttamento di risorse idriche proprio nella gestione dei rifiuti. Suez possiede infatti il termovalorizzatore di Terni. Se Ama fosse proprietà di Acea (e quindi di Suez) nulla le impedirebbe di portare i propri rifiuti (che sono un bene di proprietà di chi li maneggia e costituiscono un valore commerciale) a Terni – benchè fuori dall’ATO – per bruciarli. Sono solo congetture, ma ci riconducono dritti dritti a Monte Carnevale, di nuovo in Valle Galeria. Sì, perché in questo quadro acquisisce ancora più senso la necessità di una nuova discarica dove conferire i rifiuti inadatti all’incenerimento, all’interno della Città Metropolitana di Roma.
PASSEGGIANDO TRA I CAMPI
La seconda parte della manifestazione dell’11 gennaio è stata se possibile ancora più istruttiva della prima. Se per più di un’ora, insieme a un paio di migliaia di persone, avevo ascoltato con interesse le parole provenienti dal palco improvvisato sul retro di un furgone, il breve corteo che è seguito mi ha fatto capire molto di più del luogo in cui mi trovavo. Dopo essersi incolonnato lentamente su via di Ponte Galeria, il piccolo serpentone di famiglie, aperto da un carro funebre e da un trattore, ha presto deviato in una strada di campagna, poco più di un sentiero. Non saremmo arrivati fino alle cave che dovrebbero ospitare la discarica, non ne avevamo il permesso e ne eravamo avvisati. Ma non importa, quel che mi è sembrato strabiliante è stato verificare in poche centinaia di metri come la discarica sia già ovunque su quel territorio. È nei cumuli di rifiuti abbandonati al margine delle strade, bidoni, scarti di costruzione, sacchi chiusi sul cui contenuto era difficile fare anche solo ipotesi. La discarica d’altra parte – quella vera, ufficiale, Malagrotta – è a poco più di cinquecento metri da dove ci trovavamo. Quando ho chiesto a un uomo, che con tutta la famiglia stava partecipando al corteo, dove portasse una stradina sbarrata da un cordone di carabinieri, lui mi ha risposto che in fondo a quella strada i camion di Ama trasferiscono i rifiuti su unità più grandi, perché li portino lontano, «dove non si sa». La discarica era dappertutto ed emergeva dalle parole delle persone intorno a me. «Guarda, quello è il campo dove hanno ritrovato tutti quei rifiuti farmaceutici interrati». «In quel casale volevano farci un agriturismo, poi hanno scoperto che la falda è inquinata, hanno lasciato perdere».
Non c’era rassegnazione, c’erano rabbia e una certa tristezza, ma anche voglia di non piegarsi all’ennesimo scempio. «La prossima volta dobbiamo essere di più, ditelo a quelli che oggi non sono qui». Con queste parole, sopra tutte le altre, sono tornato a casa l’11 gennaio. Gli sviluppi di una vicenda così complessa saranno il risultato di dinamiche altrettanto articolate, ma che gli abitanti della Valle Galeria vogliano ancora lottare per il proprio diritto alla salute e per il proprio territorio, mi è sembrata un’eccellente notizia. (ciro colonna)
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