Dal 21 ottobre è in libreria il nuovo numero (n.3 / ottobre 2019) de Lo stato delle città. Pubblichiamo a seguire un estratto dell’articolo Contro il gasdotto in Salento. Le voci del movimento No-Tap, di Paola Imperatore.
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È una mattina di gennaio quando, dopo una corsa verso la stazione di Lecce, salgo sul treno per Soleto, dove ad aspettarmi ci sono tre attiviste del comitato mamme No TAP. Riconosco la macchina per gli adesivi attaccati, contro TAP e contro l’eradicazione di ulivi a causa della Xylella, e subito ci presentiamo. Sono Anna Maria e Serena, madre e figlia, e Adriana. Mi portano con loro fino al presidio di Melendugno, il comune più interessato dalla costruzione del gasdotto Trans Adriatic Pipeline, che dovrebbe partire da Kipoi, al confine greco-turco, attraversare Grecia e Albania per poi poggiare sul fondale adriatico e giungere nella costa salentina per un tracciato totale di 878 km.
Il presidio è un via vai di persone che prendono da uno scatolone delle tute anti-contaminazione e delle mascherine antigas per poi indossarle. Le indosso anch’io e mi reco con gli attivisti al cantiere di San Basilio, dove è prevista un’azione simbolica per denunciare l’inquinamento della falda acquifera causato dai lavori di realizzazione del pozzo di spinta dove verrà inserita la talpa. Pochi giorni prima, Arpa Puglia, l’agenzia regionale per la prevenzione e la protezione ambientale, ha reso pubblici i risultati dei test effettuati sulla falda, constatando la presenza di cromo-esavalente nei pressi del cantiere. Il sindaco di Melendugno ha emanato un atto di diffida a proseguire i lavori.
Vedo per la prima volta il cantiere, delimitato dal filo spinato. In più punti sono dislocate camionette di polizia e guardia di finanza, mentre la Digos si tiene al passo degli attivisti che si muovono lungo il confine tra quella terra che è ancora loro e quella che è diventata di TAP. Mi portano a vedere i pezzi, di dimensioni mastodontiche, che dovranno comporre la talpa, arrivati proprio nei primi giorni del 2019. Nel tragitto di ritorno gli attivisti si rivolgono ai lavoratori del cantiere per metterli in guardia dalla presenza di agenti inquinanti, per sollecitarli a lasciare il cantiere o almeno a indossare maggiori protezioni. Nel cammino verso il presidio, iniziano a raccontarmi della lotta No TAP, che dal 2011 ha raccolto sempre più adesioni, fino a diventare una mobilitazione di massa conosciuta in tutto il paese. Quello che segue è il tentativo di raccontare qualche frammento di questa lotta attraverso le storie di chi ho conosciuto, di chi mi ha concesso un’ora o intere giornate fidandosi di me, senza la pretesa né la volontà di parlare “per” il movimento No TAP.
UN CORRIDOIO PER IL GAS
L’Ilva di Taranto, la centrale a carbone di Cerano, il cementificio Colacem di Galatina, le trivellazioni, l’emergenza Xylella, hanno segnato in questi anni i territori e le comunità salentine, che nel 2010-11, quando si inizia a parlare di TAP, decidono di incontrarsi per capire di più del progetto e del suo impatto. Sono in particolare associazioni ambientaliste come Tramontana, Biocontestiamo, ReAzione e il Forum Ambiente e Salute, insieme a singoli cittadini, ad attivarsi per comprendere la portata dell’opera e a decidere, nel dicembre 2011, di costituirsi in comitato No TAP.
Così, quando nel febbraio 2012 la multinazionale azero-svizzera presenta ufficialmente il progetto del gasdotto nell’aula convegni delle Scuole Medie di Melendugno, la sala è gremita e l’ingegnere di TAP viene sommerso di domande che presto si traducono in conferme delle molte preoccupazioni sorte dal lavoro di documentazione: quest’opera non si deve fare. Iniziano le assemblee pubbliche, i banchetti informativi sulle spiagge di San Foca, mentre il comune di Melendugno forma una commissione per redigere un “contro-rapporto” sul progetto. La popolazione locale si attiva quindi su due piani: da un lato informare sul progetto, dall’altro contestare in commissione TAP.
I punti critici sono tanti e gli attivisti, con il supporto di ingegneri e avvocati, li snocciolano uno a uno. Le loro contestazioni non riguardano “solo” il tracciato di 8 km che da San Basilio, punto di approdo del micro-tunnel, dovrebbe arrivare a Masseria del Capitano, dove è prevista la costruzione del Terminale di Ricezione del gasdotto, ma piuttosto l’intero progetto Corridoio Sud del Gas, di cui TAP rappresenterebbe l’ultima parte. Il Corridoio Sud, infatti, parte dall’Azerbaijan e attraversa Turchia, Grecia e Albania prima di giungere in Italia. Il tracciato italiano comprende un tratto che si sviluppa per circa 45 km nel mare Adriatico e che, una volta approdato in terraferma, prosegue per altri 8 km fino a Masseria del Capitano. Il gasdotto prosegue, distruggendo ulteriori aree rurali, per altri 55 km fino a Mesagne, in provincia di Brindisi, per collegarsi con un altro gasdotto chiamato Rete Adriatica Massafra-Minerbio. Quest’ultimo dovrebbe percorrere 687 km e attraversare dieci regioni italiane per giungere a pochi km da Bologna. Si realizzerebbe così l’obiettivo dell’Unione Europea di fare dell’Italia un hub del gas per l’Europa centrale, utilizzando rifornimenti di gas azero e ottenendo l’indipendenza energetica dalla Russia. Inoltre, negli anni si sono aggiunti altri due gasdotti destinati ad approdare in Salento. Si tratta del Poseidon, con approdo a Otranto, che collegherebbe Italia e Grecia e che fa parte del più ampio progetto rinominato EastMed, che coinvolge i paesi del Mediterraneo orientale come Cipro e Israele; e del gasdotto Eagle che collegherebbe invece la costa albanese con quella salentina.
All’idea di fare dell’Italia un corridoio del gas per l’Europa si sono opposte sia la comunità salentina che le comunità locali dell’Italia centro-orientale, che protestano contro la realizzazione della Rete Adriatica, per di più in zone ad altissima pericolosità sismica. Inoltre, sui due progetti non si applica, su disposizione del Gip di Lecce, la direttiva Seveso sul rischio di incidenti industriali, né una valutazione di impatto ambientale (VIA) unitaria che permetterebbe di considerare l’impatto del tracciato nel suo insieme.
Gli attivisti No TAP contestano la strategia europea sia rispetto alla necessità di aumentare gli approvvigionamenti di gas, sia rispetto all’obiettivo, che si vorrebbe perseguire con TAP, di una politica di indipendenza energetica. Guardando ai dati del ministero dello sviluppo economico, il consumo di gas in Italia nel 2018 risulta in netto calo rispetto al 2005 (-16%) e rispetto al 2017 si registra un calo del 3,3%, motivo per cui sembra poco verosimile che possa esservi una richiesta di gas tale da giustificare l’opera. Inoltre, gli attivisti mettono in discussione il fatto che con il Corridoio Sud si possa ottenere l’indipendenza energetica dalla Russia. Infatti, il giacimento di Shah Deniz in Azerbaijan non sembra capace di rifornire i paesi europei per cinquant’anni, come previsto dal progetto, e per questo sarà necessario ricorrere ai rifornimenti energetici russi. Infine, nonostante le promesse di una riduzione del costo del gas sulle bollette, i No TAP ribadiscono che in realtà quest’opera peserà sulle tasche di tutti i contribuenti.
LA STORIA DEL PRESIDIO
Per conoscere meglio le ragioni di questa comunità resistente, mi sono addentrata nel presidio No TAP, oggi in un edificio di proprietà comunale gestito dai membri del movimento. Nella sala dove gli attivisti si riuniscono ci sono una serie di foto che immortalano alcuni momenti di lotta, una mappa che segnala gli incidenti avvenuti nei pressi di gasdotti e una che mostra il percorso del Gasdotto Sud, rinominato Mafiodotto dopo che un’inchiesta de L’Espresso ha messo in luce la trama di rapporti tra oligarchi russi, manager aziendali e conti esteri legati alla costruzione del gasdotto. Ma a colpirmi è soprattutto una bandiera rossa che ritrae il viso di una donna, con accanto la scritta Brigata Peppina. Mi raccontano la storia di Angelica, detta Peppina, un’attivista morta in un incidente stradale nell’estate del 2017 a soli venticinque anni. L’evento scuote l’intero movimento, che saluta Angelica con una grande manifestazione e decide di intitolarle il presidio.
In precedenza la sede del presidio era a San Basilio, dinanzi al cantiere TAP. Il presidio nasce nel marzo 2017, quando TAP decide di sradicare e trasferire 211 ulivi per fare spazio al cantiere, nonostante la mancanza delle dovute autorizzazioni. La popolazione locale, che fino a quel momento aveva manifestato la propria opposizione all’opera attraverso azioni legali, ricorsi, osservazioni, e con un’intensa attività di sensibilizzazione, si ribella e decide di interporsi fisicamente alla costruzione del gasdotto. «Il giorno dell’arrivo dei primi camion – racconta Alessandro – eravamo in pochi e tutti di provenienze diverse. Ci siamo guardati in faccia, erano le sei del mattino, non c’è stato neanche bisogno di dire: che facciamo? Ci siamo seduti a terra e abbiamo bloccato la strada».
Una data storica per i No TAP, come testimonia anche Gianluca, portavoce del movimento: «Il 17 marzo 2017 il comitato ha lanciato un messaggio sulla propria pagina Facebook, seguita da 25 mila persone: non ce la stiamo più facendo a fermarli, scendete ad aiutarci! Così il comitato è diventato movimento di piazza». Le dieci persone che nelle prime ore del mattino si siedono a terra per bloccare il transito dei camion, diventano presto cinquanta, poi cento, fino ad arrivare a più di mille cittadini determinati a opporsi alla cantierizzazione di San Basilio.
È in quei giorni che la lotta assume una connotazione popolare, capace di unire ambientalisti, studenti, contadini, casalinghe, ultras, persone di ogni età e di diverse provenienze politiche. In questa fase si tessono nuove alleanze e il comitato diventa movimento No TAP. Il presidio permanente avrà un ruolo fondamentale nella costruzione di relazioni e di modi alternativi di organizzare il lavoro, di produrre e usare energia. «Nel presidio – racconta Serena – è entrata gente che s’era portata la bombola del gas per la stufa, la bombola per cucinare e il secchione dell’immondizia. Quando siamo usciti da lì c’avevamo il forno in pietra, ci accendevamo la luce con il pannello…». La gestione del presidio diventa un’occasione per ragionare su risparmio energetico e autoproduzione, ma non solo. La condivisione di uno spazio, fisico e politico, porta gli attivisti a conoscersi e riconoscersi, pur nelle diversità di percorsi, visioni e pratiche.
Marcella, altra attivista, mi invita a casa per pranzo. È una casalinga e fino al 2017 si occupava prevalentemente delle faccende di casa. Con l’inasprirsi del conflitto anche lei, insieme a tutta la famiglia, si è avvicinata al presidio partecipando al comitato delle mamme. All’inizio era diffidente verso le componenti più radicali del movimento, ma con il tempo la diffidenza si è trasformata in complicità. Mi racconta di quando ci furono i blocchi stradali e le mamme si interposero tra i più giovani e le forze dell’ordine per difenderli, o di quando uno dei militanti fu arrestato e le attiviste “più anziane” andarono sotto il carcere per chiederne la liberazione.
A Melendugno il conflitto è servito anche a far maturare una diversa coscienza nei riguardi dello stato. In questa mutata percezione ha pesato molto l’istituzione di una “zona rossa”, recintata da filo spinato, finalizzata a difendere gli interessi privati di una multinazionale, nella notte tra il 12 e il 13 novembre 2017. Da quel momento gli abitanti si sono sentiti derubati del diritto di attraversare il proprio territorio, obbligati a mostrare i documenti, a esibire un pass rilasciato dalla questura per uscire e rientrare a casa, per innaffiare le proprie terre. Lo stesso sindaco di Melendugno si è lamentato della presenza spropositata di forze dell’ordine, circa 650 uomini. Il movimento ha risposto con una tre giorni di protesta, sostenuta dalla serrata dei commercianti di Melendugno e da un corteo che ha portato una parte dei manifestanti a entrare nella zona cuscinetto antistante quella rossa, azione costata il fermo di polizia a cinquantadue persone.
Questa “esperienza dello stato” ha segnato il movimento. Anna, per esempio, mi racconta che nella sua famiglia quasi tutti lavorano nelle forze dell’ordine o nell’esercito, e che fino a poco tempo fa lei stessa, guardando alla televisione i servizi di scontri tra agenti e manifestanti, condannava i secondi giustificando l’azione dei primi. Oggi quel rispetto per la divisa si è trasformato in rifiuto. I blocchi stradali, gli inseguimenti della Digos, le denunce e il controllo continuo dei documenti, segnano la quotidianità di chi si oppone al gasdotto. L’11 giugno 2019 la procura di Lecce ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini a quarantasette persone per gli episodi che si sono verificati dal novembre 2017 al giugno 2018. Ma dalla repressione il movimento No TAP trae anche coesione. Lo capisco quando mi raccontano di Peppina, o quando sento le parole di Serena che racconta di suo figlio, Enea, nato con una malattia legata a fattori derivanti dal contesto ambientale. Per avere una diagnosi ha dovuto girare in lungo e in largo il paese, fino a Trieste, dove i medici sono giunti a questa conclusione. Una diagnosi che non stupisce Serena, dato che proprio dietro casa sua vi è un cementificio, Colacem, che rifornisce anche TAP. Mi dice che in tanti hanno iniziato a scoprirsi, a raccontarsi. Sono molti, infatti, i bambini che nascono con malattie congenite e questo viene spesso vissuto con vergogna, come qualcosa da tenere tra le mura di casa.
A questa “famiglia”, che si ridefinisce giorno per giorno, ognuno dedica il tempo che può. Chiudono il bar, finiscono il turno, terminano di irrigare la terra, lasciano i bambini a scuola e raggiungono il presidio: per stare insieme, per dare informazioni dopo aver fatto visita ai cantieri, per confrontarsi sulle questioni del giorno, consci del fatto che la controparte non risparmia colpi. (continua…)
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