Dal 21 ottobre è in libreria il nuovo numero (n.3 / ottobre 2019) de Lo stato delle città. Pubblichiamo a seguire un estratto dell’articolo “Non ci sono alternative”. Il modello Milano tra mito e realtà, di Lucia Tozzi.
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“Milano è una città fondata sul lavoro.
E sull’aperitivo.
E sul business lunch.
E sulle sky terrace.
E sul cibo a km 0.
E sul networking.
E sugli eventi live.
E sull’asap, btw, fyi”.
Così recita la pubblicità di un club per imprenditori su modello inglese appena aperto in un albergo del centro. È una delle tante rievocazioni delle glorie della “Milano da bere”, aggiornata con tutto il repertorio del lessico contemporaneo. L’aggressività goduriosa degli anni Ottanta viene mitigata con il green washing del km 0 e con l’atmosfera lounge delle sky terrace, mentre la spavalda affermazione di se stessa viene sostituita dal provinciale cosmopolitismo della lingua nerd.
La cosa più triste però è che la distanza tra la rappresentazione euforica e la realtà in pochi decenni è molto aumentata. Negli anni Ottanta di Craxi la disoccupazione aveva raggiunto il suo picco massimo, certo, ma quelli classificati come occupati non erano poveri. Oggi Milano è piena di working poor, o di persone sostenute dal benessere delle proprie famiglie d’origine. Gran parte del lavoro che risulta nei dati ufficiali è fatto di estrema precarietà, a volte anche poche ore al mese, di umiliazioni e di scarse remunerazioni. E questo non riguarda solo i lavori più umili, ma anche quelli intellettuali e professionali.
Leggendo i dati e i rapporti della Caritas, ma anche di Assolombarda e della Camera di Commercio, si evince che negli ultimi dieci anni sono aumentate, tra le altre cose: la concentrazione del reddito nelle mani del 10% più ricco, il numero di senzatetto (+21%), gli individui in stato di povertà assoluta (+13%), la segregazione scolastica, la povertà educativa. Da qualunque punto di vista la si guardi, la situazione economica degli abitanti è sempre più polarizzata: la forbice degli stipendi tra i lavori pregiati e quelli squalificati, tra le posizioni apicali e i livelli più bassi, tra assunti e precari, tra uomini e donne, per fasce d’età, ma anche, per esempio, tra quei pochissimi professionisti che accentrano il lavoro e la massa di quelli che annaspano (penso soprattutto agli architetti e ai giornalisti, ma lo stesso vale per i cosiddetti lavori creativi).
Ma le differenze più importanti sono quelle generate dalla proprietà immobiliare. Quasi tutto, a Milano, gira intorno al Real Estate: l’immagine, la politica, l’economia, la comunicazione, la cosiddetta innovazione culturale e, naturalmente, il turismo. Se gli stipendi medi calano del 10% (per difetto), il valore del metro quadro lievita, e non solo in centro: quartiere dopo quartiere, dai Navigli a Tortona all’Isola, a NoLo, all’area colonizzata da Prada a sud dello scalo di Porta Romana, la gentrification si espande come da manuale, attivando la consueta logica dell’espulsione. Per ogni punto che guadagna nelle classifiche internazionali, Milano respinge fuori, nei comuni dell’hinterland, i suoi abitanti poveri. Ma l’espulsione non è solo un movimento centrifugo sulla mappa, agisce anche e soprattutto sul fronte sociale, scava un abisso tra proprietari e non proprietari, e tra i proprietari nelle zone centrali in crescita e quelli delle periferie che assistono a un calo costante del valore delle loro proprietà.
Come molte altre città europee a cui ambisce così tanto assomigliare – Londra, Amsterdam, Barcellona, Berlino, Parigi o Lisbona – Milano ha vissuto dai primi anni Duemila, dalle giunte di destra Albertini e Moratti fino a quelle teoricamente di sinistra di Pisapia e Sala, una crescita che, come dice Saskia Sassen inEspulsioni (Il Mulino, 2015), “ha dato l’impressione di una generale prosperità”, rappresentata dallo spettacolo della “rigenerazione urbana” e degli eventi, ma che è fondata sulla distruzione creatrice del capitale, su un’economia di natura estrattiva che produce e contemporaneamente maschera l’aumento di povertà e disuguaglianza. “Gli ultimi due decenni – scrive Sassen – hanno visto crescere radicalmente il numero di persone, imprese e luoghi espulsi dai fondamentali ordinamenti sociali ed economici del nostro tempo. Questa svolta a favore della pratica dell’espulsione è stata in alcuni casi il frutto di mere decisioni, mentre in altri è dipesa direttamente da alcune tra le realizzazioni economiche e tecnologiche più avanzate del tempo presente. Forme di conoscenza che si rispettano e si ammirano sono spesso all’origine di lunghe catene di transazioni che all’ultimo anello non possono avere altro che espulsioni. L’Occidente ne offre un esempio familiare, a un tempo complesso ed estremo: l’espulsione dei lavoratori a basso reddito e dei disoccupati dai sistemi pubblici di servizi sociali e sanitari, nonché dalla previdenza e dal sostegno alla disoccupazione”.
LA CAPITALE DEL T.I.N.A.
Applicata al caso Milano, questa logica predatoria è evidente se si legge in contropelo la storia degli ultimi vent’anni, generalmente narrata come un’ascesa gloriosa culminante nel successo post-Expo. Le giunte Albertini e Moratti, determinate a uscire dalla cupezza di Tangentopoli, hanno avviato un piano aggressivo di privatizzazioni e deregulation urbanistica, finalizzato ad attrarre investimenti italiani ed esteri: svendita del patrimonio pubblico e governo imprenditoriale del territorio, a scapito dei servizi alla cittadinanza (erosione del budget per le periferie, per il già esiguo diritto all’abitare dignitoso, per i servizi pubblici, l’assistenza sociale e la manutenzione urbana), deindustrializzazione e terziarizzazione. In un mondo dominato dall’economia finanziaria, la grande partita si gioca interamente nel campo immobiliare: sono partiti così nel primo decennio del secolo la seconda fase della Bicocca, il progetto Porta Nuova, Citylife, Santa Giulia, Sesto San Giovanni, Porta Vittoria, Portello, Cerba e l’Expo a Rho. E hanno attratto, in effetti, le banche internazionali, Deutsche Bank, Merril Lynch, BNP Paribas, UBS, Morgan Stanley, Lehman Brothers, Goldman Sachs: nomi per lo più indissociabili dalla grande crisi economica mondiale che hanno provocato nel 2007-2008, originata proprio dal settore immobiliare finanziarizzato. Una crisi che ha colpito anche Milano, anche se questo capitolo è stato rimosso dalla storia. Tutti i grandi cantieri hanno rallentato, sono entrati nell’incertezza, compresi Garibaldi Porta Nuova e Citylife, e molti sono falliti. Santa Giulia, bloccata sul nascere, è diventata l’inferno per quei pochi che avevano comprato e si sono trovati ad abitare in un deserto tra gli svincoli di Rogoredo, senza servizi. Porta Vittoria ha visto nascere solo orrendi palazzoni, il Cerba non ha mai visto la luce, Sesto è implosa nella corruzione del sistema Penati. Formigoni, Ligresti, Zunino, Ricucci, Coppola, Statuto, e molti altri politici, imprenditori, mafiosi e intermediari che hanno guadagnato da quelle operazioni miliardi di euro, sono finiti male, travolti da una seconda Tangentopoli. Come racconta Franco Stefanoni in Le mani su Milano (Laterza, 2014), i progetti che sono ripartiti devono la loro ripresa non alla fiducia per l’Expo imminente (fiducia che ha raggiunto i suoi livelli più bassi proprio nei mesi prima e dopo l’apertura, quando i pezzi grossi erano in galera, i lavori incompleti e Rho deserta), ma alla necessità di salvare le banche che avevano finanziato fino all’80% i progetti stessi. Il ruolo fondamentale che ha avuto l’Expo è stato invece quello di mettere a punto una propaganda mediatica degna di una dittatura, che ha sistematicamente censurato ogni forma di critica e trasformato una stagione di fallimenti, appalti illegali, grattacieli pacchiani e un mega-evento in perdita in un successo, in quello che sarebbe poi diventato il modello Milano, una delle più grandi fake news mai partorite.
Propaganda e censura non sono state imposte per mezzo di leggi repressive e olio di ricino, certo, ma con i soldi. L’editoria è forse il settore che ha più sofferto della crisi globale, consegnandosi mani e piedi alla macchina comunicativa di Expo e di chiunque potesse pagare. La finanza è fondata sulla reputation, e i media ne fabbricano a palate, senza più alcuno scrupolo. Non offrono più pagine pubblicitarie separate, ma articoli, servizi, reportage indistinguibili dalle notizie vere.
E così proprio le “realizzazioni economiche” più ammirate della Milano contemporanea, le grandi operazioni urbane fondate su complessi strumenti finanziari, hanno generato quelle lunghe catene di transazioni che infine conducono alle espulsioni. L’esempio più banale è l’icona del Bosco Verticale, che ha causato insieme agli altri interventi di Porta Nuova l’espulsione dal quartiere Isola di tutti i suoi abitanti più deboli economicamente in un lasso di tempo brevissimo. Ma il successo mediatico di Milano ha fatto anche ripartire Citylife, sta gentrificando la zona sud intorno alla Fondazione Prada, quella a nord di Loreto (NoLo), fino a Rovereto-Gorla e alla Martesana; sta lanciando l’operazione Scali Ferroviari, costringe a un trasloco forzato gli studenti di Città Studi dal pregiato tessuto urbano in cui abitano a Rho, pur di trovare un futuro all’area disgraziata dell’ex-Expo; spinge di nuovo su Sesto San Giovanni e Santa Giulia, privatizza piazze e spazi pubblici e caserme, e persino lo stadio. Fette sempre più ampie di questi milioni di metri quadrati vengono acquisite da stranieri: fondi del Qatar, australiani, cinesi, americani; come a Londra. Il mercato degli affitti normali è spazzato via da Airbnb e affini, trasformando Milano in una città di seconde case, come Venezia o Firenze. Si progetta di spendere trecento milioni per riaprire dei piccoli spezzoni di Naviglio in centro, e si sbandiera come miracoloso lo stanziamento di un milione per le periferie. Si insegue un modello di crescita illimitata anni Ottanta, autorizzando milioni di metri cubi di nuove costruzioni e infrastrutture, e ci si proclama paladini dell’ambiente e fratelli dei Fridays for Future.
In un discorso che mostra la consapevolezza di potere dire impunemente tutto e il contrario di tutto, senza timore di essere smentiti, il sindaco Sala si rivolge così ai suoi concittadini: “Rivendico il diritto e anche il dovere di un sindaco di guardare al futuro della città e di reperire i mezzi necessari per continuare a mantenere Milano al livello raggiunto oggi e anche a migliorarlo. Guardare avanti, puntare a un futuro migliore, più equo e più rispettoso dell’ambiente: questi sono gli obiettivi che ci siamo proposti e questo è il mio modo di intendere il mestiere di sindaco. Avanti allora con le Olimpiadi del 2026, il nuovo grande appuntamento di Milano e dell’Italia con il mondo. Avanti con gli sviluppi urbanistici che devono continuare a costruire una città che cresce e che è in grado di offrire soluzioni abitative ai giovani, agli anziani e a chi fa fatica. Avanti con la realizzazione di un welfare capace di dare ai milanesi, vecchi e nuovi, pari opportunità di vivere in città. Avanti con la cura della città, con le opere del Piano Quartieri e con la sua volontà di continuo confronto con tutti i cittadini. Avanti con l’attenzione alla sicurezza e al controllo di quelle situazioni dove l’illegalità cerca di affondare le sue vergognose radici”.
Il modello Milano è questo, la difesa più strenua del T.I.N.A. (There Is No Alternative), la censura del conflitto tra capitalismo e democrazia, tra liberismo e uguaglianza, tra sicurezza e giustizia, tra crescita illimitata e difesa dell’ambiente, la finzione che gli opposti siano compatibili, e la negazione di un’evidenza storica: la ciclicità delle crisi del capitalismo. Milano ha voluto a tutti i costi aggiudicarsi le Olimpiadi che nessun’altra città vuole più, perché i numeri hanno ormai dimostrato che questi eventi producono più spese che guadagni, e sempre secondo la regola aurea delle perdite socializzate (scaricate sul pubblico) e dei profitti privatizzati e accumulati nelle mani di pochissimi. Se dovesse nel frattempo scoppiare una nuova bolla, questo impegno olimpico potrebbe risultare fatale, come lo fu nel caso greco. (continua…)
“Santa Giulia, bloccata sul nascere, è diventata l’inferno per quei pochi che avevano comprato e si sono trovati ad abitare in un deserto tra gli svincoli di Rogoredo, senza servizi. ”
Ma lei è consapevole di quello che ha scritto?
Basta una frase palesemente falsa e denigratoria per (s)qualificare un intero articolo che evidentemente vuole dimostrare una tesi preconcetta.
Disinformazione o malafede?