Sarà presentato mercoledì 13 novembre, ore 18,00, alla libreria Ubik (via Benedetto Croce, 28), il nuovo numero de Lo stato delle città. Spunto di discussione saranno gli articoli che raccontano la condizione delle detenute del penitenziario femminile di Pozzuoli, riflettono sulle possibilità e i limiti dell’intervento sociale e politico nelle istituzioni penitenziarie, e più in generale sulla complessità della questione carceraria.
Proponiamo a seguire un estratto dell’articolo Da qui il mare non si vede. Ascoltare le donne nel carcere di Pozzuoli, di Luigi Romano e Gaia Tessitore.
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Jenny entra in punta di piedi, con l’imbarazzo sul volto che quasi le arrossisce le guance. La sua fisicità nordafricana invade lo spazio polveroso della piccola biblioteca dove abbiamo organizzato i nostri primi incontri. I capelli rasati non irrigidiscono il suo viso di ventenne, i leggings scuciti accompagnano le curve delle gambe e sotto la felpa aderente si intuisce un seno giovane. È al suo primo ingresso in carcere, ma alcune cicatrici che si scorgono sulla pelle scoperta lasciano immaginare un passato non facile.
Jenny viveva a Castel Volturno, ora è detenuta per spaccio. Il suo ragazzo, per salvarsi, le ha infilato nello zaino la droga che vendeva dietro la stazione centrale di Napoli. In attesa di giudizio, è stata catapultata tra le mura di Pozzuoli senza capire bene cosa le stesse accadendo.
Il nostro primo incontro non serve a molto. Jenny scoppia a piangere, il suo corpo sobbalza per i singhiozzi sulla sediolina di legno da scuola elementare, la sofferenza la travolge e io non riesco a reggere il suo sguardo. Io mi chiamo Alexandra. Sono un avvocato, una militante, un aspirante magistrato, un insegnante, un musicista, lavoro all’università, gioco in una squadra di rugby. Da quasi un anno frequento il carcere femminile di Pozzuoli, dove sono entrata con Antigone per costruire uno sportello a tutela dei diritti delle detenute.
Quando ritrovo Jenny sono passati sette giorni, mi sembra meno spaesata della volta scorsa. È accompagnata da tre detenute nigeriane, alcune forse le conosceva prima di entrare qui. Esiste una gerarchia tra queste donne, si vede bene. Jenny racconta la sua storia guidata dalla più anziana del gruppo. Il suo timido anglo-africano viene spesso interrotto dalla voce dell’altra, che ha fretta di cambiare argomento e discutere la traduzione degli atti processuali della giovane compagna.
Dopo di allora non ho più avuto notizie di Jenny. Ho provato a richiamarla, ma non ho mai ricevuto risposta. La disciplina carceraria non si impartisce soltanto con l’isolamento, la negazione dei benefici di pena o l’esclusione dal lavoro. La tenuta dell’ordine si avvale anche delle gerarchie interne tra detenute. La cinta muraria isola il prigioniero dalle relazioni sociali, ma nello spazio detentivo penetrano e si riproducono gli stessi contenuti di sopraffazione tipici del mondo dei liberi.
UN VECCHIO CONVENTO
Il carcere femminile di cui racconto si trova al centro di Pozzuoli, sul litorale flegreo appena fuori Napoli, e appartiene alla “vecchia generazione” degli istituti di pena. Il complesso è un ex convento risalente al XV secolo, costruito dai frati minori sulla collina che domina il golfo, e poi ristrutturato dal viceré Toledo dopo il terremoto del 1538. L’intercambiabilità di categorie come cura e custodia, assistenza e redenzione, ha contribuito a rendere possibile la trasformazione di molti vecchi edifici conventuali in ospedali, lebbrosari, manicomi, istituti di correzione e carceri. Le mura di Pozzuoli lo testimoniano, con il loro passato e presente di convento, manicomio e carcere femminile.
Oltrepassato il cancello d’ingresso, lo spazio si divide in due aree: una amministrativa e l’altra detentiva, dove ci sono le tre sezioni di reclusione divise per piano, con celle che arrivano a contenere fino a quattordici detenute. Ogni cancello che si apre ti si chiude alle spalle, e così ogni porta. La puzza ti insegue nei corridoi, mischiandosi con l’odore di cibo e del gas delle bombole da campeggio usate per cucinare. Accanto a quest’area se ne snoda una più piccola, “verde”, dove sono collocati i laboratori, come quello di torrefazione. Prima del secondo cancello che conduce alle sezioni ci sono due stanze: la prima è la biblioteca, l’altra uno spazio anonimo che viene utilizzato quando serve.
La stanza in cui incontro le detenute è molto piccola. Umido, muffa e rumore di chiavi rendono tutto più complicato, a volte siamo talmente tante che le voci rimbombano, si accavallano. Le richieste di aiuto sono molteplici, ma la necessità delle donne che ho di fronte talvolta è semplicemente quella di avere una voce, di essere ascoltate. In inverno le celle sono fredde, i riscaldamenti non funzionano bene. Per chi si fa la doccia e si lava anche i capelli è una tragedia: ci sono solo due phon per piano e bisogna fare a turno sperando che non si surriscaldino così in fretta da non poterli più usare. D’estate, a celle piene, è anche peggio. Il caldo è asfissiante, gli spazi sembrano accorciarsi e dal mare non arriva neanche un po’ di vento.
Teresa è in carcere per tentato omicidio nei confronti del compagno. Le sue mani callose evocano un passato di lavoro, sembra una donna delle campagne meridionali di sessant’anni fa e invece da un anno è rinchiusa a Pozzuoli. Ha il viso pieno e rotondo, la saliva le esce dalla bocca insieme alle parole che vengono fuori lente, con difficoltà. È stravolta dai farmaci che hanno contribuito ad appesantirla.
Benzodiazepine e ansiolitici sono quotidianamente somministrati in carcere, anche in mancanza di una specifica diagnosi. Alla mancanza di un percorso di sostegno psicologico, si sopperisce con la contenzione chimica continua, a bassa intensità. Molte donne ci raccontano di compresse di cui non conoscono neanche il nome, ma solo l’effetto: «Mi fa dormire». Quando chiedo se le usino anche fuori, quasi tutte dicono di no, non ne hanno fatto mai uso prima. «Ma basta che chiedi, ti danno quello che vuoi per farti stare tranquilla».
Gli psicofarmaci in carcere hanno un ruolo decisivo per la gestione della sofferenza secondo l’unica direttrice considerata: la contenzione. Al di là dell’abuso nella somministrazione di medicinali in ottica lenitiva del dolore fisico e sedativa per istinti ed emozioni, vi è un altro effetto che riflette quello che accade nella società dei liberi. Il sostegno farmacologico indiscriminato diventa lo strumento ideale per proiettare un’immagine di sanità e libertà dal dolore, di cui le detenute hanno un ovvio e definitivo bisogno.
Eppure con il tempo Teresa riesce ad aprirsi. Il mio lavoro comincia a risultare credibile ai suoi occhi e lei decide di rendermi partecipe della sua storia. Il racconto delle violenze sessuali subite dal suocero e dal marito mi agitano. Teresa descrive minuziosamente ogni particolare, io devo rimanere lucida, concentrata, ma l’adrenalina sale, la sento scorrere all’aumentare dei battiti. Teresa qualche volta si è difesa. Una volta l’ha fatto talmente bene che ha quasi ucciso il suo compagno. Anche se anestetizzata dai farmaci, mi affida la sua angoscia. Ha tre figli piccoli e teme che i suoi familiari possano abusare di loro. Una volta mi saluta dicendo: «Io sto bene nella mia cella. Però da qui il mare non si vede». (continua…)
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